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14 dicembre 2017: Atto giudiziario PENALE
384 messaggi, letto 26584 volte

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Da: Ennio114/12/2017 12:32:08
a che ora consegna napoli?
Rispondi

Da: chilafalaspetti 14/12/2017 12:32:49
è questo
Rispondi

Da: Luli90 14/12/2017 12:33:54
Raga sentenze soluzioni niente?
Rispondi

Da: V.14/12/2017 12:34:04
ma poi al cliente quando verrà al vostro studio, gli darete un parere chiedendo aiuto su questo sito merdoso?

Rispondi

Da: Boh14/12/2017 12:36:25
Per me ok ma se non si chiede l'assoluzione. Se chiediamo quella invece come primo motivo ritengo che bisogna insistere sulla legittima difesa poi proseguirei esattamente così.
Rispondi

Da: Pisellino58 14/12/2017 12:37:27
per napoli consegna alle 18:15
per le sentenze non siamo riusciti a trovare ancora nulla di preciso
Rispondi

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Da: @V.14/12/2017 12:39:38
Luli90 chiederà forse anche come si fa una parcella. Bocciata
Rispondi

Da: Tesi14/12/2017 12:40:47
In via principale: derubricarsi il tentato omicidio, assolvere riconoscendo la legittima difesa.

In via subordinata: Rideterminare la pena, riconoscendo l'eccesso colposo di legittima difesa, derubricando il tentato omicidio a lesioni colpose.
In questo caso non può neppure applicarsi la recidiva (valevole solo per reiterazione di delitti NON colposi), mentre l'eccesso colposo integra comunque delle fattispecie colpose (sebbene per colpa impropria)
Rispondi

Da: cv14/12/2017 12:40:53
sezioni unite penale 2017 n. 35091
Rispondi

Da: Maruz14/12/2017 12:41:48
conconcordo con avvocato 75. non trovo sentenze manco io che palle
Rispondi

Da: cv14/12/2017 12:41:58
sezioni unite penale 2017 n. 35091
solo che non riesco a scaricarla qualcuno ha l'accesso?
Rispondi

Da: ffffffffffffffffff14/12/2017 12:42:38
Mino Raiola, all'anagrafe Carmine Raiola (Nocera Inferiore, 4 novembre 1967), è un procuratore sportivo italiano.

Indice [nascondi]
1    Biografia
2    Carriera
2.1    Gli inizi
2.2    Procuratore
3    Premi
4    Negoziazioni maggiori
5    Note
6    Altri progetti
Biografia[modifica | modifica wikitesto]
Mino Raiola nasce a Nocera Inferiore in provincia di Salerno il 4 novembre 1967[1] e la sua famiglia emigra meno di un anno dopo ad Haarlem, nei Paesi Bassi.[2] Il padre, allora meccanico, apre con successo un'attività di ristorazione, in cui il giovane Mino dà una mano come cameriere.[2][3] Allo stesso tempo consegue la maturità classica[4] e frequenta per due anni l'università, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza.[2][4] Parla sette lingue: italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese.[2]

Carriera[modifica | modifica wikitesto]
Gli inizi[modifica | modifica wikitesto]
Inizia a giocare a calcio nelle giovanili dell'Haarlem, smettendo però a diciotto anni.[2] Nel 1987 diventa responsabile del settore giovanile della squadra.[2] Da questo momento in poi comincia la sua carriera imprenditoriale, acquistando (e poi rivendendo) un ristorante della compagnia McDonald's[1] ed entrando nel consiglio degli imprenditori di Haarlem.[1]

Procuratore[modifica | modifica wikitesto]
All'età di vent'anni fonda la sua prima società di intermediazione, la Intermezzo.[1] Intanto diventa direttore sportivo dell'Haarlem.[2] Grazie a un accordo con il sindacato dei calciatori diventa poi rappresentante all'estero dei giocatori olandesi.[2] Nel 1992 porta Bryan Roy al Foggia, mentre nel 1993 intercorre come mediatore nella trattativa che porta Dennis Bergkamp e Wim Jonk dall'Ajax all'Inter.[4]

Diviene poi agente FIFA e abbandona le altre attività. Fonda la società Sportman con sede a Montecarlo, ma con uffici di rappresentanza anche in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca.[5] Negli anni successivi tratta alcuni giocatori per il mercato italiano, come Michel Kreek, Marciano Vink[2] e soprattutto Pavel Nedvěd.[2]

Raggiunge la notorietà internazionale grazie ai calciatori molto famosi da lui seguiti e alle trattative milionarie in cui è coinvolto durante gli ingaggi dei giocatori stessi: molto diffuso mediaticamente è stato il passaggio di Zlatan Ibrahimović al Barcellona, in cui Raiola firma una clausola con la quale avrebbe guadagnato 1,2 milioni di euro annui, pagati dal Barcellona fino al 2014.[5][6]

Nell'estate del 2010 e nel calciomercato invernale del 2011 ha fatto da mediatore nelle trattative che hanno portato Zlatan Ibrahimović, Robinho, Mark van Bommel, Urby Emanuelson e Dídac Vilà al Milan e Mario Balotelli al Manchester City.[7]

Nell'estate del 2012 è protagonista del passaggio di Ibrahimović dal Milan al Paris Saint-Germain e di Paul Pogba dal Manchester United alla Juventus . Nel gennaio del 2013 si occupa del trasferimento di Mario Balotelli dal Manchester City al Milan.[8]

Nel 2014 cura il trasferimento di Mario Balotelli dal Milan al Liverpool e porta a termine la trattativa per il rinnovo del contratto di Paul Pogba, legato alla Juventus fino al 2019.[9]

Nell'estate 2015 riporta l'attaccante Mario Balotelli dal Liverpool al Milan.

L'estate del 2016 lo vede concludere molti ingaggi dei suoi assistiti col Manchester Utd: passano coi Red Devils Zlatan Ibrahimović svincolato, Henrik Mikytharyan dal Borussia Dortmund e Paul Pogba dalla Juventus; con quest'ultimo trasferimento si assicura 25 milioni di euro di commissione[10].

Premi[modifica | modifica wikitesto]
2016: Miglior agente dell'anno (Globe Soccer Awards)
Negoziazioni maggiori[modifica | modifica wikitesto]
Data    Giocatore    Nuovo club    Club precedente    Importo
Inverno 1988    Frank Rijkaard    Milan    Sporting Lisbona    Sconosciuto
Estate 1993    Dennis Bergkamp    Internazionale    Ajax    12 millioni di sterline[11]
Estate 2001    Pavel NedvÄ›d    Juventus    Lazio    41 millioni di euro[12]
Estate 2004    Zlatan Ibrahimović    Juventus    Ajax    16 millioni di euro[13]
Estate 2006    Zlatan Ibrahimović    Inter    Juventus    24,8 million di euro[14]
Estate 2009    Zlatan Ibrahimović    Barcellona    Inter    46 millioni di euro[15]
Estate 2010    Robinho    Milan    Manchester City    35 millioni di euro[16]
Estate 2010    Mario Balotelli    Manchester City    Inter    24 millioni di sterline[17]
Estate 2010    Zlatan Ibrahimović    Milan    Barcellona    24 milioni di euro (prestito)
Estate 2012    Zlatan Ibrahimović    Paris Saint-Germain    Milan    20 millioni di euro
Inverno 2013    Mario Balotelli    Milan    Manchester City    20 millioni di euro
Inverno 2013    Bartosz Salamon    Milan    Brescia    3,5 millioni di euro
Estate 2014    Mario Balotelli    Liverpool    Milan    16 millioni di euro
Estate 2016    Zlatan Ibrahimović    Manchester United    Paris Saint-Germain    Free[14]
Estate 2016    Henrikh Mkhitaryan    Manchester United    Borussia Dortmund    31 millioni di sterline
Estate 2016    Paul Pogba    Manchester United    Juventus    105 millioni di euro[18]
Estate 2016    Mario Balotelli    Nizza    Liverpool    Parametro zero[19]
Estate 2017    Romelu Lukaku    Manchester United    Everton    85 milioni di euro
Estate 2017    Blaise Matuidi    Juventus    Paris Saint-Germain    15 milioni di euro
Note[modifica | modifica wikitesto]
^ a b c d Mi chiamo Mino, risolvo problemi, GQ Italia, ottobre 2010.
^ a b c d e f g h i j Il cacciatore di piedi: Mino Raiola, ilsecoloxix.it, 18 marzo 2011. URL consultato il 7 aprile 2011.
^ Gaia Piccardi, Parla Raiola: «Balotelli non è leader, Liverpool per lui è l'ultima spiaggia», in corriere.it (Milano), Corriere della Sera, 23 agosto 2014. URL consultato il 23 agosto 2014.
^ a b c Calciomercato: il trionfo di Mino Raiola, panorama.it, 31 agosto 2010. URL consultato il 7 aprile 2011.
^ a b Raiola, il procuratore che guadagna quanto un fuoriclasse, sport.sky.it, 5 settembre 2010. URL consultato il 7 aprile 2011.
^ Fabrizio Romano, In casa Inter torna la paura: Raiola nuovo procuratore di Balotelli!, in fcinternws.it, 11 marzo 2010. URL consultato il 23 agosto 2014.
^ Brescia, Jonathas dall'Az Alkmaar, corrieredellosport.it, 31 gennaio 2011. URL consultato il 7 giugno 2011.
^ Raiola: "Con Balotelli la serie A vale di più - Sarà rimpianto in Inghilterra"
^ Francesco Agliata, Juventus, Raiola sul rinnovo di Pogba: "Avanti insieme fino al 2019", Soccer Magazine, 24 ottobre 2014. URL consultato il 28 ottobre 2014.
^ Pogba-Manchester United: 25 milioni a Raiola! Nelle casse della Juve 78 Gazzetta.it
^ Dennis Bergkamp - The Iceman Website Archiviato il 18 settembre 2010 in Internet Archive.
^ Nedved: I can retire happy
^ Operations concerning Zlatan Ibrahimovic and Fabrizio Miccoli registration rights (PDF), Juventus, 31 agosto 2004. URL consultato il 4 settembre 2010.
^ a b ZLATAN IBRAHIMOVIC SIGNS FOR INTER, Internazionale, 10 agosto 2006. URL consultato il 26 luglio 2009.
^ Ibrahimovic signs five-year contract, su FCBarcelona.cat, FC Barcelona, 27 luglio 2009. URL consultato il 27 luglio 2009 (archiviato dall'url originale il 24 maggio 2012).
^ English Premier League spending tumbles, in BBC News, 31 agosto 2010.
^ Man City complete Balotelli deal, in BBC News, 13 agosto 2010.
^ Official: Pogba signs for Man Utd for euro 105m, Football Italia, 8 agosto 2016. URL consultato l'8 agosto 2016.
^ Mino Raiola warned Nice against Mario Balotelli signing, ESPN FC, 27 settembre 2016.
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Da: rts14/12/2017 12:45:30
non è questa la sentenza
Rispondi

Da: @cv14/12/2017 12:48:38
Io ho l'accesso è molto Interessante la sentenza
Rispondi

Da: cv14/12/2017 12:48:58
sezioni unite penale 2017 n. 35091
http://www.ratiolegisweb.it/2017/08/08/la-sottile-linea-tra-il-reato-di-tentato-omicidio-volontario-e-lesione-personale-le-precisazioni-della-cassazione/

solo che non riesco a scaricarla qualcuno ha l'accesso?
Rispondi

Da: @cv14/12/2017 12:51:00
Si la sto leggendo in bocca al lupo spero che tu riesca a risolvere la questione. A fine giornata te la copio la sentenza
Rispondi

Da: patroclo79 14/12/2017 12:57:39
mettete la massima
Rispondi

Da: XXX13 14/12/2017 12:59:26
IL TESTO DELLA SENTENZA

Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 10 luglio 2017 - 17 luglio 2017, n. 35091

Presidente Carcano, Relatore Novik

Responsabilità penale - Omicidio volontario - Tentativo - Idoneità e univocità degli atti - Fattispecie - Rinvio

In ordine al reato di tentato omicidio, la qualificazione del fatto in tali termini presuppone che siano compiuti atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il reato: l'idoneità degli atti, da valutarsi con una prognosi compiuta "ex post", ma riportandosi alla situazione che si presentava all'imputato al momento dell'azione, sulla base di tutte le conoscenze dell'agente, postula che dalla condotta concretamente tenuta sia astrattamente possibile la realizzazione dell'evento (non realizzato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente), in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare. Il giudizio sull'idoneità degli atti deve stabilire se essi siano adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell'insieme delle circostanze di tempo e di luogo dell'azione e delle modalità, con cui l'agente ha operato: solo se l'azione criminosa nella sua capacità causale è insufficiente a produrre l'evento, viene infatti meno ogni possibilità di realizzazione e deve ritenersi inidonea.

Quanto al secondo requisito, la direzione non equivoca indica non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l'intenzione dell'agente.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARCANO Domenico - Presidente -

Dott. NOVIK Adet Toni - rel. Consigliere -

Dott. TARDIO Angela - Consigliere -

Dott. VANNUCCI Marco - Consigliere -

Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

F.A., nato il (OMISSIS);

F.D., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 01/02/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ADET TONI NOVIK;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. DE MASELLIS MARIELLA che ha concluso

per il rigetto dei ricorsi.

Udito il difensore l'avv. MERCURELLI MASSIMO GIUSEPPE conclude chiedendo l'inammissibilità del ricorso

e deposita conclusioni e nota spese.

L'avv. D'ALOISI BENEDETTA conclude chiedendo l'accoglimento del ricorso.



Svolgimento del processo.

Con sentenza emessa il 16 gennaio 2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha dichiarato F.D. e F.A. responsabili dei reati di tentato omicidio di N.C., colpito da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi al suo indirizzo, e dello strumentale reato di detenzione e porto fuori dalla propria abitazione di due armi da fuoco (il primo una pistola semiautomatica Glock calibro 9 x 21; il secondo altra arma imprecisata) e, unificati i reati in continuazione, applicate le circostanze attenuanti generiche e quella della provocazione ritenute prevalenti sulla contestata recidiva, li ha condannati alla pena di anni sei mesi otto di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio.

Con sentenza emessa l'1 febbraio 2016, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma di quella di primo grado, ha ridotto la pena per entrambi gli imputati ad anni cinque mesi sei di reclusione ciascuno. Ha confermato nel resto la decisione di primo grado.
Secondo la ricostruzione del primo giudice, sulla base degli atti di indagine - in particolare, si richiamano la deposizione del teste oculare B.A. e intercettazioni - vi era stato un primo alterco, con reciproci spintonamenti, tra N. e F.F., padre degli imputati che si trovava a bordo di un'auto bianca; F. si era allontanato; in sequenza, era giunta una vettura di color rosso nei confronti dei cui occupanti N. aveva urlato minacce; anche l'auto rossa si era allontanata; N. era salito a bordo di una moto percorrendo le strade limitrofe; aveva imboccato contromano alcune strade e, tenendo con una mano il manubrio, aveva esploso colpi di arma da fuoco all'indirizzo di una vettura che era dietro di lui; era sopraggiunta una terza autovettura, Mini Cooper, che aveva investito frontalmente la motocicletta; erano scesi due uomini con le pistole in pugno che, puntando le armi verso il basso, avevano esploso numerosi colpi di arma da fuoco; i tre uomini erano scappati. Sul posto venivano ritrovate l'autovettura mini Cooper, una pistola calibro 38; nove bossoli 9 x
N. veniva ricoverato con prognosi riservata per plurime fratture alle gambe ed alle mani. In base agli accertamenti, alle dichiarazioni di N. (che aveva dichiarato di essere stato aggredito dai due fratelli F.) e a quanto rinvenuto sull'autovettura, due degli autori dei reati erano stati individuati negli odierni imputati. F.D. veniva sottoposto a fermo e, all'udienza di convalida, ammetteva di aver sparato a N., giustificando la condotta con l'aggressivo comportamento tenuto da costui nei confronti del padre. Affermava che lo scontro
tra i mezzi era stato accidentale; aveva sparato contro N. per difendersi dall'aggressione portata dapprima contro il padre e poi nei suoi confronti e del fratello utilizzando l'arma che N. aveva perso nella caduta.

3.1. Il giudice di primo grado riteneva che l'investimento della moto fosse stato intenzionale ed escludeva altresì la evocata situazione di legittima difesa. Sul punto della qualificazione giuridica del reato in termini di tentato omicidio, considerava la micidialità dell'arma, la vicinanza tra i soggetti, il numero dei colpi esplosi e di quelli che avevano attinto la vittima, le regioni corporee colpite attraversate da grandi vasi. Indicava l'elemento psicologico della condotta nel dolo diretto "nella forma del dolo cd. eventuale che sussiste se l'agente si rappresenta e prevede indifferentemente come conseguenza voluta della sua condotta entrambi gli eventi sia quello più grave che quello meno grave".

Con la sentenza impugnata, la corte territoriale nel riportarsi interamente alla ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, respingeva i motivi di appello e così motivava: 1 - Quanto alla posizione di A., le affermazioni difensive, secondo cui la sua presenza sul luogo dell'aggressione era stata neutra ed il reato era ascrivibile ad una azione estemporanea del fratello D., andavano respinte perchè, sia che egli fosse stato uno dei due soggetti armati, sia che si fosse trovato alla guida della mini Cooper, aveva comunque offerto un contributo causale di rilievo nell'aggressione, anche rafforzando ed agevolando il proposito criminoso di D., atteso che l'investimento della motocicletta era stato intenzionale; 2- era esclusa l'ipotesi di una legittima difesa, anche nella forma dell'eccesso colposo, in quanto in base alla ricostruzione degli accadimenti i colpi erano stati esplosi contro N. quando era già caduto ed era disarmato: lo stesso F.D. aveva riferito che N. cadendo aveva perso la pistola e non era più in grado quindi di opporre
resistenza; 3- era esclusa la riqualificazione del tentato omicidio in termini di lesioni volontarie aggravate (cd. gambizzazione), atteso che contro N. erano stati esplosi 12 colpi che avevano procurato importanti lesioni al femore, dove è collocata l'arteria femorale, senza contare il pericolo prodotto dalle schegge ossee derivate dalle fratture e da quelle metalliche nei tessuti molli, pericolo venuto meno per il salvifico intervento chirurgico; vi era stata volontà omicidiaria. Come detto, la pena veniva ridotta per errore nel calcolo e per l'eccessività di quella applicata in continuazione. La riduzione per le attenuanti non veniva calcolata nella massima estensione.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso congiunto i condannati e ne chiedono l'annullamento sulla base dei seguenti motivi, che vengono qui sinteticamente riassunti nei limiti necessari per la decisione, secondo quanto previsto dall'art. 173 disp. att. c.p.p. , preceduti da una premessa generale comune sulla necessità di dover operare anche una ricostruzione del fatto travisato dai giudici di merito.
5.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della legittima difesa ovvero dello stato di necessità altrui, quantomeno nella forma dell'eccesso colposo. Secondo la difesa, la ricostruzione del fatto da parte del primo giudice era stata sbrigativa e approssimativa, determinandone il travisamento, sia nell'aver ritenuto che l'investimento della moto fosse stato intenzionale, mentre il teste aveva detto che era stato frontale, che nell'affermazione apodittica che N. "certamente" non era più armato perchè "con molta probabilità" la pistola che impugnava era caduta a causa dell'urto. Era stato trascurato che N. era armato ed aveva sparato ad altezza d'uomo; che il fatto era avvenuto contromano; che non era escluso che egli fosse ancora armato e che la pistola fosse stata spostata in un secondo momento. In altro travisamento era incorsa la corte di appello quando aveva affermato che N. non era in grado di opporre alcuna resistenza, circostanza questa che non esclude la operatività dell'esimente, anche sotto la forma dell'eccesso colposo.

4.2. Con il secondo motivo si contesta la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata derubricazione del reato di tentato omicidio in lesioni dolose aggravate. Si ritiene che gli indici tenuti presenti dal giudice non erano significativi. In particolare, il numero dei colpi esplosi ed il distretto corporeo attinto denotavano proprio l'assenza della volontà omicida. Si contesta che ci sia stato un "salvifico intervento chirurgico", in quanto N. era stato ricoverato in "prognosi riservata (non in pericolo di vita)".

4.3. Con il terzo motivo, si eccepisce la nullità della sentenza impugnata per violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità di F.A.. Nel motivo di appello la difesa aveva affermato che questo ricorrente si trovava alla guida dell'autovettura e non aveva fornito nessun contributo all'azione estemporanea e non prevedibile del fratello. La corte di appello si era discostata dall'opinione del primo giudice, ma non aveva spiegato in che modo F.A. avesse agevolato l'azione del fratello.

Detta corte aveva affermato che l'intenzione di A. era di speronare l'autovettura e di far cadere il N., e non di agevolare l'evento realizzato dal fratello.

4.3. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio per essere stata applicata ad A. la stessa pena irrogata al fratello nonostante il ruolo secondario avuto.

Si contesta altresì la violazione di legge per essere stata ritenuta la continuazione dei reati in assenza di contestazione e per aver proceduto ad un doppio aumento - il primo giudice aveva applicato un solo aumento - nonostante la contestualità della detenzione dell'arma rispetto al porto, sicchè la prima doveva essere assorbita nel secondo.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e va accolto nei limiti e per le ragioni che seguono.

Il primo e il terzo motivo di ricorso sono manifestamente infondati perchè sotto l'aspetto del vizio motivazionale, in contrasto con la premessa, propongono una non consentita alternativa ricostruzione. Nessuna contraddittorietà è rinvenibile nelle sentenze di merito che hanno ricostruito la vicenda in conformità alle prove. La dinamica dei fatti, che ha visto dopo l'urto frontale scendere immediatamente due uomini armati, in relazione al rapporto di filiazione intercorrente tra i fratelli F. e l'uomo con cui in precedenza N. aveva avuto il litigio e contro il quale, pur andando in moto, aveva esploso colpi di arma da fuoco legittima l'inferenza tratta dai giudici di merito, secondo cui l'urto fu deliberato e finalizzato a rendere inoffensivo N.. In questo senso, già dalle intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado, si ricavava che i ricorrenti furono avvisati della lite in corso e intervennero in aiuto al padre; il primo giudice rilevò a pag. 9 anche che B. aveva riferito che l'urto fu intenzionale. Quindi, se l'azione si fosse arrestata con la caduta di N. a terra, avrebbe avuto senso invocare la legittima difesa in correlazione con la necessità di difendere il proprio padre
dall'aggressione in corso; la tesi viene meno, considerando che, dopo l'urto, due passeggeri dell'auto scesero con le armi in pugno e compirono una esecuzione contro N. che ormai era disarmato e inoffensivo, come riconosciuto dalla stesso D. che, in ottica difensiva, aveva affermato di essersi impossessato della pistola di N. - trovata a distanza - che questi aveva perso e di aver sparato con quella.

Ineccepibilmente la corte territoriale ha ritenuto che era irrilevante che F.A. avesse o meno esploso i colpi, in quanto tutta l'azione era coordinata e l'investimento di N. era finalizzato proprio a renderlo inoffensivo per poterlo colpire senza rischi. In ogni caso, correttamente ha concluso che, quand'anche fosse rimasto a bordo dell'auto, A. aveva prestato un contributo causalmente rilevante per la realizzazione dell'evento. L'assenza dei presupposti della scriminante de qua, in specie del bisogno di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che si caratterizza

per l'erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati (Sez. 5, n. 26172 del 11/05/2010, P., Rv. 247898; Sez. 1, n. 18926 del 10/4/2013, Paoletti e altro, Rv. 256017).

Nessuna violazione di legge è ravvisabile nell'interpretazione e applicazione delle norme e, anche sotto tale profilo, i ricorrenti propugnano una personale ricostruzione dei fatti in dissenso rispetto a quella operata dai giudici di merito.

Il secondo motivo è fondato e il suo accoglimento determina l'assorbimento del quarto. In riferimento alla qualificazione del fatto come tentato omicidio si rileva come, in linea con l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il tentativo di reato presuppone che siano compiuti atti idonei diretti in modo nonequivoco a commettere il reato. L'idoneità degli atti, da valutarsi con una prognosi compiuta "ex post", ma riportandosi alla situazione che si presentava all'imputato al momento dell'azione, sulla base di tutte le conoscenze dell'agente, postula che dalla condotta concretamente tenuta sia astrattamente possibile la realizzazione dell'evento (non realizzato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente), in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Sez. 1, sent. n. 32851 del 10/6/2013, Ciancio Cateno).
Il giudizio sull'idoneità degli atti deve, in particolare, stabilire se essi siano adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell'insieme delle circostanze di tempo e di luogo dell'azione e delle modalità, con cui l'agente ha operato: solo se l'azione criminosa nella sua capacità causale è insufficiente a produrre l'evento, viene infatti meno ogni possibilità di realizzazione e deve ritenersi inidonea.

2.1. Oltre che idonei, gli atti devono essere non equivoci. Se l'idoneità di un atto può denotare al più la sua potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente. Secondo la lezione interpretativa di legittimità, la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di essenza, non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l'id quodplerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente (Sez. 1, n. 9411 del 07/01/2010 - dep. 09/03/2010, Musso e altro, Rv. 246620; Cass., sez. 1, 24 settembre 2008, n. 40058, rv. 241649; Cass., Sez. 2, 4 luglio 2003, n. 36283, rv. 228310).

2.2. A tale stregua, i giudici di merito hanno ricavato l'idoneità e l'univocità dell'azione a cagionare l'evento dalle concrete circostanze in cui si sono svolti i fatti. La potenzialità offensiva dell'arma, il numero dei colpi esplosi, la distanza ravvicinata e il distretto corporeo attinto rivelavano la volontà omicidiaria. 2.3. Senonchè è proprio la zona corporea attinta che non sorregge la conclusione cui è giunta la corte territoriale. E' ben vero, come si afferma, che gli arti inferiori sono attraversati dall'arteria femorale, la cui rottura può causare la morte, ma da ciò può solo trarsi l'inferenza che in questo caso è legittima la contestazione di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale, ma non è vero il contrario, cioè che se l'evento non si verifica il reato rimane allo stadio del tentativo. In un caso come quello in esame, in cui la vittima è per terra e indifesa, è ragionevole ritenere che se lo sparatore avesse voluto causare la morte di N. avrebbe sparato mirando al bersaglio grosso. E' priva di logica l'affermazione per cui chi spara alle gambe "vuole" la morte dell'offeso.

2.4. Incomprensibili ancora sono gli accenni al salvifico intervento chirurgico, di cui non vi è menzione negli atti - nella sentenza di primo grado si legge che non vi era pericolo di vita - e al pericolo della dispersione delle schegge prodotte dalle fratture e dalle schegge metalliche: affermazione quest'ultima apodittica e priva di ogni supporto medico legale. 2.5. La lacunosità della sentenza si coglie anche nella mancanza di argomentazione sul dolo del reato - qualificato erroneamente dal primo giudice come dolo eventuale, ma trattato come alternativo -, liquidato con il richiamo assertivo alla volontà omicidiaria.

Ne deriva, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per nuovo esame in relazione al punto della motivazione concernente la qualificazione della condotta contestata al capo a).
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con riferimento alla qualificazione giuridica del reato di cui al capo A) e rinvia

per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2017

[1] Marini, La Monica, Mazza, Commentario al codice penale, I, Torino, 2002.

[2] Cass. Pen., Sez. I, 10 giugno 2013, n. 32851; Cass. Pen., Sez. V, 7 ottobre 2011, n. 36422; in passato una corrente minoritaria, seguace della teoria della ricostruzione in astratto dell'idoneità, per spiegare l'idoneità degli atti poneva diretto riferimento ai mezzi usati e richiamando il concetto di "inidoneità assoluta". Quale precipitato, il tentativo punibile era escluso qualora il mezzo usato fosse astrattamente e assolutamente inidoneo a raggiungere il fine che l'agente si era proposto; sul punto Cass. Pen., Sez. I, 22 aprile 1983 secondo cui "Ai fini della valutazione dell'inidoneità degli atti, per escludere la sussistenza del tentativo punibile, il mezzo usato deve essere astrattamente e assolutamente inidoneo a raggiungere il fine che l'agente si è preposto; da questa inidoneità, intesa nel senso di mancanza assoluta di potenza causale, deve distinguersi la semplice insufficienza del mezzo, la quale, denotando soltanto carenza di forza sufficiente a conseguire lo scopo nel caso concreto, vale ad impedire la consumazione del reato, ma non esclude la punibilità del tentativo".

[3] R. Garofoli, Manuale di diritto Penale. Parte generale, NelDiritto Editore, Roma, 2013, 1170.

[4] Cass. Pen., Sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411; Cass. Pen., sez. I, 24 settembre 2008, n. 40058; Cass. Pen., Sez. II, 4 luglio 2003, n. 36283.

[5] R. Garofoli, Manuale di diritto Penale. Parte generale, cit., 904.

[6] Cass. Pen., Sez. IV, 16 maggio 2016, n. 20125, con commento di F. Bisanti, La cooperazione colposa in ambito medico: l'arduo compito del giudice di merito di far luce sulle singole condotte dei sanitari intervenuti, in Diritto e Giurisprudenza Commentata, Dike Giuridica, Roma, 2016, VI, 167 ss.
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Da: Leonor-84  -banned!- 14/12/2017 13:04:36
Patroclo79 il testo della sentenza 35091 è sul sito che ha pubblicato le tracce ieri io l'ho scaricata da lì
Rispondi

Da: Ufolan14/12/2017 13:05:07
a che ora consegna Roma?
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Da: Sentenza  commento14/12/2017 13:05:41
La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d'Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l'assegno divorzile in quanto quest'ultima non aveva dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell'art. 384, 4�° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell'art. 5, comma 6�°, L.div. impone di individuare quale parametro per l'attribuzione dell'assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente.

A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all'ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente.

La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l'assegno, all'entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che - afferma la Corte - deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso.

La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell'ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell'art. 5, comma 6, L.div.

Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, "sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi �«persone singole�», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale", la Corte sottolinea come l'attribuzione dell'assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di "mezzi adeguati", rilevando gli ulteriori criteri enumerati all'art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno.

In altri termini, il giudizio sull'assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur), dall'altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur).

Il parametro di riferimento per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell'assegno dovrà, secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l'art. 337septies fa riferimento per l'individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l'art. 5 comma 6�° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell'autoresponsabilità economica.

Nella fase dell'accertamento dell'an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi propri e dell'impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all'autosufficienza e all'indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi.

Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l'assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel:

1) possesso di redditi di qualsiasi specie;
2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari;
3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale;
4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
In altre parole, solo l'ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all'assegno post-matrimoniale.

Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente.

Occorre innanzitutto chiedersi se la soglia della "autosufficienza economica" possa essere ritenuta coincidente con quella dei "mezzi atti a garantire un'esistenza autonoma e dignitosa" che la stessa Sezione Prima della Corte (C. 1652/1990) aveva già ritenuto costituire il parametro di riferimento per l'attribuzione dell'assegno di divorzio.

In altri termini, occorre chiedersi se, in conformità del recente insegnamento della Corte, sia consentito fare riferimento alla normativa sociale e previdenziale per determinare in concreto quale sia la soglia dell'indipendenza economica.

Questo sembra peraltro essere l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito che, proprio all'indomani della pubblicazione di Cass. n. 11504/17, ha individuato quale parametro la "capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)" indicando quale criterio, sia pur non esclusivo, "quello rappresentato dall'ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato - soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili".

La base normativa del riferimento al parametro dell'indipendenza economica, peraltro, è stata individuata dalla recente sentenza della Corte nell'art. 337-septies, 1�° comma, che prevede che possa essere disposto un assegno in favore dei figli maggiorenni, ove questi non siano "indipendenti economicamente".

Secondo quanto affermato dalla Corte, in assenza di una definizione normativa della nozione di inadeguatezza dei mezzi, sarebbe infatti legittimo ricorrere all'analogia legis e dunque al parametro di cui all'art. 337septies,stante che in entrambi i casi - assegno post-matrimoniale e assegno a favore del figlio maggiorenne - si tratterebbe di "prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia".

In altre parole, e proseguendo nel ragionamento della Corte: se il legislatore ha ritenuto corretta l'erogazione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne ove questo non sia economicamente indipendente, a maggior ragione tale dovrebbe essere il presupposto dell'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, tenuto altresì conto che, mentre la relazione filiale non cessa con la maggiore età, la relazione di coniugio cessa certamente con il divorzio.

Principio regolatore di entrambe le ipotesi sarebbe pertanto il principio di autoresponsabilità, già evidenziato dalla giurisprudenza proprio in materia di mantenimento del figlio maggiorenne, laddove esclude il diritto all'assegno a favore del figlio, pur disoccupato, ma che rifiuti ingiustificatamente l'impegno lavorativo (C. 22.6.2016 n. 12952).

L'accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l'autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne.

In conclusione, se con riferimento al figlio maggiorenne la soglia dell'indipendenza economica non è uguale per tutti, e ciò, non in base al tenore di vita della famiglia, ma in base alle scelte compiute, altrettanto potrà essere con riferimento alla situazione dell'ex coniuge, al quale non necessariamente basterà disporre di quanto necessario per mantenersi nelle sue primarie esigenze di vita per dover essere considerato autosufficiente. Come per il figlio, potrà rilevare il contesto socio-economico, la professionalità acquisita o non acquisita sulla base di scelte concordate e condivise.

Chiaro essendo che, se così non fosse, si arriverebbe all'illogica conclusione che se l'ex coniuge potesse disporre di un reddito minimo, nessuna considerazione potrebbe essere attribuita all'impegno familiare da questi speso, diversamente da quanto accadrebbe con riferimento a colui che di nulla disponga. Il che rischierebbe di indurre a ritenere preferibile l'assenza di redditi e di lavoro, proprio laddove viceversa si cerchi di incentivare la partecipazione di entrambi i coniugi al mondo del lavoro e di consentire un pieno sviluppo della personalità di entrambi.

Anche la mera potenzialità del conseguimento dell'indipendenza economica potrà certamente essere sufficiente per escludere il diritto all'assegno post-matrimoniale, così come è stata riconosciuta sufficiente ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, ma dovrà essere vagliata attentamente sempre in relazione all'età, al titolo di studio, all'esperienza maturata, ma anche alle scelte condivise nel corso del matrimonio (non così ponderata sembra essere stata la decisione di Trib. Venezia 24.5.2017, laddove parrebbe essere stata attribuita rilevanza al semplice possesso della laurea in scienze politiche in capo al coniuge richiedente l'assegno).

Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell'art. 9 L. div.

E' noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l'implicita clausola rebus sic stantibus. L'art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi.

La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull'evoluzione della situazione familiare, ossia sull'allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l'ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell'assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell'assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell'attribuzione dell'assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787).

Occorre pertanto chiedersi se l'onerato della prestazione dell'assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell'indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l'assegno fosse stato pronunciato sulla base dell'accertamento dell'insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l'autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l'insegnamento di Cass. 11504/17?

La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che - pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l'attribuzione dell'assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell'ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente.

Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell'attribuzione dell'assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173).

Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c'è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l'assegno possa essere richiesto attraverso l'instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell'art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l'ex coniuge possa richiedere l'assegno sul presupposto del venir meno di un'indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile.

Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell'ex coniuge, cui fosse stato negato l'assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell'assegno, non così evidente l'accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell'assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne.

E' noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l'indipendenza economica e l'abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell'art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all'art. 337septies, 1�° comma.

Proseguendo lungo la strada dell'analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all'assegno in capo all'ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all'ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell'art. 433 c.c.

La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio.

Come è stato autorevolmente rilevato, l'introduzione nell'ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L'abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l'art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l'operatività dell'abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l'art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l'istruzione sull'eventuale richiesta di addebito, sull'affidamento dei figli e sulle questioni economiche.

Nell'ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione - peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) - la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all'affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all'assegnazione della casa familiare.

Sul presupposto dell'identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che "dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio" (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell'opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002).

Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull'attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt'ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all'attribuzione dell'assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all'assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull'assegno di divorzio, mancherebbe l'interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio.

E' pur vero, peraltro, che l'eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell'assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l'art. 156, 6�° comma, c.c. e non le misure previste dall'art. 8, 3�° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990).

D'altro canto, l'assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l'opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l'assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell'art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990).

Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13�° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164).

Tuttavia, partendo dall'assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall'irrilevanza ai fini della concessione dell'assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull'assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l'insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata.

La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l'interesse del coniuge "debole" a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell'eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell'uguale tenore di vita e, dall'altro, l'interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l'indipendenza economica del coniuge.

Non meno complessa la situazione nell'ipotesi della separazione consensuale.

Secondo quanto previsto dall'art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile.

Si pone dunque con evidenza la necessità/opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli.

E' altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell'assegno di mantenimento e dell'assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi.

In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall'altro lato il coniuge forte vorrà "chiudere" prima possibile l'intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L'orientamento della giurisprudenza, tutt'ora assestata sull'affermazione dell'indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l'affidamento dei figli.

Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l'accentuazione del profilo assistenziale dell'assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull'indisponibilità del diritto.

L'importanza di una negoziazione che metta al centro l'interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell'accertamento dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza.
Rispondi

Da: cv14/12/2017 13:08:57
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-07-2017) 17-07-2017, n. 35091
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico - Presidente -
Dott. NOVIK Adet Toni - rel. Consigliere -
Dott. TARDIO Angela - Consigliere -
Dott. VANNUCCI Marco - Consigliere -
Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
F.A., nato il (OMISSIS);
F.D., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 01/02/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ADET TONI NOVIK;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. DE MASELLIS MARIELLA che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Udito il difensore l'avv. MERCURELLI MASSIMO GIUSEPPE conclude chiedendo l'inammissibilità del ricorso e deposita conclusioni e nota spese.
L'avv. D'ALOISI BENEDETTA conclude chiedendo l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa il 16 gennaio 2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha dichiarato F.D. e F.A. responsabili dei reati di tentato omicidio di N.C., colpito da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi al suo indirizzo, e dello strumentale reato di detenzione e porto fuori dalla propria abitazione di due armi da fuoco (il primo una pistola semiautomatica Glock calibro 9 x 21; il secondo altra arma imprecisata) e, unificati i reati in continuazione, applicate le circostanze attenuanti generiche e quella della provocazione ritenute prevalenti sulla contestata recidiva, li ha condannati alla pena di anni sei mesi otto di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio.
2. Con sentenza emessa l'1 febbraio 2016, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma di quella di primo grado, ha ridotto la pena per entrambi gli imputati ad anni cinque mesi sei di reclusione ciascuno. Ha confermato nel resto la decisione di primo grado.
3. Secondo la ricostruzione del primo giudice, sulla base degli atti di indagine - in particolare, si richiamano la deposizione del teste oculare B.A. e intercettazioni - vi era stato un primo alterco, con reciproci spintonamenti, tra N. e F.F., padre degli imputati che si trovava a bordo di un'auto bianca; F. si era allontanato; in sequenza, era giunta una vettura di color rosso nei confronti dei cui occupanti N. aveva urlato minacce; anche l'auto rossa si era allontanata; N. era salito a bordo di una moto percorrendo le strade limitrofe; aveva imboccato contromano alcune strade e, tenendo con una mano il manubrio, aveva esploso colpi di arma da fuoco all'indirizzo di una vettura che era dietro di lui; era sopraggiunta una terza autovettura, Mini Cooper, che aveva investito frontalmente la motocicletta; erano scesi due uomini con le pistole in pugno che, puntando le armi verso il basso, avevano esploso numerosi colpi di arma da fuoco; i tre uomini erano scappati. Sul posto venivano ritrovate l'autovettura mini Cooper, una pistola calibro 38; nove bossoli 9 x 19. N. veniva ricoverato con prognosi riservata per plurime fratture alle gambe ed alle mani. In base agli accertamenti, alle dichiarazioni di N. (che aveva dichiarato di essere stato aggredito dai due fratelli F.) e a quanto rinvenuto sull'autovettura, due degli autori dei reati erano stati individuati negli odierni imputati. F.D. veniva sottoposto a fermo e, all'udienza di convalida, ammetteva di aver sparato a N., giustificando la condotta con l'aggressivo comportamento tenuto da costui nei confronti del padre.
Affermava che lo scontro tra i mezzi era stato accidentale; aveva sparato contro N. per difendersi dall'aggressione portata dapprima contro il padre e poi nei suoi confronti e del fratello utilizzando l'arma che N. aveva perso nella caduta.
3.1. Il giudice di primo grado riteneva che l'investimento della moto fosse stato intenzionale ed escludeva altresì la evocata situazione di legittima difesa.
Sul punto della qualificazione giuridica del reato in termini di tentato omicidio, considerava la micidialità dell'arma, la vicinanza tra i soggetti, il numero dei colpi esplosi e di quelli che avevano attinto la vittima, le regioni corporee colpite attraversate da grandi vasi. Indicava l'elemento psicologico della condotta nel dolo diretto "nella forma del dolo cd. eventuale che sussiste se l'agente si rappresenta e prevede indifferentemente come conseguenza voluta della sua condotta entrambi gli eventi sia quello più grave che quello meno grave".
4. Con la sentenza impugnata, la corte territoriale nel riportarsi interamente alla ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, respingeva i motivi di appello e così motivava:
1 - Quanto alla posizione di A., le affermazioni difensive, secondo cui la sua presenza sul luogo dell'aggressione era stata neutra ed il reato era ascrivibile ad una azione estemporanea del fratello D., andavano respinte perchè, sia che egli fosse stato uno dei due soggetti armati, sia che si fosse trovato alla guida della mini Cooper, aveva comunque offerto un contributo causale di rilievo nell'aggressione, anche rafforzando ed agevolando il proposito criminoso di D., atteso che l'investimento della motocicletta era stato intenzionale;
2- era esclusa l'ipotesi di una legittima difesa, anche nella forma dell'eccesso colposo, in quanto in base alla ricostruzione degli accadimenti i colpi erano stati esplosi contro N. quando era già caduto ed era disarmato: lo stesso F.D. aveva riferito che N. cadendo aveva perso la pistola e non era più in grado quindi di opporre resistenza;
3- era esclusa la riqualificazione del tentato omicidio in termini di lesioni volontarie aggravate (cd. gambizzazione), atteso che contro N. erano stati esplosi 12 colpi che avevano procurato importanti lesioni al femore, dove è collocata l'arteria femorale, senza contare il pericolo prodotto dalle schegge ossee derivate dalle fratture e da quelle metalliche nei tessuti molli, pericolo venuto meno per il salvifico intervento chirurgico; vi era stata volontà omicidiaria.
Come detto, la pena veniva ridotta per errore nel calcolo e per l'eccessività di quella applicata in continuazione. La riduzione per le attenuanti non veniva calcolata nella massima estensione.
5. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso congiunto i condannati e ne chiedono l'annullamento sulla base dei seguenti motivi, che vengono qui sinteticamente riassunti nei limiti necessari per la decisione, secondo quanto previstodall'art. 173 disp. att. c.p.p., preceduti da una premessa generale comune sulla necessità di dover operare anche una ricostruzione del fatto travisato dai giudici di merito.
5.1. Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della legittima difesa ovvero dello stato di necessità altrui, quantomeno nella forma dell'eccesso colposo.
Secondo la difesa, la ricostruzione del fatto da parte del primo giudice era stata sbrigativa e approssimativa, determinandone il travisamento, sia nell'aver ritenuto che l'investimento della moto fosse stato intenzionale, mentre il teste aveva detto che era stato frontale, che nell'affermazione apodittica che N. "certamente" non era più armato perchè "con molta probabilità" la pistola che impugnava era caduta a causa dell'urto. Era stato trascurato che N. era armato ed aveva sparato ad altezza d'uomo; che il fatto era avvenuto contromano; che non era escluso che egli fosse ancora armato e che la pistola fosse stata spostata in un secondo momento. In altro travisamento era incorsa la corte di appello quando aveva affermato che N. non era in grado di opporre alcuna resistenza, circostanza questa che non esclude la operatività dell'esimente, anche sotto la forma dell'eccesso colposo.
4.2. Con il secondo motivo si contesta la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata derubricazione del reato di tentato omicidio in lesioni dolose aggravate. Si ritiene che gli indici tenuti presenti dal giudice non erano significativi. In particolare, il numero dei colpi esplosi ed il distretto corporeo attinto denotavano proprio l'assenza della volontà omicida. Si contesta che ci sia stato un "salvifico intervento chirurgico", in quanto N. era stato ricoverato in "prognosi riservata (non in pericolo di vita)".
4.3. Con il terzo motivo, si eccepisce la nullità della sentenza impugnata per violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità di F.A.. Nel motivo di appello la difesa aveva affermato che questo ricorrente si trovava alla guida dell'autovettura e non aveva fornito nessun contributo all'azione estemporanea e non prevedibile del fratello. La corte di appello si era discostata dall'opinione del primo giudice, ma non aveva spiegato in che modo F.A. avesse agevolato l'azione del fratello.
Detta corte aveva affermato che l'intenzione di A. era di speronare l'autovettura e di far cadere il N., e non di agevolare l'evento realizzato dal fratello.
4.3. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio per essere stata applicata ad A. la stessa pena irrogata al fratello nonostante il ruolo secondario avuto. Si contesta altresì la violazione di legge per essere stata ritenuta la continuazione dei reati in assenza di contestazione e per aver proceduto ad un doppio aumento - il primo giudice aveva applicato un solo aumento - nonostante la contestualità della detenzione dell'arma rispetto al porto, sicchè la prima doveva essere assorbita nel secondo.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e va accolto nei limiti e per le ragioni che seguono.
1. Il primo e il terzo motivo di ricorso sono manifestamente infondati perchè sotto l'aspetto del vizio motivazionale, in contrasto con la premessa, propongono una non consentita alternativa ricostruzione. Nessuna contraddittorietà è rinvenibile nelle sentenze di merito che hanno ricostruito la vicenda in conformità alle prove. La dinamica dei fatti, che ha visto dopo l'urto frontale scendere immediatamente due uomini armati, in relazione al rapporto di filiazione intercorrente tra i fratelli F. e l'uomo con cui in precedenza N. aveva avuto il litigio e contro il quale, pur andando in moto, aveva esploso colpi di arma da fuoco legittima l'inferenza tratta dai giudici di merito, secondo cui l'urto fu deliberato e finalizzato a rendere inoffensivo N.. In questo senso, già dalle intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado, si ricavava che i ricorrenti furono avvisati della lite in corso e intervennero in aiuto al padre; il primo giudice rilevò a pag. 9 anche che B. aveva riferito che l'urto fu intenzionale. Quindi, se l'azione si fosse arrestata con la caduta di N. a terra, avrebbe avuto senso invocare la legittima difesa in correlazione con la necessità di difendere il proprio padre dall'aggressione in corso; la tesi viene meno, considerando che, dopo l'urto, due passeggeri dell'auto scesero con le armi in pugno e compirono una esecuzione contro N. che ormai era disarmato e inoffensivo, come riconosciuto dalla stesso D. che, in ottica difensiva, aveva affermato di essersi impossessato della pistola di N. - trovata a distanza - che questi aveva perso e di aver sparato con quella.
Ineccepibilmente la corte territoriale ha ritenuto che era irrilevante che F.A. avesse o meno esploso i colpi, in quanto tutta l'azione era coordinata e l'investimento di N. era finalizzato proprio a renderlo inoffensivo per poterlo colpire senza rischi. In ogni caso, correttamente ha concluso che, quand'anche fosse rimasto a bordo dell'auto, A. aveva prestato un contributo causalmente rilevante
per la realizzazione dell'evento. L'assenza dei presupposti della scriminante de qua, in specie del bisogno di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che si caratterizza per l'erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati (Sez. 5, n. 26172 del 11/05/2010, P., Rv. 247898; Sez. 1, n. 18926 del 10/4/2013, Paoletti e altro, Rv. 256017).
Nessuna violazione di legge è ravvisabile nell'interpretazione e applicazione delle norme e, anche sotto tale profilo, i ricorrenti propugnano una personale ricostruzione dei fatti in dissenso rispetto a quella operata dai giudici di merito.
2. Il secondo motivo è fondato e il suo accoglimento determina l'assorbimento del quarto. In riferimento alla qualificazione del fatto come tentato omicidio si rileva come, in linea con l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il tentativo di reato presuppone che siano compiuti atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il reato. L'idoneità degli atti, da valutarsi con una prognosi compiuta "ex post", ma riportandosi alla situazione che si presentava all'imputato al momento dell'azione, sulla base di tutte le conoscenze dell'agente, postula che dalla condotta concretamente tenuta sia astrattamente possibile la realizzazione dell'evento (non realizzato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente), in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Sez. 1, sent. n. 32851 del 10/6/2013, Ciancio Cateno).
Il giudizio sull'idoneità degli atti deve, in particolare, stabilire se essi siano adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell'insieme delle circostanze di tempo e di luogo dell'azione e delle modalità, con cui l'agente ha operato: solo se l'azione criminosa nella sua capacità causale è insufficiente a produrre l'evento, viene infatti meno ogni possibilità di realizzazione e deve ritenersi inidonea.
2.1. Oltre che idonei, gli atti devono essere non equivoci. Se l'idoneità di un atto può denotare al più la sua potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente.
Secondo la lezione interpretativa di legittimità, la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente.
L'univocità, intesa come criterio di essenza, non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l'id quodplerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente (Sez. 1, n. 9411 del 07/01/2010 - dep. 09/03/2010, Musso e altro, Rv. 246620; Cass., sez. 1, 24 settembre 2008, n. 40058, rv. 241649; Cass., Sez. 2, 4 luglio 2003, n. 36283, rv. 228310).
2.2. A tale stregua, i giudici di merito hanno ricavato l'idoneità e l'univocità dell'azione a cagionare l'evento dalle concrete circostanze in cui si sono svolti i fatti. La potenzialità offensiva dell'arma, il numero dei colpi esplosi, la distanza ravvicinata e il distretto corporeo attinto rivelavano la volontà omicidiaria.
2.3. Senonchè è proprio la zona corporea attinta che non sorregge la conclusione cui è giunta la corte territoriale. E' ben vero, come si afferma, che gli arti inferiori sono attraversati dall'arteria femorale, la cui rottura può causare la morte, ma da ciò può solo trarsi l'inferenza che in questo caso è legittima la contestazione di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale, ma non è vero il contrario, cioè che se l'evento non si verifica il reato rimane allo stadio del tentativo. In un caso come quello in esame, in cui la vittima è per terra e indifesa, è ragionevole ritenere che se lo sparatore avesse voluto causare la morte di N. avrebbe sparato mirando al bersaglio grosso. E' priva di logica l'affermazione per cui chi spara alle gambe "vuole" la morte dell'offeso.
2.4. Incomprensibili ancora sono gli accenni al salvifico intervento chirurgico, di cui non vi è menzione negli atti - nella sentenza di primo grado si legge che non vi era pericolo di vita - e al pericolo della dispersione delle schegge prodotte dalle fratture e dalle schegge metalliche: affermazione quest'ultima apodittica e priva di ogni supporto medico legale.
2.5. La lacunosità della sentenza si coglie anche nella mancanza di argomentazione sul dolo del reato - qualificato erroneamente dal primo giudice come dolo eventuale, ma trattato come alternativo -, liquidato con il richiamo assertivo alla volontà omicidiaria.
3. Ne deriva, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per nuovo esame in relazione al punto della motivazione concernente la qualificazione della condotta contestata al capo a).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con riferimento alla qualificazione giuridica del reato di cui al capo A) e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.
Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2017
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Da: cv14/12/2017 13:09:17
https://lybraassociazionegiuridica.weebly.com/atto---14-dicembre-2017.html
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Da: cv14/12/2017 13:10:16
tutto per te@cv
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Da: Sentenza  commento14/12/2017 13:10:59
La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d'Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l'assegno divorzile in quanto quest'ultima non aveva dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell'art. 384, 4�° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell'art. 5, comma 6�°, L.div. impone di individuare quale parametro per l'attribuzione dell'assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente.

A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all'ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente.

La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l'assegno, all'entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che - afferma la Corte - deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso.

La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell'ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell'art. 5, comma 6, L.div.

Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, "sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi �«persone singole�», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale", la Corte sottolinea come l'attribuzione dell'assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di "mezzi adeguati", rilevando gli ulteriori criteri enumerati all'art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno.

In altri termini, il giudizio sull'assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur), dall'altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur).

Il parametro di riferimento per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell'assegno dovrà, secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l'art. 337septies fa riferimento per l'individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l'art. 5 comma 6�° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell'autoresponsabilità economica.

Nella fase dell'accertamento dell'an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi propri e dell'impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all'autosufficienza e all'indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi.

Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l'assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel:

1) possesso di redditi di qualsiasi specie;
2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari;
3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale;
4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
In altre parole, solo l'ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all'assegno post-matrimoniale.

Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente.

Occorre innanzitutto chiedersi se la soglia della "autosufficienza economica" possa essere ritenuta coincidente con quella dei "mezzi atti a garantire un'esistenza autonoma e dignitosa" che la stessa Sezione Prima della Corte (C. 1652/1990) aveva già ritenuto costituire il parametro di riferimento per l'attribuzione dell'assegno di divorzio.

In altri termini, occorre chiedersi se, in conformità del recente insegnamento della Corte, sia consentito fare riferimento alla normativa sociale e previdenziale per determinare in concreto quale sia la soglia dell'indipendenza economica.

Questo sembra peraltro essere l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito che, proprio all'indomani della pubblicazione di Cass. n. 11504/17, ha individuato quale parametro la "capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)" indicando quale criterio, sia pur non esclusivo, "quello rappresentato dall'ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato - soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili".

La base normativa del riferimento al parametro dell'indipendenza economica, peraltro, è stata individuata dalla recente sentenza della Corte nell'art. 337-septies, 1�° comma, che prevede che possa essere disposto un assegno in favore dei figli maggiorenni, ove questi non siano "indipendenti economicamente".

Secondo quanto affermato dalla Corte, in assenza di una definizione normativa della nozione di inadeguatezza dei mezzi, sarebbe infatti legittimo ricorrere all'analogia legis e dunque al parametro di cui all'art. 337septies,stante che in entrambi i casi - assegno post-matrimoniale e assegno a favore del figlio maggiorenne - si tratterebbe di "prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia".

In altre parole, e proseguendo nel ragionamento della Corte: se il legislatore ha ritenuto corretta l'erogazione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne ove questo non sia economicamente indipendente, a maggior ragione tale dovrebbe essere il presupposto dell'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, tenuto altresì conto che, mentre la relazione filiale non cessa con la maggiore età, la relazione di coniugio cessa certamente con il divorzio.

Principio regolatore di entrambe le ipotesi sarebbe pertanto il principio di autoresponsabilità, già evidenziato dalla giurisprudenza proprio in materia di mantenimento del figlio maggiorenne, laddove esclude il diritto all'assegno a favore del figlio, pur disoccupato, ma che rifiuti ingiustificatamente l'impegno lavorativo (C. 22.6.2016 n. 12952).

L'accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l'autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne.

In conclusione, se con riferimento al figlio maggiorenne la soglia dell'indipendenza economica non è uguale per tutti, e ciò, non in base al tenore di vita della famiglia, ma in base alle scelte compiute, altrettanto potrà essere con riferimento alla situazione dell'ex coniuge, al quale non necessariamente basterà disporre di quanto necessario per mantenersi nelle sue primarie esigenze di vita per dover essere considerato autosufficiente. Come per il figlio, potrà rilevare il contesto socio-economico, la professionalità acquisita o non acquisita sulla base di scelte concordate e condivise.

Chiaro essendo che, se così non fosse, si arriverebbe all'illogica conclusione che se l'ex coniuge potesse disporre di un reddito minimo, nessuna considerazione potrebbe essere attribuita all'impegno familiare da questi speso, diversamente da quanto accadrebbe con riferimento a colui che di nulla disponga. Il che rischierebbe di indurre a ritenere preferibile l'assenza di redditi e di lavoro, proprio laddove viceversa si cerchi di incentivare la partecipazione di entrambi i coniugi al mondo del lavoro e di consentire un pieno sviluppo della personalità di entrambi.

Anche la mera potenzialità del conseguimento dell'indipendenza economica potrà certamente essere sufficiente per escludere il diritto all'assegno post-matrimoniale, così come è stata riconosciuta sufficiente ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, ma dovrà essere vagliata attentamente sempre in relazione all'età, al titolo di studio, all'esperienza maturata, ma anche alle scelte condivise nel corso del matrimonio (non così ponderata sembra essere stata la decisione di Trib. Venezia 24.5.2017, laddove parrebbe essere stata attribuita rilevanza al semplice possesso della laurea in scienze politiche in capo al coniuge richiedente l'assegno).

Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell'art. 9 L. div.

E' noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l'implicita clausola rebus sic stantibus. L'art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi.

La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull'evoluzione della situazione familiare, ossia sull'allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l'ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell'assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell'assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell'attribuzione dell'assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787).

Occorre pertanto chiedersi se l'onerato della prestazione dell'assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell'indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l'assegno fosse stato pronunciato sulla base dell'accertamento dell'insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l'autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l'insegnamento di Cass. 11504/17?

La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che - pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l'attribuzione dell'assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell'ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente.

Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell'attribuzione dell'assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173).

Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c'è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l'assegno possa essere richiesto attraverso l'instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell'art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l'ex coniuge possa richiedere l'assegno sul presupposto del venir meno di un'indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile.

Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell'ex coniuge, cui fosse stato negato l'assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell'assegno, non così evidente l'accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell'assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne.

E' noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l'indipendenza economica e l'abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell'art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all'art. 337septies, 1�° comma.

Proseguendo lungo la strada dell'analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all'assegno in capo all'ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all'ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell'art. 433 c.c.

La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio.

Come è stato autorevolmente rilevato, l'introduzione nell'ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L'abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l'art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l'operatività dell'abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l'art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l'istruzione sull'eventuale richiesta di addebito, sull'affidamento dei figli e sulle questioni economiche.

Nell'ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione - peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) - la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all'affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all'assegnazione della casa familiare.

Sul presupposto dell'identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che "dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio" (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell'opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002).

Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull'attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt'ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all'attribuzione dell'assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all'assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull'assegno di divorzio, mancherebbe l'interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio.

E' pur vero, peraltro, che l'eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell'assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l'art. 156, 6�° comma, c.c. e non le misure previste dall'art. 8, 3�° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990).

D'altro canto, l'assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l'opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l'assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell'art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990).

Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13�° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164).

Tuttavia, partendo dall'assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall'irrilevanza ai fini della concessione dell'assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull'assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l'insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata.

La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l'interesse del coniuge "debole" a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell'eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell'uguale tenore di vita e, dall'altro, l'interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l'indipendenza economica del coniuge.

Non meno complessa la situazione nell'ipotesi della separazione consensuale.

Secondo quanto previsto dall'art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile.

Si pone dunque con evidenza la necessità/opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli.

E' altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell'assegno di mantenimento e dell'assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi.

In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall'altro lato il coniuge forte vorrà "chiudere" prima possibile l'intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L'orientamento della giurisprudenza, tutt'ora assestata sull'affermazione dell'indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l'affidamento dei figli.

Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l'accentuazione del profilo assistenziale dell'assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull'indisponibilità del diritto.

L'importanza di una negoziazione che metta al centro l'interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell'accertamento dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza.
Rispondi

Da: ShshV.14/12/2017 13:25:40
Archivio selezionato: Sentenze Cassazione penale Autorità: Cassazione penale sez. III
Data: 13/01/2016
n. 9142
Classificazioni: CIRCOSTANZE DEL REATO - Circostanze speciali o a effetto speciale: delitti commessi al fine di agevolare un'associazione mafiosa o avvalendosene (art. 7 d.l. [152/91] con - v. in l. [203/91])
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                        SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMORESANO  Silvio
Dott. DE MASI    Oronzo
Dott. MOCCI      Mauro
Dott. DI NICOLA  Vito
Dott. GAI        Emanuela -  rel. Consigliere  -
ha pronunciato la seguente:
                     sentenza
sul ricorso proposto da:
-  Presidente   -
-  Consigliere  -
-  Consigliere  -
-  Consigliere  -
1.
2.
3.
4.
avverso la sentenza del 03/03/2015 della Corte d'appello di Napoli
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Emanuela Gai;
udito   il  Pubblico  Ministero,  in  persona  Sostituto  Procuratore
generale  Dr. Baldi Fulvio che ha concluso chiedendo il  rigetto  dei
ricorsi;
udito  per l'imputato     B. l'avv. Adami Giovanni che ha  concluso
chiedendo l'accoglimento del ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 3 marzo 2015, la Corte d'appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, ha ridotto la pena inflitta a BI.An. ed ha confermato la condanna inflitta a B. V., G.T., D.G.I., in relazione al reato di cui all'art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis e comma 6, art. 80, comma 2 e D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, comma 1 convertito, con modificazione, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, in relazione all'acquisito, detenzione e trasporto di un ingente quantitativo, pari a Kg 18, di hashish, trasportato da (OMISSIS) e sequestrato il 18 luglio 2009.
In particolare, il giudice di secondo grado ha rilevato, dopo aver richiamato per relationem le motivazioni della sentenza del Giudice di primo grado, che il giudizio di responsabilità penale nei confronti dei ricorrenti, in relazione all'acquisito, detenzione di un ingente quantitativo pari a Kg 18 di hashish, trasportato da Milano a Torre del Greco, luogo ove era stato custodito nel garage di BI.An., tra (OMISSIS) e sequestrato il 18 luglio 2009, è fondato su solidi elementi di prova, come evidenziato dal primo giudice, costituiti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia D.G.I., capo dell'omonimo clan camorristico operante in Torre del Greco, e di C.F., suo braccio destro, dichiarazioni intrinsecamente attendibili perchè precise, dettagliate etero e anche autoaccusatorie, vicendevolmente riscontrate, e dalle risultanze delle operazioni di intercettazione telefonica che consentivano di ripercorrere tutte le varie fasi della vicenda, dal viaggio a Milano all'arresto del BI.An..
   B.V., nato a (OMISSIS);
BI.An., nato a (OMISSIS);
G.T., nato a (OMISSIS);
D.G.I., nato a (OMISSIS);
Nei confronti di tutti i ricorrenti la Corte d'appello ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante

di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 comma 1 convertito, con modificazione, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, avendo costoro agito allo scopo di agevolare il clan camorristico D.G., la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 per aver partecipato alla commissione del reato in numero superiore a tre, ed esclusa la configurabilità dell'ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e confermata la ritenuta attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, in capo al D.G., ha ridotto la pena inflitta a BI.An. ed ha confermato le condanne inflitte a B.V., G.T., D.G. I..
2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorsi BI.An., personalmente; l'Avv. Sergio Mazzone, difensore di fiducia di D. G.I.; l'Avv. Giovanni Adami, difensore di fiducia di B.V.; l'Avv. Antonio Gravante, difensore di fiducia di G.T. e ne hanno chiesto l'annullamento per i seguenti motivi, in parte comuni a tutti i ricorrenti, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
2.1. Il ricorrente BI.An. deduce, con il primo motivo, la violazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza a carico del medesimo della circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, comma 1 convertito, con modificazione, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, non ricorrendone i presupposti applicativi non essendo neppure provata l'esistenza del clan camorristico D.G., e il vizio di motivazione in relazione all'omessa motivazione, non avendo, la corte territoriale, motivato sulla sussistenza dell'aggravante nei confronti del ricorrente.
Con il secondo motivo deduce la violazione di legge in relazione all'applicazione della circostanza aggravante di cui al cit. D.P.R., art. 73, comma 6 non essendo provata in capo al ricorrente la conoscenza che il reato era stato commesso da persone in numero superiore a tre in concorso tra loro, non essendo sufficiente il mero dato storico della presenza di almeno tre persone.
Con il terzo e quarto motivo, deduce la violazione della legge penale in relazione agli artt. 132 e 133 c.p. avuto riguardo al trattamento sanzionatorio ancorato quale pena base di anni cinque e dunque quasi al massimo edittale e la violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistente recidiva specifica e infraquinquennale, in realtà insussistente essendo la sentenza, a cui si riferisce la contestata recidiva, passata in giudicato nel 2011 e dunque dopo il fatto, oggi giudicato del 2009, con conseguente illegittimo aumento di pena.
Con il quinto motivo deduce la violazione della legge penale con riferimento all'art. 240 c.p. e L. n. 356 del 1992, art. 12 sexsies e vizio di motivazione avendo la corte d'appello omesso di considerare le allegazioni difensive sulle fonti lecite e proporzionate di reddito di guisa che il provvedimento ablatorio è privo di motivazione.
2.2. Il difensore di D.G.I. deduce la violazione di legge in relazione alla corretta applicazione della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7 e il vizio di motivazione per non aver applicato nella massima estensione l'attenuante pur avendo affermato il rilevante apporto collaborativo del ricorrente sin dall'inizio delle indagini preliminari; la violazione di legge in relazione alla applicazione delle circostanze di cui all'art. 62 bis c.p. su cui non vi è alcuna risposta da parte del giudice d'appello, e vizio di motivazione in relazione alla dosimetria della pena avendo fatto semplice richiamo all'art. 133 c.p..
2.3. Il difensore di B.V. deduce, con il primo motivo, la violazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza, a carico del medesimo, della circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, comma 1 convertito, con modificazione, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, e il vizio di motivazione in relazione all'omessa motivazione sul punto, non avendo la corte territoriale motivato sulla sussistenza dell'aggravante nei confronti del ricorrente che è un soggetto totalmente estraneo all'organizzazione criminale, circostanza questa che richiede un maggior rigore nella verifica della stessa aggravante e puntuale e rigorosa motivazione, non potendo questa essere soddisfatta dall'affermazione del carattere oggettivo della circostanza medesima dovendo sempre verificarsi, ai sensi dell'art. 59 c.p., comma 2, in capo al soggetto agente, la

consapevolezza ovvero l'ignoranza per colpa. Deduce, poi, la motivazione carente circa la sussistenza della citata aggravante perchè ritenuta sussistente sulla base di mere congetture (devono averlo messo al corrente della caratura criminale del D.G.) o circostanze contraddittorie (l'essersi presentato il B. armato all'incontro con il D.G.).
Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione all'affermazione della responsabilità penale fondata su dichiarazioni prive di riscontro, ex art. 192 c.p.p., trattandosi di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e stante l'assenza di intercettazioni dirette nei confronti del B. e l'omessa considerazione delle circostanze documentali che dimostrerebbero l'inattendibilità dei collaboratori di giustizia. In particolare sarebbero smentite le dichiarazioni rese da G.T. sulla presenza della moglie, unitamente al B., durante la visita del secondo a (OMISSIS), parimenti sarebbe smentita la dichiarazione circa il fatto che il B. fosse titolare di discoteche nell'hinterland milanese e gestore di un rent a car, su cui la corte non ha motivato congruamente. Lamenta poi il ricorrente l'omessa motivazione da parte della Corte d'appello della circostanza, emersa da un'intercettazione ambientale (che non risulta prodotta agli atti) registrata durante la traduzione dei detenuti G. e B. all'udienza, nella quale il primo avrebbe minacciato il secondo di fare "certe dichiarazioni", circostanza questa che inficia l'attendibilità del dichiarante le cui dichiarazioni frazionate richiederebbero un più penetrante giudizio e motivazione circa la sua attendibilità.
Con il terzo e quarto motivo deduce la violazione di legge in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la violazione dell'art. 133 c.p. in relazione alla dosimetria della pena assestata in cinque anni e dunque prossima al massimo edittale di pena in assenza di perizia che attesti il principio attivo della sostanza stupefacente.
2.4. Il difensore di G.T. deduce la violazione di legge in relazione alla mancata qualificazione del reato ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 per aver la corte d'appello escluso la riqualificazione con affermazioni generiche senza richiamo al tipo di sostanza stupefacente e il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la violazione dell'art. 133 c.p. in relazione alla dosimetria della pena per avere la corte d'appello richiamato la motivazione della sentenza di primo grado, per relationem, senza confutare le specifiche doglianze svolte nei motivi di appello.
Infine, deduce, il vizio di motivazione in relazione alla circostanza aggravante di cui all'art. 7 cit per non aver la corte d'appello motivato sulla sussistenza in capo al ricorrente G. della circostanza in oggetto non potendo valere la motivazione riferita alla posizione degli altri ricorrenti.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che i ricorsi siano rigettati.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Preliminarmente il Collegio evidenzia che l'istanza di rinvio di udienza per impedimento dell'avv. Gravante deve essere respinta atteso lo stato di detenzione in carcere dei ricorrenti e l'assenza di documentazione circa l'assoluto impedimento a comparire per concomitanti impegni professionali di cui non è dimostrata la precedenza dell'impegno rispetto all'odierno processo, così come risulta sfornita di prova l'impossibilità di nominare sostituti processuali.
5. Nel merito, va premesso che, secondo l'orientamento ormai costante della giurisprudenza di legittimità, è ammessa la motivazione del provvedimento con espresso richiamo per relationem alla motivazione di altro provvedimento, ancorchè non allegato o non trascritto nel provvedimento impugnato, purchè conosciuto o agevolmente conoscibile dall'interessato. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. Sez. U del 21/06/2000, n. 17 Primavera, Rv. 216664), hanno enucleato i requisiti necessari affinchè la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale possa essere considerata legittima, evidenziando che la motivazione: 1) deve fare riferimento, recettizio

o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua, adeguata rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) deve fornire la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, deve essere conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quantomeno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione, requisiti che sono stati ribaditi in pronunce più recenti sicchè deve ritenersi ormai principio consolidato quello della legittimità della motivazione per relationem in presenza dei requisiti sopra evidenziati.
Dunque, non è sufficiente il mero richiamo tout court all'altro provvedimento, ma è necessario che il giudice dia conto di aver preso in considerazione le censure mosse al provvedimento impugnato ed abbia dato congrua motivazione sul richiamo alla motivazione per relationem; dunque, dimostri una non supina ed immotivata adesione al precedente provvedimento. Del resto l'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non può ritenersi soddisfatto dal mero richiamo posto che il giudice dell'impugnazione è tenuto ad esaminare le singole censure mosse da colui che impugna il provvedimento e a dare conto delle ragione per cui le stesse vengono disattese. Con la precisazione che qualora le censure sollevate siano mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni genetiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati (Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014 Bruno, Rv. 259929; Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013 Autieri, Rv. 257056; sez. 6, n. 28411 del 13/11/2012, Santapaola, Rv. 256435; Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008 Baretti, Rv. 239735).
Siffatto principio va riaffermato e condiviso, e va ribadito il principio secondo cui l'integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e secondo grado è legittima e non comporta il vizio di motivazione, soltanto se nella sentenza d'appello sia riscontrabile un nucleo di argomentazione da cui possa desumersi che il giudice del secondo grado, dopo avere proceduto all'esame delle censure dell'appellante, ha fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice dovendo l'ambito dell'autonoma valutazione del giudice d'appello essere correlato alla consistenza e qualità delle censure mosse dall'appellante.
6. Ciò posto, deve preliminarmente esaminarsi, per ragioni logiche, il secondo motivo dedotto dalla difesa di B.V. di violazione di legge penale, processuale e vizio di motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità penale del ricorrente contestata in ragione della ritenuta inattendibilità dei dichiaranti.
La vicenda, come ricostruita dal giudice di primo grado e confermata dalla Corte d'appello, trae origine dal sequestro, avvenuto in data (OMISSIS), di Kg 18 di hashish nel garage nella disponibilità di BI.An. in (OMISSIS). Le successive indagini svolte e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia D.G.I. e C.F. avevano, poi, delineato compiutamente l'episodio contestato consistito nell'acquisito della sostanza stupefacente in Milano da B.V. e G.T., stupefacente che poi era stato trasportato a Torre del Greco, ove, nel garage di BI. A., era stato ritenuto il 18 luglio del 2009. La corte territoriale riporta puntualmente il racconto dei collaboratori D. G.I. e C.F. (coimputato non ricorrente), protagonisti della vicenda in prima persona e dunque a conoscenza diretta dei fatti. Costoro si erano recati in Milano, in quanto il D.G. era alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, qui aveva trattato l'acquisito di droga (dapprima l'acquisito era di cocaina, mentre poi avevano concluso l'acquisto dell'hashish) dal fornitore milanese B.V., indicato da Z.G., originario di Torre del Greco ma trasferitosi nel milanese (coimputato non ricorrente); l'acquisto non venne immediatamente concluso in quell'occasione, tant'è che venne lasciata a Milano l'autovettura opportunamente modificata per consentire l'occultamento della droga. Successivamente il B. e il G. si erano recati in Torre del Greco ove il primo si erà fatto consegnare un orologio marca Rolex che il D.G. indossava, a titolo di acconto; era poi seguita la consegna dei

Kg 18 di hashish che il G. aveva consegnato al D.G. che, a sua volta, aveva consegnato al BI., uomo di fiducia del D.G., per l'occultamento. La corte territoriale ha argomentato l'attendibilità intrinseca dei dichiaranti che, in quanto partecipi in prima persona, erano a conoscenza diretta dei fatti, ed ha fondato il positivo giudizio di attendibilità sulla concordanza assoluta della narrazione delle circostanze fondamentali del viaggio e della trattativa che ha portato all'acquisito della sostanza stupefacente.
Ha messo in evidenza, la corte, che essendo il D.G. esponente di spicco dell'omonimo clan camorristico operante in Torre del Greco e il C. persona a lui vicina, erano una fonte particolarmente affidabile per la conoscenza diretta dei fatti. Ha ritenuto significativa la circostanza che i predetti non avevano avuto alcuna remora ad ammettere le proprie responsabilità nella vicenda, e dunque le dichiarazioni non erano solamente eteroaccusatorie. Infine ha individuato i riscontri esterni nelle risultanze delle operazioni di intercettazione che hanno fotografato la vicenda e nell'ammissione di alcuni imputati ( BI.An. e G.T.). Ha spiegato come le minime divergenze, quale il nome di battesimo errato del G. poi riconosciuto, non minassero l'attendibilità complessiva del racconto, ha argomentato con logicità sui rilievi mossi dalla difesa del B. circa l'assenza di accertamenti sulle discoteche del milanese, ritenuti non pertinenti e sulla presenza/assenza della di lui moglie anch'essa priva di rilievo decisivo. In conclusione, il percorso logico attraverso il quale i giudici del merito sono pervenuti all'affermazione della responsabilità dei ricorrenti per l'acquisito e trasporto dello stupefacente come contestato è congruo e logicamente motivato ed è conforme a diritto. Non sussiste, pertanto, il vizio di motivazione e la violazione di legge penale dedotto, quale secondo motivo, dalla difesa di B.V..
7. Le difese di BI.An., B.V., G. T. hanno dedotto, quale motivo comune, la violazione di legge e il vizio di motivazione con riguardo alla ricorrenza dell'aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, comma 1, convertito, con modificazione, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203. La difesa del BI. deduce, in particolare, l'omessa motivazione da parte della corte territoriale non essendo rinvenibile, in tutta la sentenza, alcun riferimento alle ragioni per le quali il BI. avrebbe agevolato l'associazione mafiosa. L'omessa motivazione è altresì dedotta dalla difesa del G.. La difesa del B. pone l'accento sulla circostanza che, essendo il ricorrente estraneo al clan D.G., la corte avrebbe dovuto argomentare con maggior rigore la sussistenza dell'aggravante nei suoi confronti, soprattutto con riguardo al profilo soggettivo dovendosi, ai sensi dell'art. 59 c.p., comma 2, accertare se il B. fosse a conoscenza ovvero la ignorasse per colpa o la ritenesse per errore determinato da colpa.
8. Deve premettersi che ai ricorrenti è contestata la circostanza aggravante di cui all'art. 7 cit. sotto il profilo della c.d.
agevolazione mafiosa. Non v'è dubbio che, a differenza dell'aggravante dell'uso del metodo mafioso, anch'essa contemplata nel citato art. 7, la prima debba essere qualificata quale circostanza soggettiva perchè incentrata su una particolare motivazione a delinquere desumibile dalla direzione finalistica della condotta, ossia dell'agevolare l'associazione mafiosa. Peraltro, in entrambe le ipotesi contemplate, la detta circostanza aggravante è applicabile in quanto conosciuta o ignorata per colpa o ritenuta insussistente per errore determinato da colpa (art. 59 c.p.), e, mentre la sola circostanza dell'uso del metodo mafioso, di natura oggettiva, si comunica ai concorrenti nel delitto anche quando questi ultimi non siano consapevoli della finalizzazione dell'azione delittuosa a vantaggio di un'associazione di stampo mafioso, quella dell'agevolazione mafiosa non si estende agli eventuali concorrenti nel reato ai sensi dell'art. 118 c.p..
Va, al proposito, evidenziato che la corte territoriale afferma la natura oggettiva della circostanza, in premessa, con richiamo di un arresto risalente al 2012; affermazione che non può essere condivisa alla luce della più recente e maggioritaria giurisprudenza della Corte di legittimità (Sez. 3, n. 36364 del 20 maggio 2015, Mancuso non massimata). In adesione al risalente orientamento argomenta la sussistenza dell'aggravante in capo a tutti gli imputati perchè, come riferito dai collaboratori di giustizia, l'acquisto di droga rientrava nella programmazione dell'attività del clan

camorristico D.G., e il G., originario di Torre del Greco, era perfettamente a conoscenza della caratura criminale del D.G. I. come riferito nel corso del suo interrogatorio. Quanto al B., argomenta la corte, che durante la permanenza in Milano del D.G. e dello Z., in occasione delle trattative volte all'acquisto di stupefacente, "costoro dovevano avere messo al corrente il primo della qualità di capo dell'omonimo clan del D. G.". Prova ne è che il B. si era recato all'appuntamento con il D.G. armato di pistola e quindi poteva rendersi conto della caratura criminale del D.G..
Tale motivazione è da censurare perchè in larga misura carente e assertiva, e comunque fondata su presupposti giuridici errati. Ciò che appare certo è che la finalità agevolatrice, perseguita dall'autore del delitto, deve essere oggetto di rigorosa verifica in sede di formazione della prova sotto il duplice profilo della prova della condotta agevolatrice ossia la prova che il reato sia stato commesso al fine specifico di favorire l'attività dell'associazione mafiosa (Sez. 2, n. 24753 del 09/03/2015, Rv. 264218; Sez. 1, n. 2667 del 30/01/1997 Rv. 207178) e la consapevolezza dell'ausilio all'associazione mafiosa o camorristica, sussistente anche qualora l'autore del reato persegua un ulteriore scopo di trarre un vantaggio proprio dal fatto criminoso (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713), onde evitare il rischio della diluizione nella semplice contestualità ambientale. Come già affermato dalla Corte di legittimità, l'aggravante di cui al citato art. 7, postula che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, ed implica necessariamente l'esistenza reale e non più semplicemente supposta di questa, essendo impensabile un aggravamento di pena per l'agevolazione dell'attività di un'entità solo immaginaria. Ne consegue che l'aggravante in esame postula l'esistenza effettiva di una associazione avente i caratteri di cui all'art. 416 bis c.p. di cui deve essere data dimostrazione (Sez. 2, n. 41003 del 20/09/2013 BI., Rv 257240; Sez. 1, n. 1327 del 18/03/1994, Torcasio, Rv.
197430);a ciò non opponendosi la diversa pronuncia (Sez. 2, n. 17879 del 13/03/2014, Pagano Rv 260007) secondo cui l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, per la sua stessa natura giuridica, prescinde dalla effettiva sussistenza di una specifica associazione criminosa. Tale contrasto è, in realtà, solo apparente, posto che l'affermazione, riportata anche nella massima reperibile sul CED, è stata resa in un contesto nel quale la Corte di legittimità aveva affermato il principio secondo il quale l'aggravante può sussistere anche per l'estraneo al contesto mafioso che pone in essere un reato per agevolarne l'associazione che era nata da una scissione di un noto clan camorristico, anche se non ancora perfettamente autonoma da questo. La giurisprudenza di legittimità, infatti, dopo aver affermato il principio secondo cui un delitto aggravato ex L. n. 203 del 1991, art. 7 può anche essere commesso da un soggetto non inserito in nessuna compagine associativa (Sez. 5, n. 45711 del 02/10/2003), ha sottolineato come la ratio dell'aggravante non è solo quella di aggravare la pena per l'affiliato che utilizzi metodi mafiosi ovvero agisca al fine di agevolare associazioni mafiose, ma anche di reprimere il comportamento di chi agisca con quello specifico metodo, ovvero dia un contributo al raggiungimento dei fini di un'associazione mafiosa pur non essendovi organicamente inserito.
Ciò che conta è la specifica finalità con cui si agisce da cui la configurabilità dell'aggravante anche nei confronti del reato commesso dall'estraneo al sodalizio criminoso.
Ciò posto, la corte territoriale, nell'affermare la natura oggettiva dell'aggravante in questione, ha disatteso i principi ermeneutici che il Collegio intende confermare e ribadire. Ha, poi, argomentato in maniera insufficiente la configurabilità dell'aggravante nei confronti dei ricorrenti fondata su affermazioni assertive - "devono averlo messo al corrente della qualità di capo dell'omonimo clan" - quanto alla posizione di B.V., soggetto estraneo all'associazione camorristica del D.G., e " G.T. e Z.G., originari di Torre del Greco, erano perfettamente al corrente della caratura delinquenziale del D.G.". Anche la circostanza che il B. andò all'incontro, con il D.G. armato non è, di pe sè, dimostrativa della conoscenza dell'appartenenza del D.G. ad un'associazione mafiosa, atteso che nell'incontro le parti trattavano l'acquisito di una partita di droga, reato non necessariamente costituente programma criminoso di un'associazione mafiosa. La sentenza impugnata va annullata sul punto nei confronti di G.T. e B.V.. Con riferimento alla posizione del B. la corte territoriale

dovrà compiere un novo esame attenendosi al principio secondo cui in tema di reati di criminalità organizzata, la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un'associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Sez. 6, n. 2696 del 13/11/2008 P.M. in proc. D'Andrea, Rv. 242686).
Infine, nella sentenza impugnata non si rinviene un nucleo motivazionale con riguardo alla posizione di BI.An., custode della droga ricevuta dal D.G.. La motivazione in punto configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 7 cit. nei confronti del ricorrente è del tutto omessa. Anche per il BI. la Corte d'appello dovrà uniformarsi ai principi sopra evidenziati.
9. Con riferimento aì restanti motivi, osserva il Collegio che manifestamente infondata è la censura, mossa dal ricorrente BI. A., di inosservanza della legge penale di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 avendo la corte territoriale fatto corretta applicazione del principio secondo cui in tema di sostanze stupefacenti, perchè possa sussistere l'aggravante del concorso di tre o più persone, occorre che ciascuno dei soggetti coinvolti agisca nell'ambito di una delle condotte previste per l'integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto, detenzione, o altre), essendo, nel caso in esame, a ciascuno dei partecipi riconosciuto uno specifico ruolo ( B. offre in vendita, Z. intermedia, D.G. acquista e BI. detiene) (Sez. 6, n. 10269 del 21/11/2013 Metani Rv. 261719).
10. Manifestamente infondata è la doglianza proposta da G. T. sul mancato riconoscimento dell'ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, già prospettata nel giudizio di appello e ampiamente vagliata e disattesa dalla corte che ha fatto buon governo dei principii, più volte stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui la fattispecie del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, anche all'esito della formulazione normativa introdotta dal D.L. n. 146 del 2013, art. 2 (conv. nella L. n. 10 del 2014), può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (da ultimo, v. Sez. 3, n. 27064 del 19/03/2014, dep. 23/06/2014, Rv.
259664; Sez. 6, n. 39977 del 19/09/2013, dep. 26/09/2013, Rv.
256610). In applicazione di tale regula iuris, la corte d'appello ha correttamente ritenuto, confermando la decisione del giudice di primo grado, di escludere che la lesione del bene giuridico protetto fosse di lieve entità, facendo riferimento, con motivazione immune da vizi logico-giuridici in questa sede rilevabili, ai dati inerenti al dato ponderale significativo pari a Kg 18 di hashish, significativo di collegamenti con i fornitori ad un livello elevato, alla circostanza, inerente alle modalità dell'azione per cui il fatto complessivamente considerato desta elevato allarme sociale. In definitiva la sentenza impugnata ha, con motivazione adeguata, coerente e immune da vizio logico, escluso la ricorrenza di un fatto di lieve entità, e dimostra di aver autonomamente esposto le ragione del diniego, del che è da escludersi l'ulteriore censura dell'omessa motivazione.
11. Parimenti, manifestamente infondati sono i motivi in punto trattamento sanzionatorio, diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche svolti dal BI., G. e D.G..
Nei confronti del primo la corte d'appello ha rideterminato la pena riducendola, pur confermando il diniego di concessione delle circostanze di cui all'art. 62 bis c.p. con richiamo alla gravità del fatto e alla pericolosità desunti dai precedenti penali e dunque con motivazione immune da vizio logico; il G. si limita ad invocare l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche ed il contenimento della pena inflitta sulla scorta di considerazioni del tutto generiche. Quanto al B. la

conferma del trattamento sanzionatorio è ancorata alla gravità del fatto e al ruolo del medesimo nella vicenda, elementi su cui fonda il diniego delle circostanze attenuanti generiche, dunque la motivazione è adeguata ed è incensurabile in sede di legittimità. Quanto al D.G. osserva la corte che non è possibile addivenire ad un trattamento sanzionatorio più mite giacchè il giudice di primo grado, nella determinazione della pena, aveva omesso l'aumento di pena per l'aggravante di cui alla L. n. 231 del 1991, art. 7, avendola elisa con l'attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7 la cui misura, non nel massimo come vorrebbe il ricorrente, è legale e non presenta profilo di illogicità nella sua determinazione nel range previsto. Infine le circostanze attenuanti generiche al D. G. sono state concesse già dal giudice di primo grado.
Infine è inammissibile ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3, perchè non devoluta nei motivi di appello, la dedotta violazione di legge con riferimento all'aumento di pena per la ritenuta recidiva in capo a BI.An..
12. Infine le doglianze contenute nel ricorso del BI. relative all'insussistenza dei presupposti dell'operata confisca ex L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies sono in parte del tutto generiche ed in parte infondate. Va premesso che all'imputato, sono stati confiscati, ai sensi della L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, beni immobili e autovetture dei quali non ha giustificato la provenienza e di cui risulta avere la disponibilità, aventi un valore sproporzionato rispetto alle capacità reddituali sue e del suo nucleo familiare. La vicinanza del BI. al capo clan D.G., con cui era in affari di droga, e la circostanza che i redditi famigliari non avrebbero consentito gli acquisiti effettuati, sono elementi che la corte ha valutato per confermare il provvedimento di sequestro a fronte del quale il ricorrente oppone generiche affermazioni comprovanti le fonti di reddito lecite non supportate da documenti e/o altri elementi. La genericità del motivo rende lo stesso inammissibile.
13. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla configurabilità della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 nei confronti di BI. A., B.V. e G.T. con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.
14. Il ricorso di D.G.I. deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 c.p.p..
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso di D.G.I. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di BI.An., B.V. e G.T. limitatamente alla configurabilità della circostanza aggravante di cui alla L. 203 del 1991, art. 7 e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.
Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti. Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2016.
Rispondi

Da: Michele29128014/12/2017 13:26:39
Ma lo sfigato che posta le pagine di Wikipedia è lo stesso moralista che prima si faceva portatore del decoro della professione e della preparazione degli esaminati??? Si vede che hai una giornata piena di appuntamenti e di clienti e che non hai tempo da perdere .... sfigato
Rispondi

Da: Maruz14/12/2017 13:27:55
raga qualcuno mi passa il motivo sull'esclusione della recidiva?
Rispondi

Da: patroclo79 14/12/2017 13:41:16
Derubricazione a lesioni aggravate in quanto manca l'animus necandi (e per tutto quello che afferma la sent n. 35091/2017.
Vi è anche la desistenza volontaria perché pur potendolo colpire a terra, non lo fa (quindi cmq vi è derubricazione)
Applicazione delle circostanze attenuanti comuni perché ha agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui.
Vi trovate? va aggiunto altro?
Rispondi

Da: chilafalaspetti 14/12/2017 13:43:22
aggiungile sempre, nella pratica si fa
Rispondi

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