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commissario forestale prove scritte
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Da: la cina16/10/2011 20:47:38
La Repubblica Popolare Cinese (cinese tradizionale: äè人°±'國, cinese semplificato: ä华人°±'国, pinyin: Zhōnghuá Rénmín Gònghéguó), anche nota più semplicemente come Cina (cinese tradizionale: ä國, cinese semplificato: ä国, pinyin: Zhōngguó, letteralmente «Paese Centrale»), è un paese dell'Asia orientale. La sua capitale è Pechino. Componente dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza, del quale è membro permanente con diritto di veto dal 1971.
Indice
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    1 Geografia
    2 L'anomalia cinese
    3 Hong Kong e Macao
    4 La Cina come potenza emergente
    5 Rivendicazioni territoriali
    6 Storia
        6.1 La prima unificazione
        6.2 La Cina nel periodo dell'impero
        6.3 L'invasione dei Mongoli
        6.4 La repubblica
        6.5 Il Comunismo
        6.6 L'apertura alla proprietà privata
    7 Geografia fisica
        7.1 Territorio
            7.1.1 Il Nord-Ovest
            7.1.2 La Mongolia interna
            7.1.3 Il Nord-Est
            7.1.4 La Cina settentrionale
            7.1.5 La Cina meridionale
            7.1.6 L'estrema regione sud-occidentale
        7.2 Idrografia
    8 Flora e fauna
        8.1 Foreste
        8.2 Praterie
        8.3 Ecosistemi d'acqua dolce
        8.4 Laghi d'acqua salata
        8.5 Zone umide costiere
    9 Politica
        9.1 Ordinamento dello Stato
    10 Apparato militare
    11 Geografia umana
        11.1 Popolazione
        11.2 Lingue
        11.3 Religione
        11.4 Alfabetizzazione
    12 Economia
    13 Infrastrutture e Trasporti
    14 Suddivisione amministrativa
        14.1 Città principali
    15 Giustizia e diritti umani
    16 Bibliografia
    17 Note
    18 Voci correlate
    19 Altri progetti
    20 Collegamenti esterni

Geografia [modifica]

La superficie della Cina è di 9 671 018 km², il che ne fa lo stato più esteso dell'Asia orientale; la popolazione è di oltre 1 341 900 000 persone[3], pari a circa il 19,5% della popolazione mondiale: la Cina è il paese più popoloso del mondo.

La forma di stato della Cina è una repubblica socialista governata da un partito unico, il Partito comunista cinese; la sua amministrazione è articolata in 22 province, 5 regioni autonome, 4 comuni, e 2 regioni amministrative speciali.

La Cina confina con 14 paesi: a nord con Russia e Mongolia; a est con la Corea del Nord; a sud con Vietnam, Birmania, Laos, Bhutan e Nepal; a ovest con India, Pakistan, Kazakistan, Tagikistan, Afghanistan e Kirghizistan. Si affaccia inoltre a est sul Mar Giallo e sul Mar Cinese Orientale e sud-est sul Mar Cinese Meridionale.
L'anomalia cinese [modifica]

Dal 1º ottobre del 1949 in Cina è presente un sistema di governo socialista e non va confusa con la Repubblica di Cina, più nota come Taiwan: entrambe le entità statuali rivendicano sovranità territoriale sull'intero territorio della Cina e delle sue isole, benché a livello internazionale l'entità che riceve il maggior riconoscimento sia la Repubblica Popolare Cinese.
Hong Kong e Macao [modifica]

Appartengono alla Repubblica Popolare Cinese anche le città di Hong Kong[4] e di Macao[5], che fino alla fine del XX secolo erano le ultime colonie in terra d'Asia rispettivamente di Regno Unito e Portogallo.
La Cina come potenza emergente [modifica]

L'importanza della Cina nel ventunesimo secolo[6][7] si riflette in virtù del suo ruolo come seconda potenza economica per prodotto interno lordo; inoltre è membro fondatore delle Nazioni Unite (è uno dei cinque membri permanenti con il diritto di veto), aderisce al Shanghai Cooperation Organisation (SCO), e fa parte del OMC, dell'APEC, dell'ASEAN, del G2 e del G20. Con l'introduzione della riforma economica basata sul capitalismo, nel 1978 la Cina è diventata il paese con lo sviluppo economico più veloce al mondo, primo maggiore esportatore (2008), e il primo più grande importatore di merci (2010)[8]. Molti studiosi hanno definito la Cina come la nuova superpotenza militare emergente; già nel 1964 riesce a sviluppare i suoi armamenti nucleari e mantiene dalla fine della Seconda guerra mondiale l'esercito di terra più grande al mondo (Esercito di Liberazione Popolare), il suo budget per la difesa (con un aumento annuale più 10%) è secondo solo a quello degli USA. La rapida industrializzazione ha ridotto il suo tasso di povertà dal 53% nel 1981 all'8% nel 2001.[9] Tuttavia, la Repubblica popolare cinese è ora di fronte a una serie di altri problemi, tra cui il rapido invecchiamento della popolazione a causa della politica del figlio unico[10], un ampliamento urbano-rurale, uno squilibrio economico tra regione costiere e interne, e il degrado ambientale.[11][12]
Rivendicazioni territoriali [modifica]

La Cina rivendica l'isola di Taiwan al governo di Taipei, le isole Ryukyu al Giappone, la provincia dell'Arunāchal Pradesh all'India e le isole Paracel[13].
Storia [modifica]
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Territori occupati dalle dinastie e dagli stati moderni della storia cinese
Una delle statue che fa parte dell'esercito di terracotta nella tomba dell'Imperatore Qin, a Xi'An

La Cina è stata abitata dall'uomo fin da tempi antichissimi; i resti umani ritrovati e classificati come specie ominide a sé (Sinanthropus pekinensis o uomo di Pechino) risalgono a circa 500.000 anni fa. La società cinese passò da matriarcale (10.000 anni fa) a patriarcale (5.000 a.C.) sviluppando l'agricoltura e l'artigianato. Di questo periodo non abbiamo fonti storiche al di fuori di miti e leggende tramandate oralmente: le tre grandi figure di questi miti sono Huang Di, l'Imperatore Giallo, il primo a unificare la Cina, Lei Zu, sua moglie, che introdusse il baco da seta, e Yu il Grande[14] (2205-2197 a.C.) che introdusse l'uso delle armi di bronzo e la dinastia Xia, la prima della storia nazionale. Successivamente ci fu l'epoca dei regni combattenti conclusa con l'unificazione, nel 221 a.C. di tutta la Cina con la fondazione della dinastia Qin. Da qui in poi la storia cinese si identifica con l'impero Han, seguito da varie dinastie ufficiali, fino allo scoppio della Guerra dell'oppio fra Cina e Inghilterra, aprendo il periodo delle concessioni agli stranieri.

Dopo un secolo di rivolte e turbolenze, sedate con l'aiuto di potenze europee e del Giappone, l'autorità imperiale si indebolì sempre di più e nel dicembre 1911, a Nanchino viene proclamata la Repubblica, ponendo fine al Celeste Impero.
La prima unificazione [modifica]

La prima dinastia di imperatori cinesi è la dinastia Xia, fondata dal Grande Yu che lasciò il trono al figlio Qin e ai suoi discendenti, nel 2200 a.C.: l'ultimo Xia fu Jie, che venne detronizzato, nel 1766 a.C. dai fondatori della successiva dinastia Shang. Durante quest'ultima nascono i primi pittogrammi, incisioni su dorsi di tartaruga a scopo augurale e divinatorio, che in seguito divennero gli ideogrammi della scrittura cinese: questa venne poi codificata durante il regno della dinastia successiva, gli Zhou, che regnarono dal 1122 a.C. al 770 a.C. In questo periodo il regno è sempre più diviso e iniziano le prime lotte fra province, che si accentua durante il periodo Chunqiu (Primavere e Autunni) 770-476 a.C., che segna l'ingresso della Cina nell'età del Ferro: in questo periodo nasce e insegna Confucio. Alla fine la litigiosità dei principi locali smembra il regno degli Zhou, e si apre con il periodo dei Regni Combattenti, in cui la Cina è frammentata in una decina di regni in perenne lotta fra di loro. In realtà, anche se queste dinastie sono incluse tra quelle imperiali, fino al 221 a.C. l'Impero Cinese propriamente detto non esiste, poiché questi regni non estendono il loro controllo se non su di una parte della Cina. Inoltre i poteri locali sono ancora molto forti e l'economia è basata sulla schiavitù, un po' come succede nell'Impero Romano. Sarà lo stesso primo imperatore della dinastia Qin (in cinese ç始ç帝) che unificherà la Cina a inventare un nuovo titolo, Huangdi, per designare una forma più alta di autorità e potere: quello dell'Imperatore di tutta la Cina.
La Cina nel periodo dell'impero [modifica]
La Grande Muraglia Cinese, lunga 6.350 km, che doveva servire a contenere le incursioni dei popoli confinanti, in particolare dei Mongoli. Eretta a partire dal III secolo a.C., venne modificata in epoche successive.
Il Palazzo d'Estate a Pechino, con il lago Kunming utilizzato come pista da pattinaggio; oggi il complesso fa parte di un parco, uno dei più belli della capitale cinese

Nel 221 a.C. Ying Zheng, re del regno di Qin, nell'odierna provincia dello Shaanxi, unifica definitivamente la Cina e nominandosi Qin Shihuangdi, cioè "primo augusto imperatore di Qin", fonda la prima dinastia imperiale moderna, la dinastia Qin, che dura solamente undici anni. In questo periodo inizia la costruzione della Grande Muraglia, vengono unificate le unità di misura e la lunghezza dell'asse dei carri. Viene codificata per la prima volta la scrittura cinese, ad opera del primo ministro Li Si, che pubblica il primo catalogo ufficiale con 3.300 caratteri.

Dopo un periodo di turbolenza seguito alla caduta dei Qin, si consolida il potere della dinastia Han, che regna per circa quattro secoli, fino al 220 d.C.: sotto la dinastia Han si apre ufficialmente la via della seta e inizia il commercio con le province romane d'oriente. L'impero comincia ad espandersi nell'Asia continentale, mentre il confucianesimo si afferma come ideologia della classe dirigente cinese. Nel 105 a.C. viene inventata la carta. Al cadere della dinastia Han, l'impero si spezza di nuovo in tre stati (periodo dei Tre Regni, 220-265): regno Wei a nord, regno Shu nell'attuale provincia del Sichuan e il regno Wu a sud. la divisione è favorita dall'introduzione del Buddismo.

Segue la dinastia Jìn denominata "occidentale" nel periodo tra il 265 e il 316, durante la quale si verifica una riunificazione per un breve periodo, e "orientale" nel periodo tra il 317 e il 420 che vede Nanchino come capitale; dal 420 al 589 circa la Cina rimane divisa tra le dinastie del Nord e del Sud, mentre una nuova riunificazione avviene sotto la Dinastia Sui tra il 581 ed il 618, durante la quale la capitale diventa Xi'an; dal 618 al 907 succede la Dinastia Tang, uno dei periodi di massima fioritura della cultura cinese, mentre il periodo dal 907 al 960 viene detto "delle Cinque Dinastie e Dieci Regni". Dal 960 al 1279 l'impero viene domianto dalla Dinastia Song. Tra il periodo Tang e quello Song viene inventata la polvere da sparo, la stampa e la bussola.
L'invasione dei Mongoli [modifica]

Il periodo successivo è segnato dall'invasione dei Mongoli sotto la guida di Gengis Khan e dei suoi discendenti, i quali liquidano la dinastia Song e fondano dal 1279 al 1366 con Kublai Khan la dinastia Yuan, all'inizio della quale risalgono i viaggi di Marco Polo in Cina. Inizialmente la Cina fa parte dello sterminato Impero Mongolo e Kublai Khan era al tempo stesso sovrano di entrambe le entità territoriali; con la frammentazione dei vari Khanati, la dinastia Yuan si limita a governare la Cina. Il dominio mongolo è caratterizzato da una grave crisi demografica e gli invasori faticano a integrarsi con i vinti fino a che una rivolta popolare porta alla cacciata dei Mongoli ed alla fondazione di una nuova dinastia nazionale, la dinastia Ming dal 1368 al 1644. Sotto i Ming la Cina nel XV secolo costruisce in tre anni 1.681 navi di cui molte oceaniche, cosa all'epoca impossibile in Europa, tanto che si può definire sicuramente la superpotenza mondiale di quest'epoca. Successivamente per una profonda crisi politica e d'identità, dovuta in parte alle pressioni dei mongoli e dei tartari a causa delle quali la Cina dovette impiegare le sue forze nella difesa dei confini sottraendole all'espansionismo marittimo, nel 1525 fu dato ordine all'esercito di distruggere qualsiasi vascello oceanico cinese che fosse stato trovato lungo le coste; tale decisione fu la premessa del declino l'impero cinese.

In seguito alla crisi dei Ming, i Manciù invadono la Cina e la conquistano fondando la dinastia Qing, rimasta al potere dal 1644 al 1911, la quale porta l'Impero alla massima estensione territoriale, ma lentamente verso una crisi irreversibile. Ad aggravarla è il movimento Taiping, in una guerra civile che l'impero riuscì a reprimere solo grazie all'aiuto delle potenze europee che non aiutarono il movimento Taiping pur avendo le stesse radici religiose cristiane, in quanto il movimento non consentiva la vendita dell'oppio. Questa guerra causò oltre 20 milioni di morti. Successivamente in particolare l'Inghilterra, scatena le Guerre dell'oppio. Interi territori finiscono sotto l'influenza sia degli europei, che dei giapponesi, e la crisi dell'Impero si fa irreversibile. Tutto ciò si conclude con l'abdicazione del giovane Pu Yi[15], il 12 febbraio 1912.
La repubblica [modifica]

Diversi furono i tentativi di modernizzazione in questo periodo: mentre in Giappone il processo procedette celermente, in Cina venne invece osteggiato prima e dopo la morte dell'imperatore Kuang-Hsiü, lontano parente dell'ultimo imperatore Pu Yi. La vedova Tsu-hsi, zia di Kuang Hsiü, aveva assunto il ruolo di reggente da molti anni ormai e per timore che la riforma confuciana da lei messa in atto allo scopo di rafforzare l'apparato amministrativo dell'impero andasse in frantumi, represse con una certa durezza ogni tentativo di aprire il paese all'occidente.

Due guerre civili fra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Tse-tung (o Mao Zedong) (1927-1937 e 1945-1949) e l'invasione giapponese (1937-1945) termineranno con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese di Mao il 1º ottobre 1949, e della Repubblica nazionale cinese nell'isola di Formosa.
Il Comunismo [modifica]

Nella seconda metà del Novecento, si afferma una linea economica che inizialmente segue il modello sovietico e poi tenta un percorso alternativo che porterà al disastro del Grande balzo in avanti. La terribile carestia, la repressione, i lavori forzati e la Rivoluzione Culturale in cui furono protagoniste le Guardie Rosse, provocheranno decine di milioni di morti.
L'apertura alla proprietà privata [modifica]

Dopo le diverse carestie nel Paese, gli scontri politici interni del Partito, si afferma Deng Xiaoping, che riorganizza l'economia cinese, favorendo il riconoscimento costituzionale della proprietà privata e l'apertura del mercato ad investimenti esteri. Le proteste di Tien An Men, non fermano la politica del Partito Comunista, che dopo il ritorno di Hong Kong e Macao, porta l'economia cinese ai primi posti del globo.

Anche l'occidentalizzazione della Cina, tentata più volte dagli europei a partire dal secolo XVII e culminata con l'irruzione coloniale dalla seconda metà del secolo XIX, è stata assorbita e trasformata nel corso del XX secolo in una singolare forma di comunismo nazionale, uno dei fattori dominanti nella scena internazionale del secondo dopoguerra, facendo dell'antico "Impero di Mezzo" uno dei poli della politica mondiale anche nell'era post-comunista.
Geografia fisica [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Geografia della Cina.
Territorio [modifica]
Questa foto dal satellite mette bene in evidenza l'aridità della Cina occidentale e, al contrario, l'umidità della zona sudorientale.

Con 9.62 milioni di Km quadrati, la Cina è il terzo paese del mondo per estensione (dopo la Federazione Russa e il Canada) e di conseguenza offre una grande varietà di climi e paesaggi. Il punto sul globo terrestre più lontano dal mare (circa 2600 km) si trova in Cina, nell'area desertica nella regione Xinjiang-Uygur. Il sud è diviso tra l'altopiano dello Yunnan-Guizhou, con un'altitudine che parte dai 2000 metri per arrivare ai 550 metri, e i bacini dei grandi fiumi che lo attraversano.

Idealmente si potrebbe dividere la Cina in sei grandi regioni:
Il Nord-Ovest [modifica]

Si divide in tre fasce climatiche, la parte settentrionale fredda, la centrale più temperata e la meridionale umida. Questa regione comprende a nord un bacino chiamato "il bacino di Zungaria",che, nonostante sia caratterizzato da zone rocciose e sabbiose, è una zona piuttosto fertile dove l'agricoltura viene praticata grazie a vasti sistemi di irrigazione; a sud si trova il bacino del Tarim situato tra gli elevati rilievi del Kunlun. Esso comprende il deserto più arido di tutta l'Asia: il Taklamakan.
La Mongolia interna [modifica]

Questa regione possiede un clima molto secco e si trova nella parte centro-settentrionale della Cina. La Mongolia interna è un altopiano caratterizzato da deserti di sabbia, roccia e ghiaia che a est degradano in fertili steppe. Questa regione, delimitata ad est dalla boscosa catena del grande Khingan, comprende pianure ondulate divise da aridi piani rocciosi. Il capoluogo è Hohhot.
Il Nord-Est [modifica]

Comprende tutta la Manciuria a est della catena del grande Khingan: si tratta di una vasta e fertile pianura circondata da monti e colline tagliate da moltissime valli e piccoli pendii. A sud si trova la penisola di Lioodang, le cui coste sono ricche di porti naturali. Nella parte occidentale del nord est si trovano ampie zone desertiche.
La Cina settentrionale [modifica]

Questa regione si trova nella zona delimitata a nord dalla Mongolia interna e, a sud, dal bacino del fiume Chang Jiang; qui si trovano l'altopiano del Loes, caratterizzato da profonde vallate, gole e terrazze coltivate, il bassopiano cinese, i monti dello Shandang e infine, gli aspri e inaccessibili rilievi del sud ovest.
La Cina meridionale [modifica]

Questa regione abbraccia la valle del Chang Jiang e numerose regioni del sud. La valle del grande fiume consiste in una serie di bacini i cui fertili terreni alluvionali sono solcati da canali navigabili e da molti laghi. A ovest si estende il bacino dello Sishuan, un fertile territorio collinare, circondato dagli irregolari altopiani centrali. Gli altopiani meridionali sono compresi tra i monti Tibetani e il mare. A est si estendono zone collinari disboscate e soggette ad erosione; lungo la costa si trovano gli irregolari altopiani sud orientali.
L'estrema regione sud-occidentale [modifica]

È occupata dall'altopiano del Tibet conosciuto anche come il Tetto del Mondo, che, posto ad un'altitudine media di 4510 metri sul livello del mare, è la regione in cui si trovano le montagne più alte del mondo, con ben 14 cime che si elevano al di sopra degli 8000 metri tra cui il K2 ed il Monte Everest. Morfologicamente vario, costituito da vasti affioramenti rocciosi, alternati da pianure alluvionali, laghi salati e paludi, l'altopiano è attraversato da numerose catene montuose e orlato dall'Himalaya a sud, dal Pamir e dal Karakorum a ovest, e dal Quiliam sham a nord. Qui si trova la sorgente del Gange. In estate la catena dell'Himalaya fa da scudo protettivo alle più basse nuvole monsoniche provenienti dai versanti indiano e nepalese. Le piogge sono dunque limitate, presenti soprattutto in luglio/agosto.
Idrografia [modifica]
Le precipitazioni in Cina

La Cina è sede di un gran numero di fiumi. I tre maggiori sono: lo Huang He, lo Chang Jiang e lo Xi Jiang, che nella parte media e bassa del loro corso dividono tre grandi assi orografici della Cina orientale, ed hanno la loro origine sull'altopiano tibetano. Lo Huang He o fiume giallo,nasce nelle montagne del Qinghai, percorre il territorio cinese per circa 4.855 km, prima di sfociare nel Pacifico presso la penisola dello Shandong. Il Chang Jiang o fiume azzurro è il maggiore fiume cinese e il quarto per lunghezza al mondo. Anch'esso nasce dalle montagne del Qinghai, ma procede verso sud-est attraversando così zone di montagne ricche di acqua che gli garantiscono una notevole portata. Lo Xi Jiang nasce sull'altopiano dello Yunnan ed ha notevole importanza dal punto di vista agricolo, dato il clima subtropicale delle regioni irrigate. Nel Guandong confluisce nello "Zhu Jiang" o Fiume delle Perle che è un'altra importante arteria di trasporto fluviale con il suo delta che arriva fino alla città di Canton e oltre verso un territorio pieno di canali e dighe.

Circa la metà dei fiumi della Cina, compresi i tre più lunghi Chang Jiang (fiume Azzurro), Huang He (fiume Giallo) e Xi Jiang, scorre da ovest a est e sfocia nei mari cinesi aperti all'Oceano Pacifico; in minore quantità sfociano nel Mare Del Giappone, mentre altri sono privi di sbocco sul mare e quindi si gettano negli aridi bacini occidentali e settentrionali, dove le acque filtrano nel sottosuolo formando profonde e importanti riserve d'acqua. Le piene dei grandi fiumi portano inondazioni che hanno sovente conseguenze disastrose sugli insediamenti umani e sulle coltivazioni.
Flora e fauna [modifica]

Il territorio cinese, terzo Paese del mondo per estensione, varia in altitudine dal livello del mare ad est, alla vetta dell'Everest (la montagna più alta del mondo) al confine con il Nepal. Le regioni meridionali confinanti con Laos, Vietnam e Myanmar sono ricoperte da foreste pluviali tropicali, mentre in Mongolia Interna sul permafrost dei Monti Da Hinggan, cresce una vegetazione simile alla tundra. La Cina ospita inoltre le più importanti zone umide dell'Estremo Oriente, il più lungo fiume dell'Asia (lo Yangtze) e le sorgenti di due fiumi di inestimabile importanza per centinaia di milioni di persone dell'Asia meridionale e sud-orientale - il Gange e il Mekong. Ma un quinto della Cina è coperto anche da deserti, soprattutto nel nord-ovest del Paese, e aride steppe ricoprono vaste zone dei monti Altai, Tian Shan e Kunlun, nell'estremo ovest, regioni che non possono essere raggiunte né dal monsone di sud-ovest, bloccato dall'altopiano tibetano, né da quello di sud-est, che non raggiunge la zona per la notevole distanza dal mare. Questa gran diversità di topografia ed habitat ha portato ad un notevole sviluppo della vita vegetale e animale.
Foreste [modifica]

In Cina si riscontra una gran varietà di foreste. Sia nelle zone nord-orientali che in quelle nord-occidentali si innalzano montagne ricoperte da gelide foreste di conifere in cui vivono animali come l'alce e l'orso dal collare, oltre a circa 120 specie di uccelli. Nelle foreste di conifere più umide, spesso si sviluppano boschetti di bambù, rimpiazzati, ad altitudini più elevate, da boscaglie di rododendri, ginepri e tassi. Le foreste subtropicali, che dominano le regioni della Cina centrale e meridionale, sono il regno di circa 146.000 specie vegetali, ma anche del famoso panda gigante, della scimmia dorata e della tigre della Cina meridionale. Le foreste pluviali tropicali e quelle monsoniche, confinate allo Yunnan e ad Hainan, contengono attualmente circa un quarto di tutte le specie vegetali e animali della Cina.
Praterie [modifica]

Le praterie ricoprono circa un terzo della superficie totale della Cina. Di queste, le più vaste e fertili sono concentrate quasi tutte in Mongolia Interna, Ningxia, in alcune zone del Qinghai e in Tibet. Queste distese erbose sono l'habitat principale di tre specie a rischio estinzione: il cavallo di Przewalski, l'asino selvatico asiatico e il cammello della Battriana (l'antenato dei cammelli domestici). Spesso gli animali selvatici entrano in competizione diretta con quelli domestici e perciò i carnivori presenti nell'area vengono avvelenati o catturati con trappole; molto frequenti sono anche gli incendi appiccati volutamente dall'uomo per incrementare le zone di pascolo. Tale pratica è stata recentemente vietata dal Governo, ma nelle aree più remote la legge è difficile da far rispettare.
Ecosistemi d'acqua dolce [modifica]

Gli habitat d'acqua dolce ricoprono un ruolo importantissimo in Cina e un'altissima percentuale della popolazione dipende direttamente dalle zone umide - paludi, fiumi e laghi - per l'attività economica, l'irrigazione e l'acqua potabile. Sette dei più importanti fiumi del mondo nascono dagli altopiani della Cina occidentale. Il Fiume Giallo (Huang He), il Fiume Azzurro (Chang Jiang), il Lancang Jiang (Mekong) e il Salween nascono dalle zone orientali dell'altopiano del Tibet-Qinghai, mentre l'Indo, il Gange e il Brahmaputra da quelle meridionali. Questi fiumi sono una fonte inesauribile di acqua, utilizzata sia per bere che a scopo agricolo, ma anche un'importantissima via di comunicazione; non bisogna inoltre dimenticare l'importanza culturale e religiosa che rivestono per circa due miliardi di abitanti di Cina, India, Pakistan, Bangladesh e Asia sud-orientale. I fiumi suddetti danno origine a molte delle migliaia di laghi d'acqua dolce della regione.

Nel nord-est si trova la maggior parte delle paludi d'acqua dolce della Cina. Un'area di 20.000 chilometri quadrati della pianura di Sanjiang, nell'Heilongjiang, è essenzialmente una distesa di laghi d'acqua dolce poco profondi e di letti fluviali dove i fiumi Heilongjiang, Sungari e Wusuli si riuniscono insieme. Questo ecosistema si riscontra anche nel Jilin, nel Liaoning e in Mongolia Interna. Una delle più note aree protette di palude è la Riserva Naturale di Zhalong, un'area di 2000 chilometri quadrati, creata nel 1979 per proteggere i siti di nidificazione della gru della Manciuria e di altri uccelli che vi trascorrono l'inverno. Queste paludi sono anche di grande valore per la raccolta di canne, la maggior parte delle quali viene trasformata in pasta per carta. Gli uccelli acquatici possono vivere nei terreni di raccolta delle canne, almeno ai livelli attuali, dando vita, quindi, ad uno splendido connubio tra conservazione della natura e sviluppo economico. Nel Sichuan occidentale, le paludi offrono terreno di nidificazione alle gru collonero e alle oche indiane.

Tra i laghi della Cina vi sono le più famose zone umide del Paese: il Poyang Hu, nel Jiangxi, e il Dongting Hu, nell'Hunan. Il Dongting Hu, il secondo lago d'acqua dolce più grande della Cina, è di estrema importanza per varie specie di animali selvatici, come il delfino di fiume dello Yangtze e lo storione cinese, ma anche per molti uccelli acquatici che vi svernano. Il Poyang Hu è formato da un complesso di laghetti e zone paludose la cui estensione varia stagionalmente; le inondazioni estive rendono fertilissimo il terreno circostante in autunno e tale caratteristica attrae sia i contadini che gli uccelli migratori. L'importanza dell'area è difficile da sopravvalutare, dato che questi laghi costituiscono l'habitat di svernamento per la quasi totalità della popolazione globale di gru siberiana (circa duecento esemplari), così come per cinquecentomila uccelli che fanno del Poyang Hu la propria dimora durante i mesi invernali. Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni dei più grandi laghi del Poyang sono rimasti in secca alla fine dell'autunno e gli uccelli acquatici si sono ritrovati con una minore disponibilità di cibo.
Le principali regioni della Cina
Laghi d'acqua salata [modifica]

Circa metà dei laghi della Cina sono salati e anche questi, come quelli d'acqua dolce, offrono rifugio a moltissimi uccelli acquatici. Quasi tutti sono concentrati nella Cina nord-occidentale, nei bacini endoreici dell'altopiano tibetano settentrionale e del bacino dello Zaidan. Il più grande di essi è il Qinghai, uno specchio d'acqua di 4.426 chilometri quadrati che ogni estate attrae migliaia di uccelli, compresi i cormorani, i gabbiani del Pallas, le oche indiane e le avocette bianche e nere. Allo stesso modo, il bacino del Tarim, nello Xinjiang, dà sostentamento ad una delle più grandi popolazioni di cicogne nere della Cina. La zona dell'altopiano di Ordos, in Mongolia Interna, così come il Taolimiao-Alashan Nur (un lago dello Xinjiang), offre terreno di nidificazione al raro gabbiano relitto. La maggior parte di questi laghi e paludi varia di livello a seconda delle stagioni ed è minacciata dal sempre più consistente bisogno d'acqua per l'utilizzo umano.
Zone umide costiere [modifica]

La linea costiera della Cina si snoda per circa 18.000 km e si estende dal Golfo di Bohai, gelato in inverno, alle acque tropicali del Mar Cinese Meridionale. Le zone umide costiere sono un'importante zona di sosta per gli uccelli che seguono la rotta migratoria tra la Siberia e l'Australia. L'isola di Chongming, nel delta dello Yangtze, presso Shanghai - la più grande città della Cina ed una delle regioni a maggior sviluppo demografico - gioca un'importanza vitale per questi migratori.
Politica [modifica]

La Repubblica Popolare Cinese è ufficialmente una repubblica popolare. In passato ha avuto una serie di governi autoritari e nazionalisti, sin dalla prima Rivoluzione Xinhai del 1912 (anche detta rivoluzione Xinhai, da non confondere con la Rivoluzione culturale cinese).

Il Partito Comunista, a capo del governo dal 1949, è il più grande partito del mondo, con più di 66 milioni di membri. Negli ultimi anni la Cina sta lentamente trasformando il suo sistema politico/economico in un sistema a socialismo di mercato. Il sistema politico elettivo degli organismi di governo è quello della democrazia popolare su modello dei soviet della Russia Sovietica.
Soldati dell'Esercito di Liberazione Popolare che sfilano
Ordinamento dello Stato [modifica]

La Cina è una Repubblica popolare. Organo Supremo del potere statale è l'Assemblea nazionale del popolo (ANP), i cui 2.979 membri sono eletti per 5 anni dalle province, dalle regioni autonome, dalle municipalità e dalle forze armate.

L'ANP, che si riunisce di regola una volta all'anno, forma al suo interno un comitato permanente di 155 membri, che ne esercita le funzioni negli intervalli fra le sessioni; l'Assemblea elegge il presidente della Repubblica, il primo ministro e il Consiglio di Stato (che svolge le funzioni di governo), formula le leggi, approva i piani e i bilanci dello Stato.

Le assemblee popolari e locali e i Comitati da esse eletti sono gli organi locali del potere statale. Ad ogni modo, l'ANP rappresenta un mero "timbro di gomma"[16], nel senso che possiede un potere de jure ma non de facto, limitandosi solo a "considerare" leggi già scritte dai vertici del Partito.
Apparato militare [modifica]

    Esercito Popolare di Liberazione (acronimo inglese PLA, Caratteri cinesi semplificati: ä国人°è"军, Caratteri cinesi tradizionali: ä國人°è"è», pinyin: Zhōnggºo Rénmín Jiěfàng J«n): si stima (2006) che le forze militari della Cina contino 2,25 milioni di soldati attivi[17], di cui circa 1,6 (70%) schierati nell'esercito, 470 000 (16%) nell'aviazione e 200 000 (10%) nella marina. Quello cinese è l'esercito tuttora più numeroso al mondo, con a disposizione ben 14 580 carri armati, 4 000 mezzi per la fanteria e 25 000 pezzi d'artiglieria. La Cina ha aderito nel 1992 al Trattato di non proliferazione nucleare e possiede 400-600 testate, fra cui 120 armi tattiche e 280 con un raggio d'azione fino a 13 000 km
    Marina dell'esercito popolare di liberazione (acronimo inglese PLAN, cinese semplificato:ä国人°è"军µ·军; cinese tradizionale:ä國人°è"軵·è»; Pinyin: Zhōngguó Rénmín Jiěfàngj«n Hǎij«n): fino ai primi anni novanta del XX secolo la marina militare ha ricoperto un ruolo subordinato alle forze armate terrestri. Ha subito in seguito una rapida modernizzazione, ed è attualmente è la terza più potente al mondo, con oltre 200 000 uomini, organizzata in tre grandi flotte: Flotta del Mare del Nord con sede a Qingdao, la Flotta del Mar Oriente con sede a Ningbo, e la Flotta del Mar del Sud con sede a Zhanjiang. Il suo teatro d'operazioni si estende fin dove la Cina ha o prevede di avere basi d'appoggio: Maldive, Bangladesh, Pakistan e Birmania.
    Aeronautica dell'Esercito Popolare di Liberazione(acronimo inglese PLAAF, cinese semplificato:ä国人°è"军çº军; cinese tradizionale: ä國人°è"è»çºè»; pinyin: Zhōngguó Rénmín Jiěfàngj«n Kōngj«n): con 470 000 avieri, 3.000 aviogetti da combattimento e circa 400 aerei da attacco al suolo è la più grande forza aerea nella costa orientale dell'Asia. È organizzata in sette regioni militari e 24 divisioni aeree.

Geografia umana [modifica]
Evoluzione demografica della Cina dal 1961 ad oggi
Shanghai, una delle città più moderne della Cina
Popolazione [modifica]

La Cina ha una popolazione di circa 1.336.920.000 abitanti[18], con una densità di 137 ab./km². La popolazione è sparsa in modo molto irregolare; è infatti concentrata prevalentemente nelle province orientali nelle grandi pianure, mentre a ovest, zona più aspra e arida, vi è una densità bassissima. Il tasso di crescita della popolazione nel 2006 è 0,59%.La Cina riconosce ufficialmente 56 gruppi etnici distinti, il più grande dei quali è il cinese Han, che costituisce circa il 91,9% della popolazione totale, ma la distribuzione è molto irregolare; esistono infatti vaste zone della Cina occidentale in cui l'etnia Han è una minoranza. Inoltre la riunione di molti cinesi nella maggioranza Han oscura alcune delle grandi differenze linguistiche, culturali e razziali che sussistono tra persone all'interno di questo stesso gruppo. Le grandi minoranze etniche comprendono Zhuang (16 milioni), Manciù (10 milioni), Hui (9 milioni), Miao (8 milioni), Uiguri (7 milioni), Yi (7 milioni), Tujia (5,75 milioni), Mongoli (5 milioni), tibetani (5 milioni), Buyei (3 milioni) e coreani(2 milioni). La natura multietnica della Cina è il risultato in parte dei territori incorporati dalla Dinastia Qing, i cui imperatori erano essi stessi di etnia Manchu e non membri della maggioranza Han. Le teorie etniche cinesi sono pesantemente influenzate da quelle dell'Unione sovietica. La politica ufficiale afferma di essere contro l'assimilazione e sostiene che ogni gruppo etnico dovrebbe avere il diritto di sviluppare i propri linguaggio e cultura. Il grado di integrazione dei gruppi entici di minoranza con la comunità nazionale varia largamente da gruppo a gruppo. Alcuni di essi, come i tibetani e gli Uiguri provano tutt'oggi un forte sentimento di ostilità verso la maggioranza. Invece altri gruppi come gli Zhuang, i cinesi Hui e l'etnia Manciù sono ben integrati.

Oggi,la Repubblica Popolare Cinese ha una dozzina di grandi città, con uno o più milioni di residenti di lungo periodo, tra cui le tre città globali di Pechino, Hong Kong e Shanghai. Le principali città della Cina svolgono ruoli chiave a livello nazionale e per quanto riguarda l'identità regionale, la cultura e l'economia.
Lingue [modifica]

In Cina si parla una grande varietà di lingue, a causa dei numerosi gruppi etnici inglobati nel popolo cinese: ne sono state calcolate 292[19]. Queste lingue sono di solito distinte tra le varianti Han (il cinese propriamente detto) e quelle non-Han (generalmente parlate da minoranze linguistiche), a loro volta suddivise in altri gruppi. La maggior parte di queste sono tanto diverse tra di loro da essere mutuamente inintelligibili

La lingua ufficiale sul territorio della Repubblica Popolare, escludendo Hong Kong e Macao, è il mandarino standard, versione semplificata del mandarino tradizionale, che fa parte della famiglia Han (anche dette lingue sinotibetane). La scrittura del mandarino deriva dai pittogrammi incisi nella terracotta risalenti a 6.000 anni fa. Pur avendo subìto trasformazioni nel corso dei secoli, il sistema degli ideogrammi rimane sostanzialmente molto simile alla scrittura di ventidue secoli fa quando l'unificatore della Cina, l'imperatore Qin Shihuangdi, uniformò gli ideogrammi sviluppatisi localmente durante le dinastie Xia, Shang e Zhou, in modo da dotare la Cina appena unificata di un unico sistema di scrittura comune a tutte le lingue. A fianco del mandarino sono utilizzate altre lingue cinesi, come lo Yue o cantonese (Hong Kong, Canton e provincia), il Wu (Shanghai), il Minbei (Fuzhou), il Minnan (Repubblica di Cina o Taiwan): oltre a questi, altri dialetti sono lo Hakka, il Gan, lo Xiang. Sopravvivono anche alcuni linguaggi Miao nelle zone abitate dalle omonime comunità, una delle 55 minoranze etniche riconosciute ufficialmente in Cina. Dongba, la lingua dei Naxi, è un pittogramma ancora in uso.

Il mandarino prevede in tutto 415 sillabe che possono essere pronunciate applicando 4 toni diversi. Nella traslitterazione standard pinyin, il sistema adottato nel 1958 per trascrivere la pronuncia degli ideogrammi con caratteri latini, i 4 toni vengono trascritti sopra le sillabe con i seguenti segni: tono continuo; tono ascendente; tono discendente poi ascendente; tono discendente breve. I toni si esprimono fondamentalmente variando l'altezza della voce, e sono molto importanti poiché pronunciare una parola con un tono diverso ne altera il significato. La lingua cinese parlata non prevede flessioni né differenziazione del genere (maschile, femminile). I verbi non hanno tempi (passato, futuro), ma si usa una unica forma che normalmente esprime il tempo presente, a meno che non siano presenti riferimenti temporali precisi al passato o al futuro quali: "ieri", "domani", "in futuro", ecc. Con una morfologia così essenziale è naturale che la sintassi rivesta particolare importanza nella grammatica e nella formazione del significato. Nella lingua scritta si utilizzano gli ideogrammi, simboli che indicano un oggetto o un concetto, piuttosto che un fonema che indica un suono come nell'alfabeto latino. Un ideogramma può avere diverse pronunce a seconda della lingua del parlante, ma il suo significato non cambia.

Le altre lingue sono diffuse specialmente nelle regioni più esterne, e alcune sono riconosciute come seconde lingue ufficiali, accanto al mandarino, nelle regioni amministrative speciali: il mongolo nella Mongolia Interna, il tibetano in Tibet, l'uiguro nello Xinjiang; e poi il coreano e il kazaco.
Religione [modifica]

La Repubblica Popolare di Cina è ufficialmente atea. La popolazione religiosa si suddivide però in:

    Confuciana, Taoista e Buddhista 95%
    Cristiana 3,5%
    Islamica 1,5% (non quantificata con certezza)

Alfabetizzazione [modifica]

Il tasso di alfabetizzazione sopra i 15 anni è del 98%, uomini: 99,2%; donne: 96,7% (stime 2001); nel 1950 questo era del 20%.
Studenti universitari: 2,8%; 30 milioni (2010), con aumento di 5 milioni per anno.
Economia [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Economia della Cina.

L'economia cinese è la seconda maggiore economia al mondo per PIL (nominale) prodotto, alle spalle degli Stati Uniti d'America[20], anche se il PIL (nominale) pro capite è novantasettesimo(2010).

Dalla nascita della Repubblica Popolare, nel 1949, il governo socialista portò avanti un modello di economia pianificata in stile sovietico. L'agricoltura venne collettivizzata e la pianificazione centrale avveniva attraverso la definizione di piani quinquennali; inoltre la Costituzione cinese fino al 2004 non riconosceva la proprietà privata.

Dopo la morte di Mao (1976), il controllo del Partito Comunista Cinese fu preso da Deng Xiaoping, che fu il principale fautore della cosiddetta apertura della Cina al mondo occidentale: migliorò infatti le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, ma soprattutto nel 1978 avviò la Cina al cosiddetto socialismo di mercato, un sistema economico che avrebbe avvicinato l'economia cinese al modello capitalista, sostituendo gradualmente la pianificazione centralizzata con un'economia liberale di mercato. Deng avviò al contempo il programma delle "Quattro Modernizzazioni" (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, apparato militare). Le terre non furono mai riprivatizzate, ma affidate ai contadini con contratti di usofrutto pluridecennale, il controllo centralizzato sui prezzi fu allentato, e venne incoraggiata la creazione di nuove imprese attraverso la liberalizzazione di alcuni settori e l'apertura agli investimenti esteri.

Il forte sviluppo economico cinese degli ultimi tre decenni si è basato in larga parte sulla grande quantità di manodopera a basso costo reperibile, che ha attirato la delocalizzazione produttiva di molte imprese occidentali e giapponesi. La delocalizzazione è stata incoraggiata anche da un crescente livello delle infrastrutture e dei trasporti, da una politica governativa favorevole e, a detta di alcuni, da una svalutazione competitiva del renminbi. Secondo le stime dell'OCSE, le imprese private hanno prodotto oltre il 50% del PIL del 2005, rispetto all'1% del 1978. La borsa di Shanghai è attualmente la quinta a livello mondiale per capitalizzazione complessiva.

L'enorme sviluppo economico ha trascinato milioni di cinesi fuori dalla povertà: nel 2009 circa il 10% della popolazione viveva con meno di 1 dollaro al giorno (secondo la PPA), rispetto al 64% del 1978. L'aspettativa di vita è salita a 73 anni. La disoccupazione nelle città alla fine del 2007 era scesa al 4%, mentre la disoccupazione media si attesta attorno al 10%. Al contempo sono cresciuti notevolmente sia la fetta di popolazione appartenente al ceto che i super ricchi (individui con un patrimonio superiore a 10 milioni di yuan). Tuttavia la crescita economica si è concentrata nelle regioni industrializzate del sud-est, contribuendo ad allargare la disparità di reddito tra le diverse regioni della Cina.

Il sistema energetico è ancora inefficiente: sebbene oggi la Cina sia il maggior consumatore mondiale di elettricità, ha bisogno di molta più energia della media dei paesi OCSE per svolgere gli stessi processi industriali, e circa il 70% della produzione viene dalle centrali a carbone, il combustibile fossile di cui la Cina è più ricca (i maggiori giacimenti si trovano nello Xinjang). Per ovviare a questo ritardo strutturale il governo sta promuovendo fortemente fonti di energia più pulite: la Cina è il secondo paese al mondo per produzione di energia eolica dopo gli Stati Uniti, e sfrutta molto anche il suo potenziale idroelettrico (degna di nota è la Diga delle Tre Gole, la più grande al mondo); inoltre sono attive 4 centrali nucleari, per un totale di 11 reattori, e altri 17 sono in costruzione con l'obiettivo di soddisfare il 6% del fabbisogno energetico con l'energia nucleare entro il 2020.
Infrastrutture e Trasporti [modifica]

La rete stradale cinese si estende per una lunghezza complessiva di 1,87 milioni di km, concentrati maggiormente lungo la zona costiera, di cui 34.300 km sono costituiti da strade a scorrimento veloce. A partire dagli anni '90 i collegamenti stradali sono notevolmente aumentati grazie alla costruzione di una rete autostradale che collega l'intera nazione, conosciuta come National Trunk Highway System (NTHS): alla fine del 2009 si contano in Cina 65.000 km di autostrade. I veicoli per uso privato crescono a un ritmo annuo del 15%, e nel 2009 il mercato automobilistico cinese è diventato il maggiore mercato mondiale, superando quello statunitense.

La rete ferroviaria operativa ha raggiunto 73.100 km di cui 23.700 km di ferrovie a più binari e 18.500 km di ferrovie elettriche. Attualmente la Cina possiede la più vasta rete ferroviaria ad alta velocità, con oltre 7.050 km complessivi di tratte. È degna di nota la ferrovia del Qingzang, inaugurata nel 2006 a coronamento di un progetto iniziato negli anni '50, che collega Lhasa, capitale del Tibet, al resto della rete nazionale: è la strada ferrata più alta del mondo, sviluppandosi per l'80% del suo percorso oltre i 4000 metri, e toccando i 5.072 m, ed è per questo anche una delle infrastrutture ferroviarie di più alto livello tecnologico. Il treno costituisce, insieme agli autobus, il mezzo di trasporto più frequentato anche per le tratte lunghe, vista la relativa onerosità dei viaggi aerei. Lo sviluppo del sistema ferroviario, monopolizzato dallo Stato, è stata la risposta privilegiata alla crescente domanda di trasporti che ha accompagnato lo sviluppo economico cinese, ed è per questo che molte centri urbani in forte crescita si stanno dotando di trasporti pubblici su rotaie. Hanno costruito una rete metropolitana, nell'ordine: Pechino (1969), Hong Kong (1979), Tianjin (1980), Shanghai (1995), Canton (1999), Shenzhen (2004), Wuhan (2004), Nanjing (2005) e Chongqing (2005).

Per quanto riguarda il trasporto marittimo, cruciale per esportare la produzione manifatturiera cinese sui mercati mondiali, nei maggiori porti è stato recentemente migliorato il sistema di movimentazione dei container. Tutti i maggiori porti (Hong Kong, Shanghai, Shenzhen, Qingdao, Tianjin, Canton, Xiamen, Ningbo, Dalian) fanno parte del circuito dei primi 50 containers-ports del mondo, dove ogni anno transitano anche più di 100 milioni di tonnellate di merci.

Anche il sistema aeroportuale si è fortemente sviluppato recentemente. Fino al 2007 erano 467 gli aeroporti di qualsiasi tipo attivi in Cina, il più grande e trafficato dei quali è l'Aeroporto Internazionale di Pechino, e i maggiori hub sono quelli di Pechino, Shanghai e Canton.
Suddivisione amministrativa [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Suddivisione amministrativa della Cina.

Le province cinesi da sempre rivestono un importante ruolo culturale in Cina. I cinesi tendono ad identificarsi con la provincia nativa e solitamente ad ogni territorio provinciale corrispondono determinati stereotipi riferiti alla popolazione. I confini della maggior parte delle province cinesi furono stabiliti ai tempi della tarda Dinastia Ming. La Cina ha una giurisdizione su ventidue province (e considera Taiwan la ventitreesima), cinque regioni autonome, quattro municipalità, e due regioni amministrative speciali
Le 22 province (ç shěng) cinesi: Nome     Pinyin     Abbreviazione     Capitale     Superficie     Popolazione
Anhui     安徽     Ānhuǐ     ç Wǎn     Hefei     139.600 km²     59.860.000
Fujian     绺     Fºjiàn     é Mǐn     Fuzhou     121.400 km²     34.710.000
Gansu     ç"è     Gānsù     ç" Gān,
é L'ng     Lanzhou     390.000 km²     25.620.000
Guangdong     ¿ä     Guǎngdōng     ç Yuè     Guangzhou     197.000 km²     86.420.000
Guizhou     è´µ·     Guìzho«     é»" Qián,
è´µ Guì     Guiyang     176.000 km²     35.250.000
Hainan     µ·南     Hǎinán     µ· Hǎi,
ç Qióng     Haikou     34.000 km²     7.870.000
Hebei     河北     Héběi     冀 Jì     Shijiazhuang     187.700 km²     67.440.000
Heilongjiang     é»é±     H"ilóngjiāng     é» H"i     Harbin     460.000 km²     36.890.000
Henan     河南     Hénán     豫 Yù     Zhengzhou     167.000 km²     92.560.000
Hubei     湖北     Hºběi     é È     Wuhan     187.500 km²     60.280.000
Hunan     湖南     Hºnán     湘 Xiāng     Changsha     210.500 km²     64.400.000
Jiangsu     ±è     Jiāngs«     è S«     Nanjing     100.000 km²     74.380.000
Jiangxi     ±è¿     Jiāngx«     èµ Gàn     Nanchang     169.900 km²     41.400.000
Jilin     吉林     Jílín     吉 Jí     Changchun     187.400 km²     27.280.000
Liaoning     è宁     Liáoníng     è Liáo     Shenyang     145.900 km²     42.380.000
Qinghai     é'µ·     Q«nghǎi     é' Q«ng     Xining     720.000 km²     5.180.000
Shaanxi     éè¿     Shǎnx«     é Shǎn,
ç Qín     Xi'an     206.000 km²     36.050.000
Shandong     ±±ä     Shāndōng     é L"     Jinan     156.700 km²     90.790.000
Shanxi     ±±è¿     Shānx«     晋 Jìn     Taiyuan     150.000 km²     32.970.000
Sichuan     四·     Sìchuān     · Chuān,
è Sh"     Chengdu     480.000 km²     87.250.000
Yunnan     äº南     Yºnnán     » Diān,
äº Yºn     Kunming     394.000 km²     42.880.000
Zhejiang     µ±     Zhèjiāng     µ Zhè     Hangzhou     101.800 km²     46.770.000
Città principali [modifica]
Pechino, la città delle Olimpiadi 2008.
Shanghai

    Pechino (capitale)
    Aba
    Abag Qi
    Abagnar Qi
    Anshan
    Baotou
    Changchun
    Changsha
    Chengdu
    Chongqing
    Dalian
    Fuzhou
    Canton
    Guiyang
    Haikou
    Hangzhou
    Harbin
    Hefei
    Hohhot
    Hong Kong
    Jilin
    Jinan
    Jixi
    Kaifeng
    Kunming
    Lanzhou
    Lhasa

   

    Luoyang
    Macao
    Mudanjiang
    Nanchang
    Nanchino
    Nanning
    Ningbo
    Qingdao
    Qiqihar
    Shanghai
    Shenyang
    Shenzhen
    Shijiazhuang
    Suzhou
    Taiyuan
    Tangshan
    Tientsin
    Tianchang
    Ürümqi
    Wenzhou
    Wuhan
    Xi'an
    Xiamen
    Xining
    Xuzhou
    Yinchuan
    Zhengzhou

Giustizia e diritti umani [modifica]
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La Repubblica Popolare Cinese, nonostante le riforme e la conversione al socialismo di mercato degli ultimi 15 anni, non ha introdotto alcuna libertà dal punto di vista politico. Essa è considerata responsabile di crimini contro i suoi stessi cittadini[21]. La situazione dei diritti umani nella Repubblica Popolare Cinese continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani che riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Da un lato il governo ammette le deficienze, dall'altro parla della situazione dei diritti umani come la migliore di tutti i tempi. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguarda delle libertà e dei diritti fondamentali. Nelle carceri laogai ("riforma attraverso il lavoro"), secondo molte fonti, vigerebbero condizioni di vita disumane al limite dello schiavismo e sarebbero applicati sistematicamente tortura e tecniche di lavaggio del cervello.

La Cina è il paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo alle condanne eseguite nel 2007, Amnesty International ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell'arco dell'anno[22]. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un'incidenza dell'85,4% sul totale mondiale[23]. Entrambe le associazioni riconoscono però che c'è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell'Università sudorientale cinese, in un'intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l'anno. In quell'occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina[24], spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga[25]. L'espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong[26], perseguitato dal regime di Pechino. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c'è richiesta di organi compatibili con il condannato[27].

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismoâ), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web[28] una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l'evasione fiscale, l'appropriazione indebita, l'incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga[29].
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Pena di morte nella Repubblica Popolare Cinese.

Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l'esempio più celebre, per l'opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l'occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della setta del Falun Gong. Si pensa da più parti, inoltre, che in Cina vengano applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. Non esistono sindacati indipendenti ed è permesso solo il sindacato statale. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori; ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall'interno degli stessi organi di governo cinesi[30].

In vista delle Olimpiadi di Pechino 2008 il CIO espresse forti perplessità sui ritmi di lavoro con cui gli impianti sportivi venivano costruiti. Sempre in vista delle Olimpiadi la comunità internazionale richiese al governo cinese "un'ulteriore apertura" sul piano delle libertà politiche.

L'evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, 600-800 secondo la CIA, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

Un'altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione famigliare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tuttora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la ''"Legge eugenetica e protezione della salute"'', altrimenti detta ''Legge del figlio minore". La commissione governativa responsabile del progetto è la NPFPC[31], ovvero ''National Population and Family Planning Commission''. Secondo le stesse fonti governative, grazie all'introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevede ufficialmente un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potranno portare a termine un'eventuale gravidanza dietro pagamento di un'ingente multa, oppure saranno obbligati a rinunciare al figlio. Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti:

    la lesione della libertà dei genitori[32];
    l'uso massiccio e obbligatorio dell'aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi (soprattutto in passato);
    le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto [9];
    la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli[33];
    discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all'anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria)[34];
    discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano "pagarsi" il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 6.200 dollari, 3.980 euro).

Questo genere di politica è in Cina un punto di frizione molto critico nei rapporti fra governo e opinione pubblica; il 68 % dei cinesi, in un sondaggio del China Youth Daily (un giornale del partito), si è dichiarato contrario alla pratica di "comprarsi" il diritto di un altro figlio. Pareri sfavorevoli sono stati espressi anche dall'Accademia Cinese delle Scienze[35]. Zhang Weiging, direttore del NPFPC, assicura comunque che la normativa prevede molte eccezioni, e che si sia molto ammorbidita dai primi anni di applicazioni[36]. Il governo assicura inoltre di aver preso seri provvedimenti contro i membri del Partito che abbiano più figli di quanti ne preveda la normativa[37].
Rispondi

Da: il corsista giapponese16/10/2011 20:49:17
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Giappone
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Dati amministrativi
Nome completo     Stato del Giappone, Impero del Giappone
Nome ufficiale     Nihon-koku, Nippon-koku
Lingue ufficiali     giapponese (de facto)[1]
Capitale     Tōkyō  (12.942.360 ab. / 2009)
Politica
Forma di governo     Monarchia costituzionale (imperatore)
Imperatore     Akihito
Primo Ministro     Yoshihiko Noda
Indipendenza     660 a.C. (fondazione dello stato)
Ingresso nell'ONU     Dal 18 dicembre 1956
Superficie
Totale     377.835 km² (60º)
% delle acque     0,8 %
Popolazione
Totale     127.288.419 ab. (2008) (10º)
Densità     337 ab./km²
Geografia
Continente     Asia
Fuso orario     UTC+9
Economia
Valuta     Yen giapponese
PIL (PPA)     4.354.368 milioni di $  (3º)
PIL pro capite (PPA)     34.115 $  (2008)  (19º)
ISU (2007)     0,960 (molto alto) (10º)
Varie
TLD     .jp
Prefisso tel.     +81
Sigla autom.     J
Inno nazionale     Kimi ga yo ("Il Regno dell'Imperatore")
Festa nazionale     11 febbraio
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Il Giappone (日本 Nihon o Nippon?, ufficialmente 日本国 Nihon-koku o Nippon-koku)[2] è uno Stato insulare dell'Asia orientale.

Situato nell'Oceano Pacifico, si trova ad est di Mar del Giappone, Cina, Corea del Nord, Corea del Sud e Russia; e si snoda dal Mare di Ohotsk nel nord, fino al Mar Cinese orientale e Taiwan nel sud. I caratteri che compongono il nome del Giappone significano "origine del sole", ed è questo il motivo per cui è spesso identificato come la terra del Sole nascente o il Paese del Sol levante.

Il Giappone è un arcipelago composto da oltre 3000 isole; le 4 isole più grandi sono: Honsh«, Hokkaidō, Ky«sh« e Shikoku, che da sole rappresentano circa il 97% della superficie terrestre del Giappone. Molte isole sono montagne, alcune di origine vulcanica; per esempio, la vetta più alta del Giappone, il Monte Fuji è un vulcano attivo[3]. Con una popolazione di circa 128 milioni di individui, il Giappone risulta essere la decima nazione più popolosa al mondo. La Grande Area di Tōkyō, che include la città di Tōkyō e numerose prefetture confinanti, è di fatto la più grande area metropolitana del mondo, con oltre 30 milioni di residenti.

Ricerche archeologiche indicano che l'arcipelago è abitato dal Paleolitico superiore. La prima menzione scritta sul Giappone inizia con una breve apparizione in un libro di storia cinese del primo secolo a.C. Alle influenze provenienti dal mondo esterno seguì un lungo periodo di isolamento che ha caratterizzato profondamente la storia del Giappone. Fin dall'adozione dell'attuale Costituzione, il Giappone mantiene una monarchia costituzionale con un imperatore e un parlamento eletto, la dieta.

Tra le grandi potenze[4], il Giappone ha la seconda maggiore economia per prodotto interno lordo e la terza maggiore per potere d'acquisto, è anche il quarto maggiore esportatore e il sesto maggiore importatore a livello mondiale. Inoltre il Giappone è l'unica nazione asiatica del G8 ed attualmente è un membro non permanente del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il Paese ha un moderno apparato militare utilizzato per l'autodifesa e per missioni di pace, ed ha riavuto il diritto di dichiarare guerra (cosa che dopo il 1945 non ha potuto fare).

Il Giappone è un paese sviluppato con uno standard di vita molto elevato (undicesimo a livello mondiale), inoltre i cittadini giapponesi hanno la maggiore aspettativa di vita al mondo e il tasso di mortalità infantile è il terzo più basso.[5][6]
Indice
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    1 Storia
        1.1 Era Jomon e Yayoi
        1.2 Era classica
        1.3 Era medievale
        1.4 Periodo Edo
        1.5 Giappone moderno
    2 Geografia
    3 Demografia
    4 Lingue
    5 Economia
    6 Clima
    7 Cultura
        7.1 Istruzione
        7.2 Ambiente
            7.2.1 Parchi nazionali
            7.2.2 Storia della preservazione ambientale
        7.3 Sport
        7.4 Televisione
    8 Arte
        8.1 Letteratura moderna
        8.2 Musica
    9 Politica
        9.1 Politica interna
            9.1.1 Pena di morte
        9.2 Politica estera
    10 Organizzazioni internazionali
    11 Note
    12 Bibliografia
    13 Voci correlate
    14 Altri progetti
    15 Collegamenti esterni
        15.1 Istituzionali
            15.1.1 Turismo
            15.1.2 Associazioni culturali
            15.1.3 Diritti civili
        15.2 Geografia
            15.2.1 Relazioni UE/Giappone
            15.2.2 Giappone Tradizionale

Storia [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Storia del Giappone.
Era Jomon e Yayoi [modifica]

I primi segni di civiltà risalgono al XI millennio a.C. circa con la cultura Jōmon, caratterizzata dal mesolitico al neolitico da uno stile di vita semi sedentario cacciatore-raccoglitore e da una forma rudimentale di agricoltura.[7] Il popolo Jomon produceva vasi di argilla decorati, spesso con motivi realizzati premendo corde contro l'argilla umida. Alcuni dei più antichi esemplari di vasellame esistenti al mondo si trovano in Giappone.[8]

Il Periodo Yayoi, iniziato intorno al 300 a.C. segnò l'introduzione di nuove pratiche come la coltivazione del riso e la produzione di oggetti in bronzo e ferro, portate da immigrati dell'Asia continentale orientale.[9] Il Giappone compare per la prima volta in registrazioni scritte nell'Hou Hanshu cinese del 57 d.C., come «il popolo di Wa, formato da più di un centinaio di tribù». Secondo il Libro di Wei cinese, il più potente regno giapponese nel III secolo era chiamato Yamataikoku ed era governato dalla leggendaria regina Himiko.
Era classica [modifica]
Il Grande Buddha nel tempio di Tōdai-ji, Nara, fuso originariamente nel 752.

Durante il periodo Kofun, dal III secolo al VII secolo, si stabilì un centro dominante politico basato nell'area di Yamato, da dove sorse la linea dinastica degli imperatori giapponesi.

Il Buddhismo fu importato in Giappone dal regno coreano di Baekje, a cui il Giappone fornì aiuto militare[10], ricevendo il supporto della classe governante. Il principe Shōtoku si impegnò a diffondere il Buddhismo e la cultura cinese in Giappone. Gli viene attribuito l'aver portato una pace relativa al Giappone attraverso la proclamazione della Costituzione di 17 articoli.

Cominciando con gli Editti di riforma di Taika del 645 la corte Yamato intensificò l'adozione di pratiche culturali cinesi e riorganizzò il governo e il codice penale basandosi sulla struttura amministrativa cinese dell'epoca.[11] Ciò preparò la strada al dominio della filosofia confuciana in Giappone fino al XIX secolo. In questo periodo venne utilizzata per la prima volta la parola Nihon (日本?) come nome per lo stato emergente.

Il periodo Nara dell'VIII secolo segnò il primo emergere di un forte stato giapponese, centrato intorno alla corte imperiale nella città di Heijō (odierna Nara). La corte imperiale si trasferì per un breve periodo a Nagaoka-kyō, e quindi a Heian Kyō (ora Kyōto).

Gli scritti storici del Giappone culminarono all'inizio dell'VIII secolo con le cronache epiche del Kojiki e del Nihon Shoki. Queste due cronache danno un resoconto leggendario delle origini del Giappone. Secondo esse il Giappone venne fondato nel 660 a.C. dall'imperatore Jinmu, un discendente della divinità shintoista Amaterasu (la dea del sole). Si dice che Jimmu sia l'antenato della dinastia imperiale, rimasta ininterrotta fino ai nostri giorni. Comunque secondo gli storici il primo imperatore realmente esistito fu l'imperatore Ōjin.
Illustrazione dal Genji Monogatari. L'originale è conservato al Tokugawa Museum in Giappone.

Durante il periodo Heian (794-1185) fiorirono arte, poesia e letteratura autoctone, immortalate all'inizio dell'XI secolo dalla dama di corte Murasaki Shikibu nel Genji monogatari (Il racconto di Genji), il più antico racconto ancora esistente. I reggenti del clan Fujiwara controllarono la politica dell'epoca.
Era medievale [modifica]
Il samurai Hasekura Tsunenaga, primo ambasciatore ufficiale giapponese alle Americhe e Europa, nel 1615.

L'era medievale giapponese fu caratterizzata dell'emergere di una classe nobile e colta di guerrieri, i samurai. Nel 1185 in seguito alla sconfitta dei nemici del clan Taira, Minamoto no Yoritomo venne nominato Shōgun e stabilì la sua base di potere a Kamakura nel 1192. Dopo la morte di Yoritomo, un altro clan guerriero, il clan Hōjō, divenne reggente per gli shōgun. Lo shogunato Kamakura riuscì a respingere le invasioni mongole nel 1274 e nel 1281 con l'aiuto di una tempesta che venne interpretata dai giapponesi come un kamikaze o "Vento Divino". Lo shogunato Kamakura durò altri cinquant'anni e venne infine spodestato da Ashikaga Takauji nel 1333. Il successivo shogunato Ashikaga non riuscì a controllare i signori della guerra feudali (daimyō) e ciò provocò lo scoppio di una guerra civile. La guerra Ōnin (1467-1477) viene generalmente considerata come l'anticamera degli "Stati in guerra" o periodo Sengoku.

Nel XVI secolo commercianti e missionari portoghesi raggiunsero per la prima volta il Giappone, iniziando il periodo Nanban ("barbari meridionali") di attivi scambi commerciali e culturali tra il Giappone e l'Occidente, introducendo anche la religione Cattolica. Oda Nobunaga conquistò numerosi altri daimyo utilizzando tecnologie e armi da fuoco europee ed era sul punto di unificare la nazione quando venne assassinato ("Incidente di Honnōji") nel 1582. Toyotomi Hideyoshi succedette a Nobunaga e unificò la nazione nel 1590. Hideyoshi tentò due volte di invadere la Corea ma venne ogni volta arrestato dalle forze coreane e della dinastia Ming cinese. In seguito a numerose sconfitte e alla morte di Hideyoshi le truppe giapponesi vennero ritirate nel 1597.
Periodo Edo [modifica]
Una Nave shuinsen del 1634. Questo genere di navi fu usato per il commercio con l'Asia.

Dopo la morte di Hideyoshi, Tokugawa Ieyasu sfruttò la sua posizione di reggente del figlio di Hideyoshi, Toyotomi Hideyori, e i conflitti sorti tra i lealisti del clan Toyotomi, per ottenere il supporto di diversi signori della guerra da tutto il Giappone. Quando scoppiò la guerra aperta sconfisse i clan rivali nella battaglia di Sekigahara nel 1600. Ieyasu venne nominato shōgun nel 1603 e stabilì lo shogunato Tokugawa a Edo (la moderna Tōkyō).

Dopo aver sconfitto il clan Toyotomi all'assedio di Osaka nel 1614 e nel 1615 i Tokugawa divennero i governanti del Giappone, imponendo un sistema feudale centralizzato con lo shogun Tokugawa a capo dei domini feudali. Dopo la morte di Ieyasu, lo shogunato Tokugawa instaurò diverse misure per controllare i daimyo, tra cui la politica sankin-kōtai di rotazione forzata della residenza tra i feudi e Edo. Nel 1639, lo shogunato iniziò la politica isolazionista del sakoku («paese chiuso») che diede due secoli e mezzo di tenue unità politica conosciuto come periodo Edo. Questo viene spesso considerato come l'apice della cultura medievale giapponese. Lo studio delle scienze occidentali, conosciuto come rangaku, continuò in questo periodo mediante contatti con l'enclave olandese di Dejima a Nagasaki. Il periodo Edo vide la nascita del kokugaku, letteralmente «studi giapponesi», sebbene più correttamente rappresenti lo studio delle origini del Giappone da parte dei giapponesi stessi.[12] Yamaga Soko è uno stratega che sostenne i princìpi del Bushido. Le sue idee ebbero una forte influenza sui Quarantasette Ronin e il Sonnō jōi. Il lungo governo shogunale del bakufu irrigidì lo schema sociale dell'arcipelago giapponese. La classe dirigente era rappresentata dalla grande nobiltà terriera (Bushi), feudatari dipendenti direttamente dagli Shogun Tokugawa e suddivisi in Daimyo, Hatamoto, Gokenin e Bashin. Il territorio era suddiviso in dieci regioni:

    Gokinai (le cinque province interne)
    To kai do (strada per il mare orientale)
    To san do (strada per i monti orientali)
    Foku roku do (paese del territorio settentrionale)
    San in do (strada per la zona ombrosa delle montagne)
    San yo do (strada per la zona soleggiata delle montagne)
    Nan kai do (strada per il mare meridionale)
    Sai kai do (strada per il mare occidentale)
    isola Iki
    isola Tsushima
    governo militare di Ezo (Hokkaido)

Giappone moderno [modifica]

Il 31 marzo 1854, il commodoro Matthew Perry e le "Navi Nere" della marina degli Stati Uniti forzarono l'apertura del Giappone all'Occidente con la Convenzione di Kanagawa. La guerra Boshin del 1867-1868 condusse all'abdicazione dello shogunato e alla restaurazione Meiji instaurando un governo centrato intorno all'imperatore. Il Giappone adottò numerose istituzioni occidentali, inclusi un sistema legale, un esercito moderno e un sistema parlamentare, quest'ultimo modellato su quello britannico, con Hirobumi Ito come Primo Ministro nel 1882.

L'era Meiji di riforme trasformò l'Impero del Giappone in una potenza mondiale, che si imbarcò in diversi conflitti militari per aumentare il suo accesso alle risorse naturali e la sua influenza su Corea e Cina, come la prima guerra cino-giapponese (1894-1895) e la guerra russo-giapponese (1904-1905). Con quest'ultima per la prima volta una nazione asiatica sconfisse una potenza europea. Nel 1910 il Giappone controllava la Corea e la metà meridionale di Sakhalin. L'anno successivo i trattati ineguali firmati dal Giappone con le potenze occidentali vennero cancellati.

L'inizio del XX secolo vide un breve periodo di "democrazia Taisho", messa in ombra dalla crescita dell'espansionismo giapponese e della militarizzazione. La prima guerra mondiale permise al Giappone, che combatté al fianco degli Alleati vittoriosi, di espandere la sua sfera di influenza in Asia e i suoi possedimenti coloniali nel Pacifico. Nel contempo, solamente l'ultimatum di Gran Bretagna e Stati Uniti fecero desistere il Giappone dal trasformare la Cina in un suo vassallo ("Lista delle ventun richieste"). Nel 1920 il Giappone si unì alla Lega delle Nazioni divenendone un membro del consiglio di sicurezza, ma nel 1933 ne uscì in seguito alle critiche per l'occupazione della Manciuria del 1931. Nel 1936 firmò il patto anti-Comintern con la Germania nazista, unendosi all'Asse nel 1940 (Patto tripartito).

Il Giappone attaccò il resto della Cina, così come molte altre nazioni e isole dell'Asia orientale, iniziando la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945). In risposta alle sue azioni, alcuni Stati occidentali, tra cui principalmente gli Stati Uniti, il Regno Unito e i Paesi Bassi, imposero un embargo delle forniture di petrolio e altre sanzioni. Il 7 dicembre 1941 l'aviazione giapponese, senza dichiarazioni di guerra, attaccò la base navale statunitense ancorata a Pearl Harbor nelle Hawaii e la distrusse in gran parte. Quest'azione fece entrare nella seconda guerra mondiale gli Stati Uniti, che quattro giorni dopo ricevettero la dichiarazione di guerra dalla Germania nazista.
Fungo nucleare su Nagasaki, 9 agosto 1945.

Con progressione costante le forze giapponesi furono respinte o distrutte. Man mano che gli Stati Uniti si portavano sempre più vicini al Giappone furono in grado di usare efficacemente i bombardamenti. I bombardamenti strategici di città come Tōkyō e Osaka culminarono con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Questi attacchi uccisero diverse centinaia di migliaia di giapponesi e portarono al termine della guerra. A seguito di ciò, il 2 settembre 1945 il Giappone accettò una resa incondizionata. Venne organizzato un tribunale militare per perseguire i leader giapponesi per crimini di guerra. Altri criminali di guerra vennero giudicati in tribunali locali dell'Asia e del Pacifico. L'imperatore Showa ricevette l'immunità e mantenne la posizione di imperatore.

Molti storici criticano il lavoro fatto dal generale Douglas MacArthur e dai suoi collaboratori per esonerare l'imperatore Showa e tutti i membri della famiglia imperiale coinvolti nella guerra come i principi Yasuhito Chichibu, Tsuneyoshi Takeda, Yasuhiko Asaka, Naruhiko Higashikuni, Kotohito Kan'in e Hiroyasu Fushimi.[13][14]

Herbert Bix sostiene inoltre che "le misure straordinarie adottate da MacArthur per salvare Hirohito dall'essere processato come criminale di guerra ebbero un duraturo e profondo impatto distorsivo sulla comprensione della guerra da parte dei giapponesi", e che "nei mesi dopo che il processo di Tōkyō iniziò, i più elevati sottoposti di MacArthur stavano lavorando per attribuire la sostanziale responsibilità per Pearl Harbor a Hideki Tojo".[15] Shuichi Mizota, l'interprete dell'ammiraglio Mitsumasa Yonai, ha dichiarato che Bonner Fellers incontrò l'ammiraglio il 6 marzo 1946 e gli disse: "sarebbe più conveniente se da parte giapponese ci arrivasse la prova che l'Imperatore è completamente innocente. Credo che l'incombente processo offra la migliore opportunità di farlo. Su Tojo, in particolare, dovrebbe gravare il peso di tutta la responsabilità in questo processo".[16][17]

Per John Dower, un altro storico americano, "la riuscita campagna per assolvere l'Imperatore dalle responsabilità di guerra non conobbe limiti. Hirohito non fu solo semplicemente presentato come innocente di ogni atto formale che avrebbe potuto renderlo indiziato come criminale di guerra. Egli fu trasformato in una figura quasi santa senza la minima responsabilità morale per la guerra", "con il pieno supporto del quartier generale di MacArthur, l'accusa, in effetti era come una squadra di difensori dell'imperatore".[18]

La guerra costò al Giappone milioni di vite e distrusse la maggior parte della struttura industriale e infrastrutturale. Nel 1947 il Giappone adottò una nuova costituzione pacifista, cercando la cooperazione internazionale, enfatizzando i diritti umani e le pratiche democratiche. L'occupazione statunitense durò ufficialmente fino al 1952; nel 1956 il Giappone divenne membro delle Nazioni Unite. Grazie a un programma di sviluppo industriale aggressivo e con l'assistenza degli Stati Uniti, l'economia giapponese crebbe rapidamente fino a diventare la seconda più grande economia del mondo, con un tasso di crescita medio del 10% per quattro decadi. Questa crescita si arrestò negli anni novanta, quando soffrì una grave recessione. A partire dal 2001 il Giappone ha ripreso a crescere grazie alle riforme dell'ex premier Junichiro Koizumi, ed ha anche riacquistato prestigio militare, affiancando gli USA nella guerra al terrorismo.

In data 11 marzo 2011, il Giappone ha subito il terremoto più forte mai registrato nella sua storia, con epicentro a 130 km al largo di Sendai.
Geografia [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Geografia del Giappone e Isole del Giappone.
Mappa topografica del Giappone

L'arcipelago giapponese è al largo delle coste orientali asiatiche, fra il mar del Giappone a ovest, il mar cinese orientale a sud-ovest e l'oceano pacifico a nord; è formato da quattro isole principali (da nord a sud: Hokkaido, Honshu, Shikoku, Kyushu) e da 3400 isole minori e isolotti, che formano un arco lungo circa 3000 km che si apre verso nord-ovest. Il territorio giapponese è prevalentemente montuoso, le poche pianure si trovano sulla costa. Le montagne formano l'ossatura di tutto il paese. Il sistema principale è costituito dalle Alpi Giapponesi situate al centro di Honshu a cavallo di una fossa tettonica. Molte vette sfiorano i 3000 metri e hanno forme spigolose (la vetta più alta è il monte Fuji-yama 3776m) Le pianure sono situate lungo la costa o lungo le vallate interne. La pianura Kanto è la più vasta del Giappone. Il luogo, inoltre, è ad altissimo rischio sismico; quindi, sono quasi quotidiani e molto frequenti, terremoti e maremoti, che spaventano sempre di più la popolazione. Vivere in quest'isola è molto complicato, perché bisogna tenere conto anche delle conseguenze pericolose che possono accadere.
Demografia [modifica]

Il Giappone ha una popolazione di 127 770 794 abitanti. Avendo una superficie di 372.824 km² ha una densità abitativa di circa 343 abitanti/km², di quasi sette volte superiore alla media mondiale. La popolazione è distribuita in megalopoli, la maggiore delle quali ha il suo centro nella capitale Tōkyō. Quest'ultima ospita 8 535 792 abitanti nella prefettura omonima, ma il tessuto urbano ininterrotto che la collega alle città circostanti conta più di 35 milioni di abitanti.

I principali gruppi etnici in Giappone sono: 99,4% Giapponesi e 0,6% altri, prevalentemente Coreani (il 40,4% dei non-Giapponesi), Cinesi e Filippini.

Le religioni principali sono lo Shintoismo e il Buddismo con il 90,8%; i cristiani sono una minoranza di 1,2% e le altre religioni con l'8%.[19] Vi sono piccole comunità di musulmani, perlopiù immigrati. La religione in Giappone tende verso il sincretismo. Va comunque detto che i giapponesi non considerano il matrimonio come un atto totalmente religioso, ed amano celebrare più di un rito, di solito il primo ed ufficiale di stampo buddista/shintoista, ed un secondo di modello cristiano/occidentale. Molte coppie tendono a spostarsi all'estero proprio per ufficiare questo secondo rito, soprattutto nelle chiese o municipi europei, in isole del Pacifico (in particolare le Hawaii) o in California.

Il tasso di mortalità è fra i più bassi al mondo (9.54/1000 ab), ma il tasso di natalità altrettanto limitato (7.64/1000 ab) determina una diminuzione effettiva della popolazione e un suo progressivo invecchiamento. Già oggi un giapponese su quattro ha più di 65 anni, e si stima che nel 2050 questo rapporto salirà ad un terzo.
Lingue [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Lingue nipponiche.

La lingua nazionale è il giapponese, parlato dalla quasi totalità degli abitanti nati in tale arcipelago, anche se sopravvive un piccolo gruppo di etnia Ainu. Il Paese non ha però una lingua ufficiale.
Economia [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Economia del Giappone.

A partire dal 1868 iniziò la prima espansione economica del Giappone, grazie all'imperatore Meiji. Il Paese adottò le idee anglosassoni del libero mercato, molti giapponesi iniziarono a studiare all'estero e viceversa. In quel periodo sorsero alcune delle maggiori aziende del Paese, che così già all'inizio del Novecento divenne il più sviluppato dell'Asia.

Dopo la seconda guerra mondiale il Giappone fu protagonista di un "miracolo economico": il suo prodotto interno lordo crebbe in media del 10 per cento negli anni sessanta, del 5 per cento nei settanta e del 4 negli ottanta.[20] La crescita rallentò fortemente negli anni novanta, con lo scoppio della bolla speculativa e l'emersione di alcune debolezze locali sul mercato interno, in politica, nei settori bancario e finanziario e nei conti pubblici (il debito pubblico giapponese ammonta al 189 per cento del PIL[21]). Il Paese tentò anche di riprendersi leggermente, almeno fino al collasso delle dot com nel 2000.[22] Dopo il 2005 l'economia ha ricominciato a crescere del 2,8 per cento, fino a punte del 5,5 negli anni immediatamente successivi, più degli Stati Uniti e dell'Unione Europea.[23]

Oggi il Giappone è la seconda potenza economica dell'Asia, e la terza[24] al mondo dopo Stati Uniti e Cina, sia per PIL nominale che a parità di potere d'acquisto.[25] Attualmente è un Paese postindustriale, in cui due terzi del reddito provengono dal terziario (banche, assicurazioni, settore immobiliare, commercio, trasporti, comunicazione, costruzioni, intrattenimento).[26] L'industria è tra le più imponenti ed avanzate al mondo, ed è dominata da due settori chiave, la produzione di automobili[27] e l'elettronica di consumo,[28] seguite dai settori siderurgico, chimico, farmaceutico, della gomma, petrolchimico, cantieristico, motociclistico, microelettronico, videoludico, tessile, alimentare, del legno, dei laterizi, del tabacco e degli strumenti musicali.[22] Nel Paese si trovano sia grandi multinazionali (Toyota, Honda, Sony, Panasonic, Toshiba, Sharp, Canon, Nintendo, Bridgestone, Japan Tobacco, NTT, Nippon Steel, Nippon Oil)[29] sia piccole e medie aziende. Inoltre hanno sede alcune delle maggiori banche mondiali, e la Borsa di Tokyo, seconda al mondo per capitalizzazione.[30] Più limitato è il ruolo dell'agricoltura (riso, té, patate, ortaggi) e dell'allevamento, mentre la pesca locale è seconda al mondo dopo quella della Cina.

Nel 2001 il Giappone contava su una popolazione attiva di 67 milioni di persone,[31] e solo il 4 per cento degli adulti è disoccupato. Nonostante il reddito pro capite dei giapponesi sia ancora 19º al mondo[32] e il salario orario sia il più alto in assoluto,[33] il paese deve fare i conti con l'aumento della povertà (20 milioni di persone).

Le esportazioni del Giappone ammontavano a 4210 dollari pro capite nel 2005, e sono rappresentate in primo luogo da automobili e prodotti elettronici. I suoi principali clienti sono: Stati Uniti 22.8%, Unione Europea 14.5%, Cina 14.3%, Corea del Sud 7.8%, Taiwan 6.8% ed Hong Kong 5.6%. Il Paese importa soprattutto materie prime agricole e minerarie, da: Cina 20.5%, Stati Uniti 12.0%, Unione Europea 10.3%, Arabia Saudita 6.4%, Emirati Arabi Uniti 5.5%, Australia 4.8%, Corea del Sud 4.7%, Indonesia 4.2%.[34]
Clima [modifica]

Il clima del Giappone è generalmente temperato ma varia a volte in modo sensibile da nord a sud. La stagione delle piogge inizia a maggio ad Okinawa. Fondamentalmente è possibile dividere l'arcipelago in sei distinte zone:

    Hokkaidō - situata all'estremo nord della regione, ha inverni rigidi ed estati fresche con clima prevalentemente montano. Le precipitazioni sono normali, tranne in inverno in cui le isole vengono solitamente sepolte dalla neve.
    Mar del Giappone - ad ovest, in inverno vi sono forti nevicate causate dai venti che in estate espongono a brezze fresche la regione. In ogni caso le temperature possono raggiungere a volte picchi elevati (tipico delle regioni toccate dal Föhn).
    Isola centrale - clima tipico delle parti più interne delle isole, con forti sbalzi di temperatura dall'estate all'inverno e dal giorno alla notte. Poche precipitazioni.
    Seto Naikai - la zona marina tra Honsh«, Shikoku e Ky«sh« viene riparata dai monti Ch«goku e Shikoku dai venti caratterizzando l'area con un clima particolarmente mite durante tutto l'anno.
    Oceano Pacifico - la costa est in cui gli inverni sono rigidi con poche precipitazioni e estati calde e afose.
    Isole a sud ovest - zona caratterizzata da un clima subtropicale con inverni caldi e estati torride. Le precipitazioni sono abbondanti e sovente si abbattono tifoni.

Ecco qui di seguito una tabella che indica le temperature e le precipitazioni di Tōkyō.[35]
mese â'     Gen     Feb     Mar     Apr     Mag     Giu     Lug     Ago     Set     Ott     Nov     Dic     Anno
Temperatura massima media (°C)     9     9     13     18     22     25     29     31     27     21     16     12     19,3
Temperatura minima media (°C)     -1     0     3     9     13     18     22     23     20     13     7     2     10,7
Piogge (mm)     51     69     108     128     143     172     141     149     216     192     96     53     1518
Cultura [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Cultura giapponese.

La cultura giapponese ha subito forti modifiche nel corso dei secoli, cambiando da quella originaria (risalente al periodo Jōmon), fino a quella contemporanea, che combina influenze asiatiche, europee e statunitensi. L'arte tradizionale giapponese include le arti dell'ikebana, dell'origami, dell'ukiyō-e, delle bambole, delle lacche, e delle ceramiche; il teatro (bunraku, danza, kabuki, nō e rakugo); le tradizioni (i giochi, la cerimonia del tè, il budo, l'architettura, i giardini e le spade); e la cucina. La fusione della pittura tradizionale giapponese e di quella occidentale ha dato vita ai manga, il fumetto tradizionale del Giappone, diventato famoso anche nel resto del mondo. I cartoni animati influenzati dallo stile dei manga vengono chiamati anime. I videogiochi giapponesi hanno iniziato ad avere grande successo a partire dagli anni ottanta, grazie soprattutto all'opera di Nintendo, che si è lanciata con successo in questo mercato, seguita poi da Sony, SEGA, Konami ed altre aziende negli anni novanta.

Avendo preso in prestito dalle vicine culture strumenti, scale e stili, la musica giapponese è particolarmente eclettica. Molti strumenti musicali come il koto vennero introdotti nel IX e X secolo. L'accompagnamento del teatro nō nasce nel XIV secolo, e la musica popolare folcloristica con lo shamisen nel XVI secolo. La musica occidentale venne introdotta nel secolo XIX, ed è ormai diventata parte integrante della cultura. Il Giappone del dopoguerra venne fortemente influenzato dalle musiche americane ed europee, dando vita alla cosiddetta J-Pop.

Tra i primi manoscritti della letteratura giapponese i più importanti sono il Kojiki, il Nihon Shoki, e il Man'yōsh«, raccolta di poesie del secolo VIII. Tutti vennero scritti in caratteri cinesi. All'inizio del periodo Heian venne creato il sistema di trascrizione fonetica detto kana (formato da hiragana e katakana). La Taketori monogatari (ç«取çè? "Storia di un tagliabambù") è considerato il primo racconto della letteratura giapponese. Una descrizione della vita di corte dell'epoca Heian viene data da Sei Shōnagon nel Makura no sōshi (枕è子? "Note del Guanciale"), mentre il Genji monogatari (º°çè? "Storia di Genji") di Murasaki Shikibu è considerato il primo romanzo nel mondo.

Durante il periodo Edo la letteratura divenne l'arte dei chōnin (lett. gente di città), la gente ordinaria. Non era più, quindi, prerogativa degli aristocratici. Il cosiddetto Yomihon, ad esempio, divenne famoso, dando prova di questo cambiamento. Il periodo Meiji segnò il declino delle forme tradizionali della letteratura; infatti è proprio in questo periodo che la letteratura giapponese integrò le influenze occidentali. Natsume Soseki e Mori Ōgai furono i primi scrittori della letteratura giapponese moderna. Vennero seguiti da Akutagawa Ryunosuke, Tanizaki Jun'ichirō, Kawabata Yasunari, Mishima Yukio fino ad arrivare a Murakami Haruki e Banana Yoshimoto. Il Giappone vanta due scrittori vincitori di un Premio Nobel: Kawabata Yasunari (1968) e Ōe Kenzaburō (1994).
Istruzione [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Istruzione in Giappone.

Nella maggior parte delle scuole giapponesi si indossa una divisa scolastica. Hanno un obbligo scolastico di 9 anni (le scuole elementari durano 6 anni), il 22% della popolazione è laureata e, praticamente, non vi sono analfabeti.
Ambiente [modifica]
Baia di Ago e le montagne Takami dall'osservatorio Kirigaki, Shima.

In Giappone è presente una grande varietà di tipi di vegetazione che passa dalla sub artica a quella tropicale. La foresta copre circa il 70% del territorio; il Giappone, infatti, è al secondo posto come percentuale di verde dopo la Finlandia. Nelle zone di media montagna (RACHY C.) e in quelle costiere (AGA C.) si trovano foreste temperate, mentre nelle zone montuose sono situate le foreste boreali di conifere. Tra i 400 e i 1500 metri si trova spesso la brughiera giapponese (Hara): un insieme di conifere.

Trattati internazionali ambientali sottoscritti:

    protezione aree umide (Ramsar)
    CITES
    rifiuti tossici (Basilea)
    emissione di CFC (Protocollo di Montreal)
    biodiversità (CBD)
    effetto serra (Protocollo di Kyōto)

Parchi nazionali [modifica]

    Rishiri-Rebun-Sarobetsu
    Shiretoko
    Akan
    Kushiro shitsugen
    Daisetsuzan
    Shikotsu-Toya
    Towada-Hachimantai
    Rikuchu kaigan
    Bandai-Asahi
    Nikko
    Chichibu-Tama-Kai
    Ogasawara
    Fuji-Hakone-Izu
    Minami arupusu
    Joushin'etsu kougen
    Tyubu sangaku
    Hakusan
    Ise-Shima
    Yoshino-Kumano
    San'in kaigan
    Daisen-Oki
    Setonaikai
    Ashizuri-Uwakai
    Saikai
    Unzen-Amakusa
    Aso-Kujuu
    Kirishima-Yaku
    Iriomote

Storia della preservazione ambientale [modifica]

La politica di preservazione ambientale del Giappone risale all'era Tokugawa (circa 1603-1867) e seguì una strategia top-down (letteralmente "dall'alto verso il basso")[36] di cui si fece promotore lo shogun stesso.

In quel periodo, infatti, il Giappone viveva un periodo di pace e prosperità che aveva ben presto portato ad un eccessivo sfruttamento delle risorse forestali del paese. Questo si deve principalmente a cinque fattori:

    l'isolamento vissuto in quel momento dal paese, che lo costringeva all'autosufficienza anche per il legname.
    l'uso del legno per le costruzioni (sia delle modeste abitazioni popolari sia per le residenze aristocratiche) in un momento di boom edilizio.
    la frequenza degli incendi in quartieri contraddistinti da case ammassate e densamente popolate.
    l'uso della legna come combustibile.
    il disboscamento di nuove aree per ricavarne terreni coltivabili (aumento della domanda di beni alimentari) e l'utilizzo di materiale boschivo (foglie, piccoli rami) come concime.

Il disboscamento ebbe la sua acme, assieme al boom edilizio, nel periodo 1570-1650. Lo shogun arrivò a ordinare l'abbattimento delle foreste in tutto il paese (e non solo sulle sue proprietà) per poter realizzare le sue residenze e pretese da ogni daimyo un tributo in legname: restarono intatte solo le zone meno accessibili e la parte nord dell'isola di Hokkaidō. La forte richiesta di legno arrivò persino a scatenare tensioni sociali, non solo per accapparrarsi le risorse rimaste, ma anche per stabilire i prezzi e le modalità del trasporto.

La gravità della situazione venne messa a nudo dal grande incendio del 1657 e gli shogun dell'epoca reagirono esortando alla parsimonia nello stile di vita (limitazioni nel fasto delle case) e imponendo delle rigide regole allo sfruttamento delle foreste. Già nel 1666 venne vietato il taglio degli alberi, incentivato il rimboschimento e un editto dello shogun metteva in guardia contro l'erosione, la deforestazione e l'impoverimento dei suoli. Dal 1700 fu attivo un articolato corpo di leggi per la gestione forestale (demandata al Ministero delle Finanze), che prevedeva anche una capillare rete di gestione sul territorio con diversi ambiti e gradi di responsabilità (chi poteva rilasciare il permesso di taglio, quanto tagliare, chi era demandato al controllo etc.). Inoltre, lungo le strade principali e i fiumi, vennero istituiti dei posti di guardia per assicurarsi che tutto il legname in transito avesse rispettato le leggi.

Venne ridotto l'impiego di legname nelle costruzioni e anche per il riscaldamento delle abitazioni (sostituito dal carbone); si ridusse il rischio di incendi.

La misure certamente più importanti, però, riguardarono la selvicoltura, considerata un vero e proprio investimento a lungo termine: fiorirono i trattati al riguardo e numerosi furono gli imprenditori che vi si dedicarono, nonché il governo stesso. In questo modo estese aree del Giappone vennero destinate alle piantagioni forestali.

Oggi, nonostante l'alta densità, il Giappone ha un territorio coperto per il 70% circa di montagne, ricoperte di foreste e poco popolate. Le aree boschive sono ben protette e gestite, e sono in ulteriore espansione.
Sport [modifica]

All'inizio del XX secolo il Giappone ha dato vita ad una serie di arti marziali denominate Budō, molto in voga tra i guerrieri. Queste includono il Karate, il J«jutsu, il Ninjutsu, Judo, l'Aikido e il Kendō. Il Sumo viene inoltre considerato il più caratteristico sport nazionale giapponese, con i suoi enormi lottatori che si sfidano in piccole arene circolari.
Il Koshien Stadium. Lo stadio da baseball di Nishinomiya 2007

Solo dopo l'era Meiji molti sport occidentali entrarono a far parte della cultura giapponese, alcuni di questi inseriti dapprima come materia di studio nelle scuole e successivamente metabolizzati come discipline ludiche.

Il baseball (chiamato éç yaky«) ad esempio è uno dei giochi più popolari in Giappone, dove la prima squadra professionale fu istituita nel 1937. Il massimo campionato è denominato Lega Professionale Giapponese ed è suddiviso in due leghe. La nazionale giapponese rappresenta il Giappone nelle competizioni internazionali organizzate dalla IBAF.

Invece, per quanto riguarda il calcio, la J-League professionistica è nata soltanto nel 1992. Molto popolari sono anche la pallavolo, che ha visto la squadra femminile vincitrice del torneo olimpico nel 1964, il rugby (il Giappone sarà il paese ospitante della Coppa del mondo 2018) e il motociclismo. Abbastanza diffusi sono anche la pallacanestro, il pugilato, il nuoto (alcuni nuotatori giapponesi sono tra i più competitivi al mondo, come ad esempio Kosuke Kitajima, che ha conquistato quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi e tre medaglie d'oro ai Campionati Mondiali di Nuoto nei 100 e 200 metri rana) la ginnastica artistica e l'atletica leggera.

Il Giappone festeggia il Taiiku no hi (ä"èの日), ovvero la giornata dello sport e della salute, il 10 ottobre in commemorazione della XVIII Olimpiade (1964). Altri eventi degni di nota sono stati gli XI Giochi olimpici invernali del 1972 a Sapporo, i XVIII Giochi olimpici invernali di Nagano e i Mondiali di calcio del 2002 organizzati in collaborazione con la Corea del Sud.

Oltre alle attività sopra elencate, in Giappone sono estremamente diffusi gli sport da ring, in particolare il k-1, infatti è in questa nazione che sono stati fondati i più importanti tornei al mondo: il K-1 world max e il K-1 world GP.

Il wrestling in Giappone è considerato uno sport vero e proprio con spazi sulle riviste e giornali sportivi del paese, il termine con cui ci si riferisce ad esso è Puroresu (la trascrizione di Pro Wrestling); la prima federazione, la Japan Pro Wrestling, fu fondata nel 1953 da Rikidozan: da questa federazione provengono Antonio Inoki e Giant Baba, fondatori delle federazioni New Japan Pro Wrestling e All Japan Pro Wrestling e per anni avversari. Nel panorama attuale oltre a queste federazioni (ad eccezione della JPW chiusa nel 1973) le più importanti sono la NOAH, la Dragon Gate, la Zero1 Max e la Big Japan Wrestling, oltre a queste ci sono miriadi di federazioni minori. Nel panorama wrestling giapponese un grande spazio hanno le federazioni di Joshi Puroresu, wrestling femminile; queste federazioni sono parecchie.
Televisione [modifica]

Il 13 maggio 1939[37] fu effettuato il primo esperimento di trasmissione via radio, mentre le trasmissioni regolari iniziarono il 1º febbraio 1953[38].

Sei sono le emittenti tv principali:

    NHK
    Nippon Television
    Tokyo Broadcasting System
    TV Tokyo
    Fuji Television
    TV Asahi

Altre importanti stazioni di trasmissioni televisive sono:

    Kansai Telecasting Corporation
    Asahi Broadcasting Corporation
    Nagoya Broadcasting Network
    Mainichi Broadcasting System

Ad esse fanno capo diverse TV locali legate alle varie prefetture.
Arte [modifica]

Con l'arrivo della civiltà occidentale non si può più parlare di un'arte autonoma, ma l'arte giapponese si inserisce vigorosamente nelle più moderne correnti artistiche, specie architettoniche.

Per quanto riguarda le arti tradizionali giapponesi, che sono tutte permeate dalla filosofia Zen, esse hanno costituito per secoli un unicum che non ha corrispondenza in occidente. Sono giunte fino a noi pressoché intatte e sono tuttora vive e vitali. Sono praticate in tutto il mondo da decine di migliaia di persone ed hanno costituito un vettore essenziale della conoscenza all'estero della cultura giapponese. Tutte sono fondate sul principio della "via" (dō) cioè su un cammino interiore da percorrere per giungere all'illuminazione. Ma al di là della loro valenza filosofica, hanno comunque un contenuto estetico che può essere percepito autonomamente. Queste forme espressive costituiscono il nucleo più autentico della cultura giapponese e ad esse i giapponesi sono stati e sono molto legati. Elemento costante e centrale di esse è la rappresentazione istantanea della bellezza, espressa, il più sinteticamente possibile, con il segno, la forma o il gesto. Le più note sono: il cha no yu (o sadō) la via del tè, l'ikebana (o kadō) la via dei fiori, lo shodō la via della calligrafia, il ko-do la via dell'Incenso.

Una menzione a parte per la corrente artistica del Mono-Ha, originatasi sul finire degli anni sessanta, per mano di un gruppo di artisti concentratisi sull'aspetto effimero e impermanente di oggetti ed eventi, messi in relazione allo spazio, all'uomo ed alla realtà.
Letteratura moderna [modifica]

Durante l'era Meiji si ebbe il declino della letteratura classica e poco per volta gli scrittori adottarono temi e stili prettamente occidentali. I primi scrittori "moderni" che si possono citare sono Mori Ōgai e Natsume Sōseki, seguiti da Akutagawa Ryunosuke, Tanizaki Jun'ichirō e Mishima Yukio.

Il Giappone può vantare due Premi Nobel per la letteratura:

    Kawabata Yasunari (nel 1968)
    Ōe Kenzaburō (nel 1994)

Tra gli scrittori contemporanei conosciuti e pubblicati in Italia spiccano fra gli altri Banana Yoshimoto (Kitchen, Honeymoon, H/H, Tsugumi, Arcobaleno, Amrita), e Murakami Haruki (Norwegian Wood, Underground, La ragazza dello Sputnik).
Musica [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Musica giapponese.

Accanto all'arte aulica e sacra esisteva però un'espressione popolare basata su una scala di 12 suoni cromatici, la cui costruzione risale al 1500 a.C.

Dal sistema dei 12 toni si sviluppa però la possibilità teorica di estendere il numero delle disposizioni variamente trasportate e alternate fino a 84 scale diverse in seguito dal XIV al XVI secolo, la musica strumentale, corale e la danza danno luogo a primitive e popolari rappresentazioni sceniche eseguite ancora oggi con gli strumenti originali: il koto (simile al salterio), la biwa (specie di liuto), la shamisen (chitarra a 3 corde a plettro) oltre agli strumenti a fiato e a percussione.

Per molto tempo i musicisti giapponesi si sono nutriti di elementi prevalentemente germanici; dopo la prima guerra mondiale i favori si sono, invece, volti sempre più verso la musica francese ed italiana. Successivamente con l'avvento della globalizzazione anche i giapponesi si sono scoperti anglofili, imitando la musica pop e rock d'oltre oceano e cantando in inglese.

Sono nati così negli anni ottanta due filoni (interconnessi al punto che spesso si contaminano l'un l'altro) che vengono definiti:

    J-pop (legato soprattutto al fenomeno delle idol)
    J-rock (che si suddivide a sua volta in diverse sotto categorie)

dove la lettera J sta appunto ad indicare "japanese" (giapponese).

Accanto a J-pop e J-rock si è sviluppato più recentemente anche l'hip hop giapponese.

Fuori dall'Asia la musica contemporanea giapponese è conosciuta quasi esclusivamente grazie alle colonne sonore e musiche di sottofondo di videogiochi ed anime, i cartoni animati giapponesi.
Politica [modifica]
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Politica del Giappone.
Politica interna [modifica]

Formalmente il Giappone è una monarchia parlamentare ereditaria, ma il ruolo dell'imperatore è esclusivamente simbolico, come stabilito dalla costituzione del 3 novembre 1946. L'ordinamento istituzionale giapponese è quindi identificabile con le moderne democrazie parlamentari; in confronto, vi è una più marcata differenziazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) dovuta all'influenza degli Stati Uniti durante la stesura della costituzione.

Il potere legislativo è affidato alle due camere della Dieta: la Camera dei Rappresentanti (Shugi-in), composta da 480 membri eletti a suffragio universale per 4 anni, e la Camera dei Consiglieri (Sangi-in), composta da 252 membri eletti per 6 anni, rinnovabili per metà ogni tre anni. Il potere esecutivo è esercitato dal Primo Ministro e dal Gabinetto, da costui nominato. Il Primo Ministro è scelto dalla Dieta e i Ministri del Gabinetto devono essere in maggioranza membri della Dieta. Il potere giudiziario è amministrato da una Corte Suprema e da corti inferiori, i cui giudici sono nominati dal Gabinetto per dieci anni. I giudici della Corte Suprema sono confermati o sfiduciati dagli elettori in occasione della prima elezione della Camera dei Rappresentanti successiva alla nomina.

I principali partiti giapponesi sono il Partito Liberal Democratico, di tendenza conservatrice, e il Partito Democratico, di tendenza socialdemocratica e progressista. Altri partiti importanti sono quelli Socialista e Comunista. In particolare il Partito Liberal Democratico ha governato quasi ininterrottamente dal 1946 ad oggi, riscuotendo sempre un grande consenso dal popolo.

L'attuale imperatore è Akihito. In tempi recenti l'ex Primo Ministro Yasuo Fukuda è stato in carica solo 11 mesi dal 2007 quando vinse le elezioni. Il candidato premier del partito di maggioranza, il Liberal-democratico Taro Aso, verrà riconfermato con le nuove elezioni del 26 ottobre 2008; in seguito, sempre a causa della crisi economica, cadrà anche questo governo e vengono indette nuove elezioni per il 30 agosto 2009, con la candidatura del Primo Ministro Taro Aso e del candidato del Partito Democratico (neonata formazione di centro-sinistra, originata però da una costola del Partito Liberal Democratico) Yukio Hatoyama. Con la storica vittoria di quest'ultimo, si spezza dopo più di 60 anni l'egemonia politica del partito di centro-destra, che fino ad oggi era sempre stato al governo; la sconfitta è stata così clamorosa che Taro Aso si è dimesso il giorno seguente.

Il sovrano del Giappone è l'unico imperatore oggi esistente al mondo.

Nel febbraio 2007, per la prima volta dal 1947, il governo giapponese guidato dall'ex premier Shinzo Abe si è dotato di un ministero della Difesa. Il primo ministro si è impegnato esplicitamente a sostenere una revisione costituzionale per rivedere l'articolo 9 che proibisce l'uso di forze armate. Le truppe giapponesi hanno attualmente compiti esclusivamente di autodifesa, e con questa formula sono state inviate truppe terrestri in Iraq.
Pena di morte [modifica]

Tra i 47 paesi che praticano la pena di morte (dato 2008[39] di Nessuno tocchi Caino), il Giappone si può contare tra i 9 che si possono definire di democrazia liberale (considerando il sistema politico, i diritti umani, i diritti civili e politici, le libertà economiche e la pratica delle regole dello stato di diritto).

Particolarità del Giappone è il fatto che ai detenuti nel braccio della morte non venga comunicata la data dell'esecuzione, ed essi ne siano informati solo un'ora prima della stessa.

Con le 17 esecuzioni effettuate nel 2008, il Giappone ha superato il numero record del 1975, anno in cui le esecuzioni furono 15; nel 2007 erano state giustiziate 9 persone, 4 nel 2006. Ciò mostra elementi di escalation, dato anche che dal 1998 al 2005 si è registrato un totale di 16 esecuzioni, ovvero una media di due all'anno.

Fino al 2006, per 15 mesi, si era verificata una moratoria di fatto delle esecuzioni; il Ministro della Giustizia dell'epoca, Seiken Sugiura (di confessione buddista), era contrario alla pena capitale.[39]
Politica estera [modifica]

In seguito alla sconfitta e all'occupazione statunitense del secondo dopoguerra, il Giappone intrattiene solide relazioni economiche e militari con gli Stati Uniti. Nella Guerra in Iraq iniziata nel 2003 il Giappone ha contribuito inviando truppe non combattenti. Fa inoltre parte della coalizione denominata G4 (India, Germania, Giappone e Brasile).

Il Giappone è un membro dell'APEC, del G4 e del G8, che gli permette di intrattenere relazioni con diverse nazioni occidentali divenendo col tempo particolarmente importante nei rapporti diplomatici e commerciali, specialmente come intermediario con la regione asiatica.

Ci sono attualmente svariate dispute aperte con le nazioni vicine relative al controllo di determinate isole, solitamente concernenti interessi di tipo economico (estrazione di petrolio o gas naturale). Ultimamente poi i rapporti con la Corea del Nord sono nuovamente degenerati in seguito agli esperimenti nucleari di quest'ultima. A metà febbraio 2007 il governo giapponese ha messo in orbita due satelliti-spia militari per la sorveglianza dallo spazio della regione, con particolare attenzione alla penisola coreana.

Il Giappone è membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e dal 2005[19] è uno dei candidati ad un seggio permanente.
Rispondi

Da: ilCattivendolo16/10/2011 21:34:05
Intanto altro concorso in ISPRA dove ci sono stipendi tra i più elevati nella P.A.
Stavolta concorso per Autisti (http://www.isprambiente.gov.it/site/it-IT/ISPRA/Comunicazioni_di_istituto/Bandi_e_concorsi/Concorsi_aperti/Concorsi_pubblici/default.html).
Non mancate!
Rispondi

Da: dd17/10/2011 10:51:48
Chi non capisce la sua scrittura è un asino di natura!!!
Ahahahahahaha
Rispondi

Da: Un pò di storia: la Seconda guerra mondiale17/10/2011 10:55:02
Germania

Il duro trattamento subìto in seguito alla sconfitta nella prima guerra mondiale in base a quanto stabilito dal Trattato di Versailles (Dolchstoßlegende), e le successive difficoltà economiche, aggravate dalla crisi mondiale del martedì nero, causarono un profondo malcontento nel popolo tedesco e favorirono la diffusione delle idee nazionalsocialiste di Adolf Hitler e del suo movimento politico. Dopo una rapida ascesa politica, il movimento nazista prese le redini del potere in Germania, assumendo il controllo totale dello Stato. La politica estera hitleriana divenne via via sempre più aggressiva: ignorando i vincoli imposti dal trattato di Versailles, nel corso di pochi anni venne riarmato l'esercito, il 7 marzo 1936 fu rimilitarizzata la zona di confine con la Francia (la Renania), il 12 marzo 1938 fu sancita l'annessione dell'Austria (Anschluss), e con la Conferenza di Monaco, il 1º ottobre 1938, l'annessione della regione dei Sudeti (Cecoslovacchia) e quindi (13 marzo 1939), della Boemia e Moravia.

Poco prima dell'inizio del conflitto, il 23 agosto 1939, la Germania stipulò un patto di non aggressione (Patto Molotov-Ribbentrop) con l'Unione Sovietica, mentre ripresentava le sue pretese territoriali su parte della Polonia (il corridoio di Danzica). La Polonia rigettò tali pretese e la Germania, il 1º settembre 1939, la invase con un pretesto, il cosiddetto incidente di Gleiwitz.
Italia

In Italia il 31 ottobre 1922 era salito al governo Benito Mussolini. Con questi ebbe inizio una politica espansionistica, e il 2 ottobre 1935 prese il via la campagna d'Etiopia, tesa a creare un impero coloniale. Il 5 maggio 1936 venne proclamato l'Impero. Il 7 aprile 1939 l'Italia invase l'Albania e due giorni dopo ne sancì l'annessione. Nonostante la tensione tra Italia e Germania creatasi al momento dell'annessione dell'Austria, nel maggio 1939 Mussolini strinse il "Patto d'acciaio" con la Germania, per poi dichiararsi, allo scoppio del conflitto, non belligerante.
Giappone

L'Impero giapponese invase la Cina nel settembre del 1931, usando la messa in scena del sabotaggio ferroviario di Mukden come pretesto per l'invasione della Manciuria. Anche se il governo giapponese si oppose all'azione, l'esercito fu in grado di agire in maniera indipendente e instaurò un governo fantoccio, creando uno stato separato: il Manchukuo.
Spagna

La Spagna di Francisco Franco decise si adottare una linea di non belligeranza nei confronti della Germania. Dopo la sconfitta della Francia nel giugno 1940, la Spagna adottò una non-belligeranza favorevole alla Germania (offrendo per esempio l'utilizzo di basi navali alle navi tedesche) fino al ritorno alla completa neutralità nel 1943, quando le sorti della guerra apparvero decisamente sfavorevoli all'Asse. Franco inviò truppe della División Azul (o Divisione Blu, dal nome del colore del partito della Falange spagnola, i cui membri erano chiamati "camicie blu") per combattere sul fronte orientale contro l'Unione Sovietica. Successivamente truppe spagnole affiancarono quelle statunitensi nella liberazione delle Filippine dall'occupazione giapponese.
La guerra
Il teatro di guerra europeo.

ââ Potenze dell'Alleanza

ââ URSS

ââ Potenze dell'Asse

ââ Paesi neutrali
L'inizio del conflitto

L'inizio della guerra viene indicato da gran parte della storiografia nel 1º settembre del 1939. Quel giorno la Germania invase la Polonia, provocando, il successivo 3 settembre, la dichiarazione di guerra di Gran Bretagna e Francia, legate da un patto di alleanza con i polacchi e ormai decise a frenare l'aggressività tedesca. Il 17 settembre, sulla base degli accordi stabiliti dal Patto Molotov-Ribbentrop, l'Unione Sovietica invase a sua volta la Polonia, occupandone la parte orientale.

Altre periodizzazioni, meno tradizionali, fanno risalire concretamente l'inizio del conflitto con eventi bellici precedenti scatenati dalle tre Potenze del successivo Patto Tripartito: l'aggressione italiana all'Etiopia, la guerra di Spagna o l'attacco giapponese alla Cina.
Teatro europeo
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Teatro europeo della seconda guerra mondiale e Fine della seconda guerra mondiale in Europa.

La seconda guerra mondiale in Europa durò dal 1º settembre 1939 all'8 maggio 1945. Il teatro europeo fu quello tecnicamente più complesso, nonché quello dove si contò il maggior numero di morti, sia militari che civili. Si può considerare incluso nel teatro europeo anche l'Oceano Atlantico, poiché tutte le battaglie navali combattute nell'Atlantico riguardarono essenzialmente nazioni europee.

Si calcola che furono 55 milioni, tra militari e civili, gli europei a perdere la vita nel conflitto mondiale, la grande maggioranza nell'Europa orientale (ad attestare la violenza dell'occupazione nazista nelle nazioni slave). 20 milioni furono i morti tra i russi (di cui 7 in operazioni militari), quasi 6 milioni tra i polacchi (il 20% dell'intera popolazione), più di un milione e mezzo di iugoslavi, 620.000 francesi, 300.000 italiani, 280.000 inglesi. E poi ancora, tra i tedeschi, un milione e mezzo di morti in operazioni militari, 2 milioni dispersi, un milione e mezzo di prigionieri, molti dei quali perderanno la vita nei campi di concentramento sovietici[2].
1939
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1939.

Il 1º settembre 1939 alle 04:45 di mattina, i tedeschi scatenarono la campagna di Polonia secondo il Fall Weiss ("Piano Bianco"): cinque armate della Wehrmacht, forti di 1.850.000 uomini e 2.650 carri armati, appoggiate da 2.085 aerei della Luftwaffe[3], invasero la Polonia con un attacco a tenaglia, impiegando l'innovativa tattica militare della guerra lampo o Blitzkrieg. Il 3 settembre 1939 Gran Bretagna alle 11:45 e la Francia alle 17:00, dopo aver inviato il giorno precedente un ultimatum che non ricevette risposta, dichiararono guerra alla Germania.
L'invasione della Polonia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Campagna di Polonia.
1º settembre 1939, soldati tedeschi rimuovono la barriera di un posto di frontiera fra Germania e Polonia

L'esercito polacco contava un milione di uomini (circa il 30% in meno degli effettivi previsti, ma non ebbe il tempo di mobilitarsi completamente), diverse centinaia di autoblinde e carri armati di modelli leggeri e/o antiquati, con l'appoggio di seicento aerei di qualità medio-bassa[3]. La resistenza dei polacchi fu tenace ed ostinata, ma non sufficientemente consistente e coordinata: in particolare, non erano affatto preparati a respingere la nuova Blitzkrieg. Gli anziani generali polacchi commisero l'errore strategico di disperdere l'esercito su una lunghissima linea difensiva, ritenendo di dover combattere una guerra di trincea. Invece, dopo i primi giorni di scontri violenti, specie nelle battaglie di Mlawa e di Pomerania[3], il 3 settembre i Panzer tedeschi riuscirono a penetrare nelle retrovie nemiche ed iniziarono le manovre di accerchiamento.

Già l'8 settembre i primi carri armati tedeschi giunsero alle porte dalla capitale polacca, dando il via alla battaglia di Varsavia, mentre la maggior parte dell'esercito polacco veniva metodicamente accerchiata in sacche isolate ed annientata nel giro di due o tre settimane, a seconda delle zone. Tuttavia, per la Wehrmacht, la conquista della capitale polacca iniziò a rivelarsi più complessa e lunga del previsto. I tedeschi iniziarono a temere un possibile attacco della Francia da ovest; pertanto decisero di accelerare i tempi per la sconfitta definitiva dei polacchi, iniziando a colpire Varsavia con la tattica del bombardamento a tappeto. Come conseguenza, nell'arco di una ventina di giorni, la città soffrì quasi 26.000 morti ed oltre 50.000 feriti tra la popolazione civile. Da quel momento, l'impresa militare voluta da Hitler assunse il carattere di guerra totale: sia i militari che i civili erano ugualmente coinvolti in guerra, e lottavano disperatamente per la vittoria e la sopravvivenza.
13 settembre 1939, la vecchia corazzata tedesca Schleswig-Holstein apre il fuoco contro la fortezza polacca di Westerplatte

Il 17 settembre l'Unione Sovietica, improvvisamente, ma comunque rispettando il patto Molotov-Ribbentrop, aggredì la Polonia da est con 466.000 soldati, 3.740 carri armati e 2.000 aerei[4], incontrando scarsa resistenza da parte delle truppe polacche. Alcuni storici ritengono che in realtà Stalin volesse evitare che la Germania occupasse i territori polacchi orientali, altri riportano volontà espansionistiche russe (avvalorate, tra l'altro, dalla guerra successivamente scatenata contro la Finlandia, e dal fatto che, a conflitto finito, Stalin non volle cedere questi territori polacchi). Con l'entrata in azione dell'URSS, il destino della Polonia fu inevitabilmente segnato. Tuttavia, il 18 settembre, le forze corazzate polacche tentarono una coraggiosa battaglia contro i Panzer tedeschi a Tomaszow Lubelski, ma dovettero soccombere sia per inferiorità numerica che qualitativa. Con la popolazione civile ridotta allo stremo, Varsavia si arrese alle truppe tedesche il 27 settembre 1939. Pochi giorni dopo, il 30 settembre, a Parigi si costituì il Governo polacco in esilio. L'Esercito polacco fu completamente disarmato entro il 6 ottobre, dopo la battaglia di Koch.

Complessivamente, le perdite polacche assommarono a circa: 66.300 militari morti, 133.700 militari feriti, 420.000 militari divenuti prigionieri di guerra, 150.000 civili morti ed un numero imprecisato di feriti. Circa 20.000 civili polacchi riuscirono a fuggire in Lettonia e Lituania, altri 100.000 fuggirono in Ungheria o Romania. Le perdite tedesche assommarono a circa 13.000 militari[3][5].

Nella parte della Polonia occupata dall'URSS, le forze sovietiche catturarono circa 242.000 polacchi; parte dei quali furono sospettati di essere anticomunisti. Nel corso dell'anno successivo, la Polizia politica sovietica NKVD, a seguito di processi sommari, iniziò a giustiziare migliaia di prigionieri. Stime accreditate parlano di un totale di 21.857 morti, dei quali 4.243 cadaveri furono rinvenuti nelle Fosse di Katyń dai tedeschi nel 1943[3].
La strana guerra
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Novembre 1939, soldati britannici e francesi giocano a carte in un campo d'atterraggio durante la strana guerra

Al termine delle operazioni contro la Polonia Hitler lanciò messaggi di pace a Francia e Gran Bretagna ma questi furono respinti dai rispettivi primi ministri l'11 ed il 12 ottobre[6] ed il periodo che seguì vide una preparazione da ambo le parti per l'inizio di un'offensiva terrestre tedesca sul fronte occidentale, preparazione che fu tuttavia priva di significative operazioni, tanto da essere passata alla storia come la "strana guerra".[7]

Il Consiglio supremo Alleato decise di presidiare la linea Mosa-Anversa in caso di attacco tedesco attraverso il Belgio mentre la Germania, con la direttiva n.6 del 6 ottobre 1939, stabilì i piani di invasione della Francia, utilizzando la medesima strategia messa in atto durante la prima guerra mondiale, ossia la violazione della neutralità del Belgio e dell'Olanda, piani che vennero tuttavia scoperti dalle autorità belghe il 10 gennaio 1940 a seguito di un incidente aereo che permise il recupero dei documenti segreti relativi al cosiddetto "Fall Gelb", il "caso giallo", ma anche a fronte di questo importante ritrovamento il Belgio non permise alle truppe britanniche e francesi l'attraversamento del confine per non offrire un casus belli alla Germania.[8]
Prime battaglie navali ed aeree

Dal settembre 1939 all'aprile 1940, le prime battaglie tra Germania e gli alleati Gran Bretagna e Francia avvennero quasi esclusivamente nei mari e nei cieli. Essendo la Gran Bretagna una grande isola, e dipendendo quindi dal mare per i collegamenti commerciali con il resto del mondo e con le sue colonie, la Kriegsmarine si mobilitò per intercettare il traffico marittimo da e per la Gran Bretagna, per mettere in difficoltà l'economia e la popolazione britannica. I tedeschi impiegarono sommergibili U-Boot, navi da guerra e alcune navi corsare, realizzando una massiccia operazione di posa di mine magnetiche sulle rotte che portavano agli approdi per le navi britanniche,[9], mentre la Royal Navy si attivò per pattugliare le rotte commerciali dal mare del Nord all'oceano Atlantico.

La Kriegsmarine ottenne alcuni importanti successi iniziali: il 17 settembre 1939, l'affondamento della portaerei Courageous ad opera dell'U 29 nel Mare del Nord; il 14 ottobre l'affondamento della corazzata Royal Oak a Scapa Flow ad opera dell'U 47, comandato dal tenente di vascello Günther Prien, il 23 novembre l'affondamento dell'incrociatore ausiliario Rawalpindi al largo tra Islanda e isole Fær Øer, ad opera degli incrociatori da battaglia Scharnhorst e Gneisenau ma gli Alleati realizzarono a loro volta un successo, inducendo, il 17 dicembre, la corazzata tascabile Admiral Graf Spee, si ad autoaffondarsi nell'estuario del Río de la Plata.

Va inoltre ricordato che la Kriegsmarine, già la sera del 3 settembre 1939, si rese responsabile di una delle prime stragi di civili[10], nonché primo grave incidente diplomatico della guerra: l'U 30 affondò il transatlantico SS Athenia (probabilmente scambiandolo per una nave da guerra britannica, poiché non vi era nessun interesse strategico-militare in una simile azione), con 1103 civili a bordo, tra i quali 300 civili statunitensi; e gli Stati Uniti erano allora una Nazione neutrale. I tedeschi tentarono poi di negare ogni responsabilità riguardo l'accaduto arrivando perfino ad accusare i britannici di aver affondato loro stessi la Athenia per diffamare i tedeschi. La piena verità fu resa nota solo nel 1946[11].

Nel tentativo di ostacolare le operazioni della Kriegsmarine, numericamente inferiore alla Royal Navy, ma molto aggressiva, nell'arco di vari mesi fra il 1939 e il 1940, la Royal Air Force effettuò numerosi raid di bombardieri contro i porti militari tedeschi, le fabbriche di U-Boot, i cantieri navali e i depositi di munizioni navali; in particolare a Wilhelmshaven e Kiel. Le conseguenti battaglie aeree contro la Luftwaffe furono molto sanguinose: la RAF arrivò a perdere fino al 50% dei bombardieri Vickers Wellington ad ogni sortita; poiché i bombardieri britannici erano costretti ad effettuare le loro missioni senza alcun caccia di scorta (la RAF non disponeva ancora di caccia a lungo raggio); e i bombardieri, da soli, non riuscivano a difendersi efficacemente dai Bf 109 e Bf 110 della Luftwaffe. Ciò risultò molto evidente, ad esempio, il 18 dicembre 1939 durante la Battaglia della Baia di Heligoland; e per i britannici la situazione peggiorò in altre battaglie aeree successive.

Nel frattempo, sempre tra il 1939 ed il 1940, numerosi scontri aerei avvennero sopra la linea Maginot e la linea Sigfrido, tra i caccia e i ricognitori della Armée de l'air francese e della Luftwaffe tedesca, poiché gli eserciti di ciascun lato tentavano di spiare dal cielo gli schieramenti delle truppe avversarie.
L'attacco dell'Unione Sovietica alla Finlandia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce guerra d'inverno.

Al culmine di una crisi diplomatica che durava ormai da molti anni, il 30 novembre l'Unione Sovietica diede il via alla guerra d'inverno, sferrando un massiccio attacco contro la Finlandia, dopo che questa aveva rifiutato la richiesta di Stalin di installare basi militari sovietiche nel suo territorio. Alla base di questo attacco vi era la fretta di acquisire territori da porre sotto la propria sfera di influenza, facendovi rientrare la Finlandia, in passato parte dell'Impero russo ma distaccatasi a seguito della rivoluzione russa; la volontà di vendetta contro i finlandesi, i quali avevano appoggiato i partigiani bianchi, e fornire una dimostrazione di forza alla Germania, tentando di conseguire un rapido successo militare simile a quello di Hitler in Polonia.
Soldati finlandesi durante la Guerra d'inverno, con equipaggiamento invernale e mitragliatrice pesante

Le intenzioni di Stalin tuttavia si scontrarono con la tenace resistenza finlandese e, nonostante l'impiego di 1.000.000 di uomini, 3.000 carri armati e quasi 4.000 aerei, l'Armata Rossa non riuscì a realizzare una rapida invasione; le cause risiedettero nelle strategie di attacco sbagliate, nelle efficaci tattiche di guerriglia adottate dai finlandesi, pur numericamente molto inferiori, e nelle difficoltà dovute al terribile inverno nordico, con suolo ghiacciato e temperature fra i â'30 °C e â'50 °C. L'Armata Rossa, che tra l'altro era stata qualitativamente indebolita dalle purghe staliniane degli anni trenta, evidenziò enormi carenze organizzative e subì scacchi umilianti sul campo di battaglia. La Finlandia, diversamente da ciò che era successo alla Polonia contro i tedeschi, non cedette all'urto iniziale delle forze sovietiche ma riuscì a creare un fronte. Come conseguenza, la Guerra d'inverno durò diversi mesi, durante i quali i Finlandesi, combattendo una vera guerra di popolo contro un aggressore ben più potente, riuscirono ad accattivarsi la simpatia di molti paesi occidentali.

L'attacco sovietico fu percepito dall'opinione pubblica mondiale come una brutale aggressione, del tutto ingiustificata e pertanto l'Unione Sovietica venne espulsa dalla Società delle Nazioni e molte nazioni si prodigarono per aiutare la Finlandia: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda, Ungheria, Italia e Stati Uniti vendettero o cedettero gratuitamente alla Finlandia vari armamenti e rifornimenti e molti volontari, soprattutto danesi, norvegesi e finlandesi d'Ingria, ma anche oltre 200 volontari di altre Nazioni, si offrirono per la causa finlandese.

Dopo mesi di battaglia l'Armata Rossa riuscì a sfondare una parte delle difese finlandesi in Carelia ma la protesta internazionale contro l'URSS era giunta al culmine; non volendo rischiare il completo isolamento diplomatico, Stalin accettò infine di intavolare trattative, ed il 12 marzo 1940 Finlandia e Unione Sovietica giunsero alla pace di Mosca, con la cessione di alcuni territori finlandesi all'Unione Sovietica.
1940
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1940.
L'occupazione della Danimarca e della Norvegia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci incidente dell'Altmark, operazione Weserübung e campagna di Norvegia.
Aprile 1940, Panzer II tedeschi a Copenaghen

Il Führer, all'inizio del 1940, decise di rimandare a primavera l'attacco alla Francia per poter concentrare la propria attenzione sulla penisola scandinava, come stavano facendo gli Alleati. Il casus belli che gli permise di giustificare agli occhi del mondo l'attacco alla Danimarca ed alla Norvegia (operazione Weserübung) fu trovato il 16 febbraio con l'incidente dell'Altmark, nave tedesca che venne abbordata nello Jøssingfjord, in acque territoriali norvegesi, dal cacciatorpediniere inglese HMS Cossack. Circa 300 prigionieri inglesi che si trovavano a bordo furono liberati e ciò offrì ad Hitler il pretesto per accusare la Norvegia di connivenza con gli Alleati e di iniziare i preparativi per l'attacco[12].

Le truppe tedesche iniziarono l'invasione dei due paesi alle 5.20 del 9 aprile: Re Cristiano X di Danimarca, ritenendo inutile la resistenza in un paese quasi totalmente privo di forze armate, firmò la capitolazione alle ore 14.00 dello stesso giorno, mentre la Norvegia, nonostante l'aiuto portato da Francia e Gran Bretagna[13], resistette fino al 10 giugno quando, a seguito della resa, venne instaurato un governo fantoccio guidato dal collaborazionista Vidkun Quisling[14]. La campagna Norvegese costò alla Kriegsmarine rilevanti perdite di navi da guerra, tra le quali l'incrociatore pesante Blücher, a causa delle artiglierie pesanti della difesa costiera norvegese, nonché dei ripetuti scontri con la Royal Navy, la quale soffrì anch'essa alcune perdite, tra cui la portaerei HMS Glorious, mentre la Svezia mantenne la sua neutralità e continuò a fornire materie prime per l'industria bellica tedesca per il resto della guerra.

Come conseguenza dell'occupazione tedesca della Danimarca, il 12 aprile 1940 la Gran Bretagna occupò le isole Fær Øer ed, il 10 maggio, l'Islanda; tali isole erano colonie danesi di notevole interesse strategico per la Battaglia dell'Atlantico e già dagli anni trenta i tedeschi avevano iniziato un lungo corteggiamento diplomatico all'Islanda, dove tra l'altro era nato un partito nazista locale. La Gran Bretagna procedette all'invasione di queste isole mentre la Groenlandia, terza colonia danese nell'Atlantico, il 9 aprile era invece già stata volontariamente ceduta come protettorato agli Stati Uniti che successivamente l'avrebbero utilizzata come base per operazioni in Atlantico.
Campagna di Francia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Campagna di Francia, Fall Gelb, Battaglia della Mosa, Battaglia di Sedan (1940), Battaglia di Lille e Battaglia di Dunkerque.
I panzer avanzano in profondità.
I carri armati tedeschi oltre la Mosa.

Il 10 maggio 1940, sempre impiegando la tattica militare della guerra lampo o Blitzkrieg, le truppe tedesche attaccarono i Paesi Bassi e il Belgio e da qui, passando per la Foresta delle Ardenne e aggirando completamente la linea Maginot, entrarono in Francia dando il via alla Campagna di Francia (in codice Fall Gelb, 'Caso Giallo'). Fu una straordinaria dimostrazione di potenza militare: il formidabile cuneo corazzato raggruppato nella regione delle Ardenne (composto da oltre 2.500 carri armati divisi in 7 Panzerdivision[15]), al comando del generale von Kleist, penetrò fulmineamente in Belgio spazzando via le deboli difese franco-belghe nella foresta (considerata dagli alleati impenetrabile per le forze corazzate); la notte del 12 maggio la 7ª Panzerdivision del generale Rommel sbucò sulla Mosa a Dinant. Il giorno dopo il grosso del cuneo corazzato raggiunse in forze la Mosa, dove erano schierate le principali forze francesi, e passò subito all'attacco per attraversare il fiume.

In soli tre giorni i panzer tedeschi formarono profonde teste di ponte ad ovest della Mosa (a Dinant, a Monthermé e soprattutto a Sedan, dove i carri armati del generale Heinz Guderian svolsero un ruolo decisivo) e sbaragliarono le deboli resistenze francesi[16]. Dopo aver respinto alcuni sconnessi tentativi di contrattacco delle scarse riserve corazzate francesi ancora disponibili, dal 16 maggio i panzer ebbero via libera ad ovest del fiume (dopo il crollo definitivo della 9ª Armata francese): vi fu una scorribanda di mezzi corazzati tedeschi attraverso la pianura franco-belga in direzione delle coste della Manica. La situazione degli Alleati si rivelò drammatica (come confermato dai tempestosi colloqui tra Churchill, Reynaud, Daladier e i generali inglesi e francesi): il raggruppamento franco-inglese, penetrato in Belgio, rischiò di essere tagliato fuori e completamente distrutto.

Tutti i tentativi di contrattacco alleati a nord del corridoio tedesco (contrattacco inglese di Arras il 21 maggio) o a sud (a partire dalle precarie posizioni francesi sulla Somme) fallirono. I panzer ebbero via libera e fin dal 20 maggio i primi reparti corazzati raggiunsero le coste della Manica ad Abbeville. La trappola si era chiusa: quasi 600.000 soldati franco-inglesi furono accerchiati con le spalle al mare con l'unica speranza di reimbarcarsi via mare con l'aiuto delle flotte inglesi e francesi e sotto gli attacchi della Luftwaffe. La situazione peggiorò ulteriormente per l'improvvisa resa dell'esercito belga il 28 maggio, che lasciò scoperte le difese alleate nella sacca. L'Olanda, attaccata fin dal 10 maggio da altre forze corazzate e da un lancio di paracadutisti tedeschi sull'Aja e i ponti sulle numerose vie d'acqua dei Paesi Bassi (in parte fallito), aveva già abbandonato la lotta fin dal 15 maggio, anche in seguito al bombardamento aereo di Rotterdam; la regina Guglielmina si rifugiò nel Regno Unito, a differenza del re Leopoldo del Belgio che decise di rimanere sul territorio occupato dai tedeschi.

Il 26 maggio Churchill autorizzò il corpo di spedizione inglese a ripiegare senza indugio verso la costa e il porto di Dunkerque dove nel frattempo si radunò una numerosa flotta di navi militari, mercantili e di naviglio privato civile radunato per l'evacuazione dei soldati[17]. I francesi, dopo molta confusione e divergenze a livello politico e di comando, ripiegarono a loro volta verso la costa, abbandonando una parte delle loro forze, ormai circondate a Lilla (caduta il 29 maggio).
Avanzata inesorabile.
Una fase drammatica della ritirata inglese a Dunkerque.

La situazione apparve compromessa: le colonne corazzate tedesche giunte fino al mare avevano progredito lungo la costa verso nord in direzione di Boulogne, Calais (occupate il 25 e il 26 maggio) e Dunkerque, ma un improvviso ordine di Hitler del 24 maggio impose di fermare l'avanzata dei panzer e di proseguire solo con la fanteria. La decisione del Führer derivò apparentemente dal desiderio di risparmiare le sue forze migliori in vista delle future campagne e di consentire a Goering di mostrare la potenza della sua Luftwaffe (a cui sarebbe stato lasciato il compito di impedire l'evacuazione), ma forse anche dalla segreta intenzione del dittatore di risparmiare un'umiliante disfatta agli inglesi anche per favorire future trattative di pace anglo-tedesche[18].

Dal 26 maggio al 4 giugno le forze anglo-francesi riuscirono in gran parte a trarsi in salvo (Operazione Dinamo) grazie all'abnegazione delle flotte (bersagliate dalla Luftwaffe), alla resistenza dei reparti di retroguardia e all'efficace intervento della RAF (a partenza dalle basi in Inghilterra). I tedeschi si lasciarono sfuggire, anche per loro errori, una grossa parte delle truppe alleate accerchiate. Durante il cosiddetto miracolo di Dunkerque furono evacuati, dopo aver abbandonato tutte le armi e l'equipaggiamento, circa 338.000 soldati alleati[19], di cui circa 110.000 francesi; altri 40.000 soldati (principalmente francesi) rimasero nella sacca e quindi vennero catturati. I circa 220.000 inglesi scampati, al momento privi di armi, avrebbero costituito un nucleo di truppe addestrate ed esperte su cui ricostruire l'esercito inglese per il proseguimento della guerra.

Il bilancio finale della prima fase della Campagna di Francia, nonostante questa delusione, fu comunque trionfale per la Germania e per Hitler: circa 75 divisioni alleate distrutte (tra cui le migliori divisioni francesi e inglesi), 1.200.000 prigionieri totali e un enorme quantitativo di armi e equipaggiamenti catturati, il Belgio e l'Olanda costretti alla resa, l'esercito inglese cacciato dal continente, la Francia ormai sola, ridotta in grave inferiorità numerica e di armamenti; tutto questo al costo di soli 10.000 morti e 50.000 feriti e dispersi[20][21]. Credendo che la guerra volgesse oramai al termine, il 10 giugno, anche Mussolini dichiarò, a sua volta, guerra agli Alleati.
L'Italia in guerra e la campagna delle Alpi Occidentali
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Battaglia delle Alpi Occidentali.

Il 14 giugno, dopo soli quattro giorni dalla dichiarazione di guerra, Genova fu bombardata da britannici e francesi, senza che la marina italiana riuscisse ad intervenire. Inoltre, a causa del mancato preavviso riguardo l'imminenza della dichiarazione di guerra, la flotta mercantile perse tutto il naviglio che si trovava nei porti di nazioni divenute ostili (circa il 35% dell'intera flotta mercantile): una perdita non facilmente recuperabile, soprattutto in vista di una guerra da combattere prevalentemente su scacchieri lontani con la conseguente necessità di mantenere lunghe vie di comunicazione e di rifornimento marittime.

Il 18 giugno la Francia venne investita dall'attacco italiano: reparti di quattro armate italiane attaccarono il fronte alpino difeso da appena una divisione coloniale e tre divisioni di fanteria francesi. Presunte contestazioni (peraltro velocemente rientrate alla fine di maggio di fronte agli spettacolari successi tedeschi) da parte dell'establishement militare italiano (Badoglio in primis) riguardo l'impreparazione italiana e quindi il rischio di un'entrata in guerra prematura, vennero sbrigativamente rigettate da Mussolini, conscio dell'impreparazione bellica italiana, ma convinto di un'imminente vittoria tedesca e quindi dell'impellente necessità di entrare in guerra a fianco del Führer per motivi di prestigio personale e anche di convenienza geostrategica[22] A livello di propaganda e di opinione pubblica mondiale l'attacco italiano (considerato una vera pugnalata alla schiena, secondo la definizione di Roosevelt)[23], e il suo evidente fallimento, provocarono un ulteriore indebolimento del prestigio del Duce, della popolarità italiana, considerata ormai totalmente allineata alla Germania, e anche una prima stima della debolezza imprevista dell'apparato militare italiano[24].

Infatti, nonostante la rotta generale dell'esercito francese di fronte ai tedeschi, le truppe italiane non riuscirono a sfondare le linee nemiche, favorite dall'impervio terreno alpino. Gli italiani subirono perdite maggiori e dimostrarono scarsa organizzazione, arretratezza tattica e mediocre morale. Al termine della battaglia delle Alpi Occidentali a favore dell'Italia ci sarebbero stati solo alcuni modesti aggiustamenti territoriali (Mentone) e la smilitarizzazione della fascia di confine; svanirono subito, dopo i colloqui Hitler-Mussolini di Monaco, i grandiosi progetti del Duce di spartizione della Francia (linea del Rodano e Corsica), e di acquisizione dell'Impero coloniale africano francese[25].
La resa della Francia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Campagna di Francia e Fall Rot.
I tedeschi vincono su tutti i fronti.

Il 5 giugno 1940 con un violento bombardamento aereo sulla linea della Somme e sull'Aisne, nonché sulle truppe francesi dislocate ad Abbeville e sulla Linea Maginot, i tedeschi iniziarono la battaglia per la conquista di Parigi.

Il 10 giugno i tedeschi attraversarono la Senna, l'esercito francese si ritirò disordinatamente sulla Loira, il generale Weygand annunciò che il fronte era stato definitivamente sfondato. Il governo francese si trasferì allora da Parigi a Tours, mentre lo raggiunse la notizia che l'Italia stava per dichiarare guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
L'esercito tedesco a Parigi.

L'11 giugno il governatore militare di Parigi gen. Hering, annunciò che la città era stata dichiarata "città aperta", e Parigi venne occupata dai tedeschi il 14 giugno, risparmiando così la città da incursioni aeree o di artiglieria. Nel frattempo anche Reims cadde in mani tedesche, e l'esercito francese era ormai decimato e praticamente inoffensivo.

Nella notte del 16 giugno Reynard si dimise dall'incarico di Presidente del Consiglio francese a causa di divergenze con il Consiglio dei ministri in merito alla discussione sulla proposta di De Gaulle (trasferitosi a Londra il giorno prima) di un "Unione franco-britannica", in sostanza la fusione dei due stati in uno solo. Il maresciallo Philippe Petain formò subito un nuovo gabinetto e alle 23 incaricò il suo Ministro degli Esteri Paul Baudouin di chiedere l'armistizio ai tedeschi. Alle 24, tramite l'ambasciatore spagnolo a Parigi, il governo francese presentò ufficialmente la richiesta di armistizio. Intanto la Wehrmacht conquistava Digione, aggirava la Linea Maginot e nel giro di pochi giorni invadeva Brest, Nantes e Samur dopo aver già conquistato tra le altre Caen, Rennes e Le Mans.

Il 19 giugno il governo tedesco si dichiarò pronto a far conoscere le clausole per la cessazione delle ostilità e richiese l'invio di plenipotenziari suggerendo al governo francese di mettersi in contatto con l'Italia per trattative analoghe. Il suggerimento fu applicato già dal giorno seguente; ciò fece in modo di fermare l'attacco armato delle truppe italiane iniziato tre giorni prima.

Alle 15:30 del 21 giugno Hitler ricevette i plenipotenziari francesi; le condizioni della resa furono molto pesanti: 3/5 del territorio nazionale furono occupati dall'invasore, non furono resi i prigionieri, le spese di occupazione furono fissate a discrezione del vincitore, l'esercito dovette essere ridotto a 100.000 uomini.

Il 22 giugno alle ore 18:30 il rappresentante della delegazione francese generale Huntziger e il generale Wilhelm Keitel, capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, firmarono l'armistizio. Per volere di Hitler, l'Armistizio venne simbolicamente firmato allo stesso modo di quello che venne stipulato alla fine della prima guerra mondiale: delegati e generali tedeschi e francesi si riunirono su un treno parcheggiato in aperta campagna, nella stessa posizione geografica, nella stessa carrozza di lusso e con le stesse poltrone di quel giorno del 1918, quando la Germania firmò l'armistizio della prima guerra mondiale, arrendendosi alla Francia.

Vennero lasciate alla Germania il possesso di Parigi, del nord e di tutta la costa atlantica, mentre la Francia centro-meridionale rimaneva indipendente con le sue colonie, e il governo si insediava nella cittadina di Vichy. Nonostante le assicurazioni francesi che in nessun caso la flotta sarebbe stata consegnata ai tedeschi o agli italiani, l'Ammiragliato britannico diede avvio ad un'azione (nota come Operazione Catapult) volta a devitalizzare le navi da guerra francesi che, lasciata la Francia, erano ancorate nelle basi algerine di Mers el Kebir e Orano. Il risultato di questa azione, oltre a mille morti fra i marinai francesi, fu controproducente in termini materiali per gli inglesi. Le navi francesi che furono in grado di farlo, rientrarono a Tolone, mentre quelle alle quali fu impossibile (come la corazzata Richelieu) reagirono energicamente a qualunque tentativo alleato di penetrare in Nordafrica. Tuttavia, la dimostrazione di impavida risolutezza della Gran Bretagna e del suo governo, nella tragica situazione di isolamento, non mancò di avere benefici effetti sul morale dell'opinione pubblica inglese e anche americana (e questo sembra fosse effettivamente uno degli scopi principali dell'operazione[26]) Una minima percentuale dei marinai francesi internati in Gran Bretagna aderì in seguito alla Francia libera.

Il 24 giugno alle 19:15 a Villa Olgiata presso Roma, il gen. Huntziger e il gen. Badoglio firmarono l'armistizio tra Italia e Francia, mentre poche ore più tardi alle 1:35 del 25 giugno entrò ufficialmente in vigore l'armistizio franco-tedesco.

Nel frattempo, nel giugno del 1940 l'Unione Sovietica occupò la Lituania, l'Estonia e la Lettonia.
La Battaglia d'Inghilterra
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I bombardieri tedeschi si preparano per una nuova incursione sull'Inghilterra.

Non trovando terreno fertile per una pace con la Gran Bretagna, Hitler iniziò a considerare l'idea di invaderla, per piegarla definitivamente. Tuttavia, per preparare la gigantesca operazione di sbarco navale, denominata in codice operazione Seelöwe (leone marino), i tedeschi dovevano prima ottenere il controllo dei cieli britannici e indebolire le difese costiere della Gran Bretagna. Pertanto la Luftwaffe tedesca, dal 10 luglio 1940, iniziò una serie di numerosissime incursioni diurne e notturne contro gli aeroporti della RAF, nonché contro le difese costiere, i porti e le industrie di aerei ed armamenti della Gran Bretagna. La campagna aerea tedesca di bombardamenti strategici, passata alla storia con il nome di battaglia d'Inghilterra, sembrò avere un moderato successo sino alla fine di agosto, seppur con gravi perdite di aerei da parte della Luftwaffe. Nel settembre, tuttavia, un cambiamento degli ordini di guerra da parte di Hitler, mutò il carattere della campagna aerea da strategica a terroristica: i tedeschi, iniziando a bombardare le città britanniche, in particolare Londra, volevano ora tentare di costringere i britannici a chiedere la pace colpendo direttamente la popolazione civile, nel tentativo di demoralizzarla.

Questo cambio di tattica, da parte dei tedeschi, offrì alla Royal Air Force l'insperata occasione di non essere più direttamente nel mirino del nemico e di poter quindi riorganizzare e rinforzare la difesa aerea. Come conseguenza, i tedeschi soffrirono perdite di aerei sempre crescenti, finché il 31 ottobre 1940 lo stesso Hitler si rese conto che ormai l'invasione della Gran Bretagna non era più possibile da realizzarsi per quell'anno e rinviò l'operazione Leone Marino a tempo indeterminato. Come rabbiosa vendetta per l'insuccesso della Luftwaffe nel piegare la RAF e il morale dei britannici, nonché come risposta ai primi bombardamenti notturni della RAF ai danni di Berlino, per i quali Hitler pretendeva terribili rappresaglie, nella notte tra il 14 ed il 15 novembre 1940 la Luftwaffe effettuò il bombardamento di Coventry, lasciando la città britannica quasi completamente distrutta o in fiamme. Successivamente però, la Luftwaffe fu costretta a ridurre notevolmente il numero di incursioni contro la Gran Bretagna, che divennero esclusivamente notturne e sempre più rare nel corso degli anni successivi, per limitare la perdita di aerei.

Allo scopo di portare la Gran Bretagna alla sottomissione, la Germania attuò anche un blocco navale, la battaglia dell'Atlantico, svolta soprattutto dai temibili U-Boot. Secondo una teoria accreditata, in realtà Hitler perseguì malvolentieri tutta la campagna contro la Gran Bretagna, ritenendo che l'avversario inglese fosse ormai fuori combattimento e che prima o poi avrebbe chiesto un armistizio. Prima della battaglia d'Inghilterra, Hitler sottovalutava le capacità di resistenza della Gran Bretagna; sperava persino di coinvolgerla, dopo l'armistizio, in una futura alleanza contro l'Unione Sovietica. Difatti, tutti i piani di Hitler erano rivolti all'Est ed alla futura campagna contro l'Unione Sovietica; pertanto non impegnò nella battaglia d'Inghilterra tutte le risorse che avrebbe dovuto e potuto impiegare; né dedicò alla battaglia aerea tutta l'attenzione che essa meritava. Nel dopoguerra, molti generali tedeschi ed alleati intervistati da scrittori e giornalisti, nonché la maggior parte degli storici, concordarono sul fatto che «la mancata effettuazione dell'operazione Seelöwe negò alla Germania l'unica concreta possibilità di vincere la seconda guerra mondiale».
Campagna italiana di Grecia
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I soldati italiani durante l'inverno in Albania.

Il 28 ottobre 1940, su personale iniziativa di Benito Mussolini e senza avvisare l'alleato tedesco, l'Italia attaccò la Grecia partendo dalle basi in Albania; l'iniziativa nasceva principalmente dalle esigenze di prestigio del Duce (ottenere un successo militare da contrapporre ai trionfi di Hitler) e dall'insipienza di Ciano e dei generali sul posto. Organizzato frettolosamente, con mezzi e uomini (appena 100.000 uomini nella fase iniziale) totalmente insufficienti e basato sul presupposto che la Grecia sarebbe crollata senza combattere, l'attacco alla nazione ellenica, sferrato inoltre in condizioni climatiche pessime, si rivelò molto più difficile del previsto. I greci non solo si batterono accanitamente e sfruttando le caratteristiche del terreno, respinsero rapidamente l'attacco italiano. Inoltre disponendo temporaneamente della superiorità numerica, passarono al contrattacco rigettando le forze italiane in Albania. Si sviluppò quindi un'aspra guerra di montagna tra eserciti appiedati e poco mobili (una specie di riedizione della prima guerra mondiale), snervante e demoralizzante per le truppe.

Di fronte alla sconfitta (caduta di Coriza il 22 novembre), Mussolini costrinse Badoglio alle dimissioni e procedette a sostituire i comandanti oltre ad inviare i rinforzi disponibili. Si riuscì a fermare l'avanzata greca ma il fronte rimase bloccato in terra albanese per tutto l'inverno, senza possibilità di passare al contrattacco. Peraltro i britannici aspettandosi questa mossa da parte italiana, decisero di accorrere in aiuto delle forze greche, loro alleate sin dai tempi della prima guerra mondiale. A questo proposito venne organizzato un contingente di 56.000 uomini, a rinforzo delle truppe greche prevedendo un intervento tedesco in aiuto degli italiani; la Royal Air Force disponeva già di basi in Grecia. Gli Alleati conseguirono così loro prima vittoria politico-propagandistica; mentre Mussolini, costretto a chiedere l'intervento di Hitler (dopo i ripetuti fallimenti di riprendere l'offensiva), subì una significativa perdita di prestigio e di consenso interno e internazionale.

L'intervento della Germania si fece attendere per diversi mesi. Hitler, già impegnato, fin dall'autunno 1940, in un complesso gioco diplomatico per organizzare un sistema di alleanze in vista della progettata invasione dell'Unione Sovietica (colloqui con i dirigenti rumeni, ungheresi, bulgari e finlandesi), era molto contrariato dall'intervento italiano in Grecia. La nuova campagna lo costringeva ad una diversione, resa peraltro necessaria per stabilizzare la regione, cacciare gli inglesi dal continente per la seconda volta e rafforzare il fianco meridionale dello schieramento dell'Asse contro l'URSS.[27]
1941
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1941.
L'invasione dei Balcani e i preliminari dell'attacco a Est
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci invasione della Jugoslavia e Operazione Marita.
I tedeschi dilagano anche nei Balcani

A primavera Hitler aveva ormai messo a punto il sistema di alleanze necessario per risolvere la situazione greca e per rafforzare lo schieramento contro l'Unione Sovietica; l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria si affiancavano ufficialmente all'Asse e aprivano le porte all'esercito tedesco; la stessa Jugoslavia, anch'essa obiettivo delle ambizioni mussoliniane, firmava in un primo tempo un trattato con la Germania. Ma il 27 marzo si verificava un golpe interno a Belgrado e un rovesciamento di Alleanze a favore degli inglesi; la risposta di Hitler fu fulminea: il 30 marzo scatenava l'Operazione Marita con l'obiettivo di spazzare via Jugoslavia e Grecia e di sbaragliare il corpo di spedizione inglese. Il selvaggio bombardamento aereo di Belgrado segnò l'inizio di una nuova guerra lampo tedesca: le Panzerdivision dilagarono in tutte le direzioni partendo dalle loro basi in Bulgaria, in Romania e in Austria, l'esercito jugoslavo (minato da contrasti etnici interni) si disgregò in pochi giorni, Belgrado venne occupata (13 aprile), la resa venne firmata il 17 aprile. Contemporaneamente altre forze corazzate tedesche, passando per la Macedonia, aggiravano lo schieramento difensivo anglo-greco, occupavano Salonicco (8 aprile) e tagliavano fuori le forze greche che affrontavano gli italiani in Albania (presa di Giannina il 21 aprile). La Grecia si arrendeva il 24 aprile. L'esercito italiano ebbe parte minore in queste vicende belliche, dimostrando ancora una volta la sua assoluta inferiorità rispetto all'alleato tedesco.

Le spoglie delle nazioni balcaniche vennero divise tra Germania (Serbia, Grecia continentale e isole), Italia (Slovenia e Croazia, dove venne costituito il regime fantoccio di Ante Pavelić, e isole greche), Ungheria e Bulgaria. Ormai in rotta, il corpo di spedizione inglese riuscì a effettuare una nuova miracolosa evacuazione via mare dai porti greci (25 aprile). Il nuovo trionfo hitleriano veniva suggellato (dal 20 al 29 maggio) dalla spettacolare conquista per via aerea, pur con gravi perdite, dell'isola di Creta (occupata da truppe australiane e neozelandesi) da parte dei paracadutisti tedeschi[28]. Nonostante la perdita di tempo causata da queste campagne balcaniche, l'esercito tedesco era ora al massimo della sua efficienza e pronto al grande attacco generale contro l'Unione Sovietica.

La fatale decisione di Hitler di rompere il Patto di non-aggressione Molotov-Ribbentrop e di scatenare un attacco generale all'est (manifestata per la prima volta già nel luglio 1940), nasceva naturalmente in primo luogo dalle concezioni ideologico-razziali del dittatore delineate già nel Mein Kampf; a questi fondamenti ideologici si accompagnavano complesse motivazioni strategiche, politiche ed economiche (alcune utilizzate da Hitler tatticamente solo per convincere i suoi collaboratori): 1) sconfiggere anche l'ultima potenza terrestre europea per poi poter riversare senza timori l'intera potenza della Wehrmacht contro l'Inghilterra; 2) Sconfiggere l'URSS nel 1941, prima dell'intervento americano (previsto per il 1942); 3) organizzare un'area di sfruttamento economico autosufficiente essenziale per condurre una lunga guerra transcontinentale; 4) raggiungere un collegamento diretto con l'alleato giapponese; 5) proteggere la Germania (con una guerra preventiva) dal prevedibile attacco della potenza bolscevica[29].

La pianificazione operativa iniziò quasi contemporaneamente all'OKH (il cosiddetto 'piano Marcks', che poneva particolare enfasi all'obiettivo Mosca) e all'OKW (i contributi del generale von Lossberg, con il progetto di un attacco principale sulle due ali); le decisioni definitive, pesantemente condizionate dal pensiero strategico di Hitler (ostile ad una marcia diretta sulla capitale), vennero cristallizzate nella famosa Direttiva N. 21 del 18 dicembre 1940 (Fall Barbarossa, inizialmente denominato piano Otto): l'attacco sarebbe stato sferrato contemporaneamente su tutto il fronte, il primo obiettivo sarebbe stata la linea Dvina-Dniepr; Mosca sarebbe stata attaccata solo dopo la conquista di Leningrado e dell'Ucraina, la vittoria era attesa entro quindici settimane[30].
Al quartier generale del Führer a Rastenburg (Prussia Orientale): Keitel, von Brauchitsch, Hitler, Halder.

Contemporaneamente all'organizzazione e alla pianificazione di questa gigantesca campagna di guerra, Hitler si impegnò per molti mesi in un'estenuante campagna diplomatica le cui tappe principali furono indubbiamente la firma a Berlino il 27 settembre 1940 del Patto Tripartito tra Germania, Italia e Giappone (diretto in primo luogo a paralizzare l'aggressività americana in Europa con la minaccia giapponese, ma in parte pericoloso implicitamente anche per l'URSS); e la visita di Molotov nella capitale tedesca (12 novembre 1940) in cui fallirono (di fronte alla brutale concretezza eurocentrica del ministro sovietico) i tentativi del dittatore di dirottare le mire russe verso mirabolanti prospettive indiane o persiane. Convinto dell'impossibilità di un nuovo accordo meramente tattico con Stalin e della ristrettezza del tempo rimasto a sua disposizione, Hitler prese la sua decisione[31].

La situazione di Stalin stava diventando evidentemente sempre più difficile: il rafforzamento militare tedesco all'est proseguiva, le piccole nazioni ai confini dell'URSS si alleavano alla Germania, il Giappone era minaccioso in Estremo Oriente; i rapporti con Inghilterra e USA erano difficili (nonostante i tentativi di riavvicinamento dell'ambasciatore inglese Stafford Cripps, che viceversa sollecitarono la sospettosità staliniana). L'URSS era impegnata in una frenetica corsa contro il tempo per ricostruire e riorganizzare le sue forze militari, modernizzare i suoi armamenti e le sue tattiche. Stalin, prevedendo la guerra solo per il 1942, contava di riuscire a completare i suoi preparativi e di poter trattenere Hitler con concessioni economiche e/o diplomatiche; considerando insensato un attacco tedesco a est con l'Inghilterra ancora in armi all'ovest, sopravvalutava la prudenza e l'accortezza strategica di Hitler[32].

Il 13 aprile 1941 Stalin mise a segno un grande successo strategico-diplomatico: firmò con il Giappone il Patto nippo-sovietico di non aggressione, di durata quinquennale, con il quale si coprì le spalle da un attacco giapponese che, in caso di guerra con la Germania di Hitler, avrebbe esposto l'Unione Sovietica alla minaccia di un attacco da dietro[33]. Il Giappone, male informato dai tedeschi sui propositi offensivi contro l'URSS (secondo la volontà di Hitler, desideroso al momento di condurre da solo la guerra all'est), aveva a sua volta firmato il Patto per proteggersi le spalle in caso di una sua avanzata offensiva nel Sud-Est asiatico contro le potenze anglosassoni[34].
Operazione Barbarossa
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci operazione Barbarossa, battaglia di Uman' e battaglia di Kiev (1941).
Le Panzerdivision avanzano nella steppa

Il 22 giugno la Germania, rompendo il patto di non aggressione del 1939, scatenava la gigantesca operazione Barbarossa: Hitler mirava a distruggere rapidamente l'Unione Sovietica; in pochi mesi la schiacciante potenza della Wehrmacht avrebbe dilagato ad est con l'obiettivo di occupare il territorio, stabilendo una linea che da Arcangelo sarebbe arrivata ad Astrachan', ed instaurando nel paese il dominio totale germanico, le popolazioni locali sottomesse, sterminate o deportate, le terre orientali ridotte a terre di colonizzazione e sfruttamento per la razza superiore tedesca[35]. Stalin, nonostante i numerosi avvertimenti diplomatici e di intelligence ricevuti, venne colto di sorpresa: fino all'ultimo aveva interpretato i segni di un attacco tedesco come semplici pressioni intimidatorie di Hitler per costringerlo a trattare da posizioni di debolezza e quindi le forze sovietiche in prima linea non furono tempestivamente allertate e, lasciate senza ordini precisi, vennero attaccate di sorpresa dalle schiaccianti forze nemiche; oltre 3 milioni di soldati tedeschi parteciparono all'attacco appoggiati dai contingenti degli stati satelliti della Germania: Romania, Ungheria, Slovacchia, Italia, Finlandia e dalle formazioni volontarie reclutate nei Paesi Bassi, in Francia, in Scandinavia ed in Spagna.
La nuova guerra lampo

Fin dall'inizio la situazione dei sovietici si rivelò drammatica. I potenti cunei corazzati tedeschi (quattro gruppi con circa 3500 carri armati) avanzarono subito in profondità, progredirono per decine di chilometri nelle retrovie delle truppe sovietiche rimaste ferme sulle linee di confine e conquistarono d'assalto ponti sui fiumi più importanti (Dvina, Niemen e Buh Occidentale) e altri punti strategici. Il caos regnava nelle retrovie e nella catena di comando sovietica; le comunicazioni erano interrotte, le incursioni aeree devastavano i depositi e i centri di comando, a Mosca né Stalin né lo Stavka percepirono subito la catastrofe che si profilava. Mentre le prime linee si battevano accanitamente e disordinatamente, le colonne corazzate tedesche manovravano per richiudere in grandi sacche le forze sovietiche. Le ingenti riserve corazzate sovietiche presenti nelle retrovie vennero gettate subito allo sbaraglio contro le molto più esperte Panzer-Divisionen: si scatenarono numerose battaglie d'incontro sia a nord (Raseniai) sia al centro (Alytus), ma i carri armati russi subirono perdite spaventose, impiegati allo scoperto, confusamente e sotto gli attacchi della Luftwaffe (con un riuscito attacco di sorpresa sugli aeroporti russi, l'aviazione tedesca guadagnò subito il dominio del cielo). A sud le forze corazzate sovietiche si batterono meglio (battaglia di Brody-Dubno) e misero in difficoltà i panzer del cuneo corazzato tedesco; ma la superiorità tedesca si impose e anche in questo settore i mezzi corazzati tedeschi, dopo aver inflitto grandi perdite, continuarono ad avanzare. Ai primi di luglio le grosse riserve corazzate sovietiche erano state malamente impiegate dal comando sovietico e quindi distrutte quasi completamente[36]. I carri armati tedeschi poterono così proseguire l'avanzata negli stati Baltici, avvicinandosi addirittura a Leningrado, progredire verso Žitomir e Kiev, chiudere la sacca di Uman e soprattutto accerchiare tre armate sovietiche nella gigantesca trappola di Minsk-Białystok il 28 giugno (quasi 400.000 perdite[37]).

Il 3 luglio, dopo un'eclissi di oltre dieci giorni, Stalin rientrava in campo con un celebre discorso radiofonico in cui delineava realisticamente le difficoltà della situazione e l'entità della minaccia che incombeva sull'URSS e i suoi popoli. L'intervento del dittatore servì, accompagnato da misure draconiane (secondo i ben noti metodi staliniani), a rafforzare la disciplina, mobilitare tutte le risorse e organizzare nuove armate per ricostituire un fronte difensivo. Infatti, alla metà di luglio, lo schieramento iniziale sovietico era stato praticamente distrutto dall'attacco tedesco (oltre un milione di prigionieri solo nel primo mese di guerra[37]). I tedeschi, dopo aver rastrellato la sacca di Minsk, procedevano rapidamente lungo la strada di Mosca. A Smolensk anche il secondo scaglione sovietico, frettolosamente organizzato, venne accerchiato (18 luglio); si scatenò una sanguinosa battaglia, la resistenza sovietica fu aspra e, anche se al costo di gravi perdite (350.000 uomini) servì a rallentare e contenere la progressione diretta tedesca lungo la strada di Mosca (fine luglio)[38].

Nel frattempo i tedeschi avevano conquistato completamente gli Stati Baltici (accolti favorevolmente dalla popolazione) e marciavano su Leningrado; l'intervento finlandese da nord (1º luglio) aggravò ancora la situazione della ex-capitale. Agli inizi di agosto la precaria linea difensiva di Luga venne superata; con manovra aggirante le colonne tedesche (pur duramente contrastate dalle raccogliticce forze sovietiche) raggiunsero il Lago Ladoga a Schlissenburg l'8 settembre, i finlandesi avevano riconquistato parte della Carelia, Leningrado era totalmente isolata. Cominciava la tragedia della grande città, decimata dalla fame e dai bombardamenti, ma determinata a non arrendersi[39]; durante l'inverno solo la via della vita sul ghiaccio del Ladoga avrebbe permesso la precaria sopravvivenza dei resti della popolazione. A sud, dove i tedeschi erano rafforzati dai contingenti satelliti rumeno (che marciò lungo la costa del Mar Nero verso Odessa) e italiano (CSIR), la resistenza sovietica era più solida, in difesa di Kiev e della linea del Dniepr; quindi, essendo le forze tedesche più deboli, l'avanzata venne rallentata.
Soldati tedeschi e popolazione civile sovietica nel sud della Russia, all'inizio dell'invasione nazista.

Alla fine di luglio Stalin fece mostra di un certo ottimismo, durante i colloqui con l'inviato di Roosevelt Harry Hopkins[40], esprimendo la sua sicurezza di fermare la guerra lampo tedesca; pur non sconsiderato, l'ottimismo staliniano (basato anche sulla riuscita mobilitazione delle risorse umane e militari sovietiche e sulla pianificata evacuazione degli impianti industriali negli Urali e in Siberia) era certamente prematuro: i tedeschi erano ancora molto potenti, nonostante le dure perdite (390.000 uomini al 13 agosto[41]) ed erano in grado di proseguire l'avanzata verso il cuore della Russia.
Una colonna di prigionieri sovietici

In questa fase sorsero contrasti anche nell'Alto Comando tedesco tra Hitler, ostile a seguire il miraggio di Mosca e quindi a proseguire direttamente verso la capitale, e alcuni generali (Halder e Guderian principalmente) determinati invece a marciare subito su Mosca sperando anche negli effetti psicologici derivanti dalla caduta della città[42]. Hitler impose la sua decisione; preoccupato dalle difficoltà verificatesi nel settore meridionale architettò una nuova gigantesca manovra accerchiante con l'afflusso verso sud di una parte delle forze corazzate del raggruppamento centrale. La manovra avrebbe dato origine alla 'micidiale sacca di Kiev'[43], in cui l'intero concentramento di forze sovietico del settore meridionale venne accerchiato e distrutto con la perdita di oltre 600.000 soldati[37] (24 settembre 1941). La catastrofe, in parte scaturita da alcune decisioni errate di Stalin (deciso a non cedere Kiev anche per motivi di prestigio) sembrò confermare la correttezza delle decisioni del Führer.

Alla fine di settembre la situazione sembrava decisa a favore dei tedeschi: Leningrado era stretta nel mortale assedio tedesco-finlandese; le difese di Mosca, imperniate sulle precarie linee fortificate a est di Smolensk, apparivano vulnerabili; a sud si apriva il vuoto di fronte alle colonne corazzate tedesche. L'Ucraina era completamente conquistata (presa di Char'kov il 24 ottobre), la Crimea era invasa (dal 18 ottobre), i tedeschi si spingevano in direzione di Rostov, porta del Caucaso (che sarebbe caduta provvisoriamente il 20 novembre)[44].
La battaglia di Mosca
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce battaglia di Mosca.

Il 2 ottobre, dopo il rafforzamento del raggruppamento centrale tedesco portato a 1 milione di uomini e 1.700 carri armati[45], Hitler scatenava l'Operazione Tifone: una potente offensiva diretta a conquistare Mosca, distruggere le forze sovietiche a difesa della capitale e concludere vittoriosamente la guerra all'Est prima dell'arrivo dell'inverno. Nonostante le gravi perdite già subite dai tedeschi (551.000 perdite totali alla data del 30 settembre[45]) il Führer e l'alto comando tedesco mantenevano la piena fiducia di vincere questa ultima grande battaglia contro le superstiti forze sovietiche, che avevano subito perdite enormi di uomini (oltre 2,7 milioni di perdite, secondo le stesse fonti sovietiche[37]) ed equipaggiamenti. L'inizio dell'Operazione Tifone sembrò confermare l'ottimismo tedesco: i cunei corazzati penetrarono subito le cinture difensive sovietiche (malamente schierate e organizzate) e progredirono con grande velocità chiudendo due nuove gigantesche sacche di accerchiamento a Brjansk e Vjazma (7 ottobre); un'altra colonna di panzer entrò di sorpresa a Or«l (2 ottobre). La situazione dei russi si aggravò rapidamente: le forze poste a difesa di Mosca erano accerchiate (queste truppe si batterono coraggiosamente fino alla fine del mese, ma subirono perdite molto pesanti, almeno 500.000 uomini[37]), i carri armati tedeschi avanzavano sulla capitale direttamente dalla strada maestra di Smolensk, da nord passando per Kaluga (occupata il 12 ottobre) e anche da sud[43]. Stalin per la prima volta mostrò segni di disperazione; il 14 ottobre esplose il panico a Mosca, mentre il corpo diplomatico e il governo si trasferivano a Kujbyšev. Il momento di scoramento del dittatore sovietico fu breve; decise quindi di rimanere personalmente nella capitale e organizzare la difesa di Mosca richiamando dal fronte di Leningrado l'abile generale Georgij Žukov e, soprattutto, schierando numerose divisioni siberiane ben equipaggiate provenienti dall'Estremo Oriente (a questo punto Stalin, anche grazie alle notizie fornite dalla spia Richard Sorge, si convinse che il Giappone non avrebbe attaccato l'URSS alle spalle[46]). L'intervento di queste truppe scelte, l'energia dispiegata da Stalin e Žukov e anche l'arrivo sul campo di battaglia del periodo del fango che intralciò enormemente la progressione delle colonne tedesche, concorsero a fermare la marcia sulla capitale (fine ottobre)[47].
I russi, ben equipaggiati per l'inverno, contrattaccano durante la battaglia di Mosca.

Ma i tedeschi non rinunciarono e, dopo aver atteso che i primi geli solidificassero il terreno, ripresero ancora l'attacco, nonostante l'approssimarsi dell'inverno russo a cui erano totalmente impreparati (per decisione di Hitler l'equipaggiamento invernale era stato escluso ottimisticamente dalle dotazioni delle truppe combattenti). Anche quest'ultimo tentativo tedesco (iniziato il 16 novembre), nonostante qualche successo (alcuni reparti tedeschi giunsero in vista della periferia della capitale sovietica il 4 dicembre), sarebbe fallito di fronte alla solida resistenza sovietica e al progressivo peggioramento del clima.

Stalin e Žukov disponevano ancora di forze di riserva efficienti e ben equipaggiate per l'inverno, con cui sferrarono a partire dal 5 dicembre un improvviso contrattacco sia a nord di Mosca che a sud della capitale contro le punte avanzate tedesche ormai bloccate anche dall'arrivo del gelo. Il colpo cadde totalmente inaspettato sulle truppe tedesche ormai esauste; in mezzo alle intemperie invernali i russi passarono all'offensiva, liberarono molte importanti città intorno a Mosca, e rigettarono i tedeschi a oltre 100 km dalla capitale; la Wehrmacht subì la sua prima pesante sconfitta della guerra; ci furono crolli del morale tra le truppe e i generali tedeschi; enormi quantità di equipaggiamento furono persi. L'Operazione Barbarossa si concludeva alla fine dell'anno con un fallimento; l'URSS, nonostante le enormi perdite (4,3 milioni di perdite totali nel 1941[37], non era crollata e era passata al contrattacco, i tedeschi erano costretti a combattere una dura battaglia difensiva invernale, la situazione geostrategica complessiva cambiava a sfavore della Wehrmacht (molto indebolita: 831.000 perdite al 31 dicembre; quasi un quarto dei suoi effettivi[48]). Per Hitler, forse già presago della futura sconfitta[49] ma tenacemente deciso a continuare la guerra su tutti i fronti (organizzò personalmente la difesa ad oltranza sul fronte orientale per evitare una ritirata incontrollabile dell'Esercito tedesco), il futuro diventava oscuro[50].
Mediterraneo e Africa

Per la Royal Navy la situazione nel Mediterraneo si fece difficile. Nonostante la brillante vittoria contro gli italiani presso Matapan (27 marzo), la Mediterranean Fleet subì pesanti perdite durante le operazioni per l'evacuazione della Grecia. In autunno il sottomarino tedesco U311 colò a picco la corazzata Barham, e in dicembre andarono perdute anche la Valiant e la Queen Elizabeth, ad opera dei mezzi d'assalto della marina italiana. Nel corso dello stesso anno la Mediterranean Fleet aveva perduto la portaerei Ark Royal, l'incrociatore pesante York, gli incrociatori Gloucester, Calcutta, Neptune, Fiji e numerosi cacciatorpediniere e unità minori. Gravi danni aveva subito anche la corazzata Nelson, silurata da aerei italiani, e le portaerei Illustrious e Formidable, gravemente danneggiate da bombardieri tedeschi. Le difficoltà create dalle pesanti perdite non impedirono alla flotta britannica di infliggere a sua volta gravi danni al traffico di rifornimenti tra Italia e Libia. Per quanto duramente provata dai bombardamenti aerei, la piazzaforte di Malta rimase una pericolosa spina nel fianco dei rifornimenti italo-tedeschi.

Le truppe presenti in Africa orientale, dopo i primi, effimeri successi (conquista di Cassala e occupazione della Somalia britannica), furono presto isolate. Nella primavera la maggior parte dell'Africa Orientale Italiana fu occupata dalle truppe britanniche. L'ultima piazzaforte italiana a cadere in mano inglese fu Gondar, dopo strenua difesa da parte del colonnello Guglielmo Nasi (27 novembre 1941 Battaglia di Gondar).
Battaglia dell'Atlantico
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Battaglia dell'Atlantico .
1942
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1942 .
Controffensiva invernale sovietica

L'anno iniziò sul gigantesco fronte orientale con le nuove offensive sovietiche invernali ordinate da Stalin (convinto della possibilità di un crollo 'napoleonico' dell'esercito tedesco e quindi desideroso di non dare respiro all'invasore) in tutte le direzioni: dopo la vittoriosa battaglia di Mosca, l'Armata Rossa proseguì la sua avanzata, in mezzo alle intemperie dell'inverno russo e a costo di terribili perdite, soprattutto nella regione a ovest della capitale. I tedeschi si trovarono spesso in drammatiche difficoltà, persero ancora parecchio terreno, ma non crollarono (in parte per l'ordine di Hitler di resistenza sul posto ed anche per aver mantenuto la loro coesione e combattività). Leningrado rimase bloccata, Ržev e Vjaz'ma divennero capisaldi sulla via di Mosca, la linea del Donec venne mantenuta[51]; le due sacche di Demjansk e Cholm vennero tenacemente difese dalle truppe tedesche accerchiate che, rifornite per via aerea, resistettero fino a primavera (quando vennero liberate dalle colonne di soccorso)[52].
Operazione "Blu"
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Seconda battaglia di Char'kov, Battaglia di Crimea e Operazione Blu.
Una nuova avanzata verso est.

A costo di gravi perdite, con oltre 1 milione di soldati morti o feriti dal 22 giugno 1941 al 30 marzo 1942[53], la Wehrmacht riuscì a fermare la prima controffensiva dell'Armata Rossa, altrettanto provata: 1,5 milioni di perdite[37]. Hitler, consapevole del fatto che il tempo lavorasse contro di lui (dopo l'entrata in guerra della potenza nordamericana) e erroneamente convinto che i russi dopo la loro sanguinosa offensiva invernale avessero definitivamente esaurito le loro forze, impose una nuova offensiva concentrata nel solo settore meridionale dell'immenso fronte orientale allo scopo di schiacciare le forze residue sovietiche e di conseguire quegli obiettivi strategico-economici (il bacino del Donbass, la regione del Volga, il petrolio del Caucaso, il grano del Kuban) ritenuti essenziali per proseguire una lunga guerra aeronavale contro le potenze anglosassoni. Dopo alcuni contrasti[54] a livello dell'Alto comando tedesco tra alcuni generali, favorevoli ad un nuovo attacco diretto su Mosca o addirittura ad un mantenimento della difensiva, e Hitler, deciso a concludere a tutti i costi la guerra all'est entro il 1942, l'Operazione Blu veniva definitivamente stabilita (Direttiva 41 del 5 aprile).

Il 28 giugno 1942 la Wehrmacht ripartiva all'offensiva, puntando verso Sud-Est. Dopo alcune rilevanti vittorie tedesche preliminari, quali la conquista della Crimea e del grande porto di Sebastopoli (già assediati da diverse settimane), e la Seconda battaglia di Kharkov, che frustrò i tentativi di attacco sovietici, iniziava la spinta decisiva in direzione del fiume Don, del fiume Volga e contemporaneamente anche del Caucaso. La Wehrmacht, favorita anche da contrasti nelle alte sfere sovietiche sulle strategie da seguire, a seguito degli errori commessi da Stalin e dai suoi Generali in primavera, per alcuni mesi sembrò nuovamente trionfante e vicina alla vittoria definitiva: l'Armata Rossa batteva in ritirata in disordine; sempre nuovi territori venivano conquistati; e con la presa di Rostov (23 luglio), si erano aperte le porte del Caucaso. Hitler, convinto che ormai il crollo sovietico fosse imminente, impose di accelerare i tempi, con un'avanzata contemporanea sia verso il Volga e il grande centro industriale di Stalingrado, sia verso il Caucaso e i pozzi di petrolio di Groznyj e Baku[55].
La Battaglia di Stalingrado
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci battaglia di Stalingrado, Operazione Urano, Operazione Piccolo Saturno e Operazione Tempesta Invernale.

Per Stalin era un momento drammatico: la città che portava il suo nome era minacciata, l'esercito appariva scoraggiato, i tedeschi invincibili, gli alleati anglosassoni sembravano osservare la situazione: nessun Secondo fronte in Europa nel 1942. Nonostante i progetti di Marshall e Eisenhower per intervenire subito in Francia per alleggerire la pressione sui Russi, Churchill, sempre timoroso dei tedeschi e forse desideroso di un dissanguamento reciproco russo-tedesco, ebbe partita vinta con Roosevelt e impose l'abbandono dei piani americani e l'adozione del piano di sbarco in Nordafrica[56].

Il 28 luglio Stalin emanava il suo famoso ordine del giorno "Non un passo indietro": era l'inizio della ripresa militare, organizzativa e morale dell'Armata Rossa; fin dal 17 luglio era cominciata la dura e sanguinosa battaglia di Stalingrado. Il 23 agosto i tedeschi raggiunsero il Volga ma la resistenza sovietica fu subito tenace, Stalin mobilitò tutte le risorse, nella città, aspramente difesa dalla 62ª Armata del generale Vasilij Čujkov, infuriò per due mesi una violenta battaglia stradale che dissanguò la potente 6ª Armata tedesca del generale Friedrich Paulus[57]. Contemporaneamente anche nel Caucaso l'avanzata tedesca rallentava (nonostante alcuni spettacolari successi propagandistici tedeschi come la scalata del monte Elbrus in agosto) e finiva per fermarsi alle porte di Groznij e di Tblisi e Tuapse, esaurita dalle prime intemperie, dalle difficoltà del terreno e dalla tenace difesa sovietica.
Un carro T-34 sovietico in azione durante l'operazione Urano.

A metà novembre i tedeschi erano avvinghiati in un sanguinoso scontro a Stalingrado, bloccati definitivamente nel Caucaso, ridotti alla difensiva su tutto il resto del fronte Orientale. Il fronte dell'Asse si estendeva pericolosamente su quasi 3.000 km, con i due raggruppamenti più potenti bloccati a Stalingrado e nel Caucaso. Il pericolo principale risiedeva nel lungo fianco settentrionale sul Don; ma Hitler decise di mantenere le posizioni raggiunte (del resto anche molti generali tedeschi ritenevano l'Armata Rossa ormai indebolita ed incapace di offensive strategiche[58]). Al contrario Stalin e i suoi generali più importanti (Aleksandr Vasilevskij e Georgij Žukov) già da settembre avevano iniziato ad organizzare grandi controffensive, previste per il tardo autunno e l'inverno per ottenere una vittoria decisiva e rovesciare completamente l'equilibrio strategico sul fronte orientale[59]. Erano le offensive "planetarie" dell'Armata Rossa, denominate con nomi di pianeti, per sottolineare il massiccio numero di forze impiegate.
Le colonne corazzate sovietiche avanzano nella neve durante l'operazione Piccolo Saturno.

Il 19 novembre 1942 si scatenava l'operazione Urano: in cinque giorni i corpi meccanizzati sovietici travolsero le difese tedesco-rumene sul Don, sbaragliarono le riserve corazzate tedesche e si congiungero a Kalač (23 novembre), accerchiando completamente la 6ª Armata bloccata a Stalingrado (quasi 300.000 uomini[60]). Mentre falliva l'Operazione Marte sulla direttrice di Mosca, a metà dicembre Stalin sferrò il nuovo attacco sul Don (operazione Piccolo Saturno), mentre i tedeschi tentavano disperatamente di venire in soccorso delle truppe rimaste accerchiate a Stalingrado anche per ordine di Hitler (risoluto a tenere le posizioni sul posto fino all'ultimo). La catastrofe colpì in pieno anche le truppe italiane del corpo di spedizione in Russia (impiegato fin dal 1941 come CSIR e rinforzato nel 1942 come 8ª Armata o ARMIR), schierate a difesa del Medio Don con mezzi e equipaggiamenti inadeguati. Dal 19 dicembre la ritirata degli italiani, inseguiti nella neve dalle colonne corazzate sovietiche, si trasformò in tragedia (quasi 100.000 perdite[61]). Alla fine dell'anno la situazione dell'Asse sul fronte orientale era molto critica: la 6ª Armata tedesca accerchiata a Stalingrado, isolata, affamata e ormai senza più speranze, le truppe satelliti rumene e italiane in rotta, l'esercito tedesco nel Caucaso in piena ritirata (dal 30 dicembre) per evitare un nuovo accerchiamento, i sovietici ina avanzata generale. L'Asse perse circa 1 milione di uomini[47] tra il novembre 1942 e il 2 febbraio 1943, data della resa definitiva a Stalingrado[62].
Il problema del "Secondo Fronte" e l'incursione di Dieppe
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Secondo fronte (seconda guerra mondiale).

Il problema di un Secondo Fronte in Europa occidentale che attirasse e logorasse una parte della Wehrmacht (impegnata quasi completamente a est) e alleviasse la pressione tedesca sui russi era sorto praticamente fin dalla prima lettera di Stalin a Churchill del 18 luglio 1941 (in risposta alla missiva del Primo Ministro inglese del 7 luglio). Le richieste di Stalin, riguardo ad un impegno immediato inglese in forze sul continente, erano irrealistiche: in primo luogo a causa della debolezza dell'esercito inglese (reduce dalle disfatte in Francia, Norvegia, Grecia e Creta) ed inoltre perché il piano di guerra di Churchill del 1941 (prima dell'entrata in guerra degli Stati Uniti) era completamente differente. Esso partiva dalla convinzione (presente soprattutto nell'establishment militare) di un rapido crollo dell'URSS e si fondava su: potenziamento massimo dei rifornimenti di armi dagli USA (secondo la Legge Lend-Lease Affitti e Prestiti del 11 marzo 1941), continuo incremento dei bombardamenti strategici terroristici del Bomber Command per scuotere il morale dei civili tedeschi e distruggere l'industria bellica del Reich, organizzazione di piccole operazioni periferiche dirette a logorare il nemico e a provocare il crollo dei suoi alleati (secondo il vecchio schema adottato dagli inglesi contro Napoleone nella guerra d'indipendenza spagnola). Erano quindi state pianificate le operazioni: Crusader (in Cirenaica), Acrobat (Tripolitania), Gymnast (Nordafrica francese), Jupiter (Norvegia) e Whipcord (Sicilia)[63].

Due eventi capitali verificatesi alla fine del 1941 cambiarono radicalmente la situazione: Stalin e l'Armata Rossa riuscirono a fermare l'avanzata tedesca e passarono al contrattacco dal 5 dicembre (con conseguente necessità per l'Esercito tedesco di rimanere in gran parte sul fronte est) e dal 7 dicembre gli Stati Uniti entrarono in guerra.

Nel gennaio del 1942 Churchill e Roosevelt si incontrarono in America: l'accordo fu immediato sul concetto del Germany first (sconfiggere prima la Germania e poi occuparsi del Giappone), ma nel campo della pianificazione operativa sorsero ampi contrasti tra inglesi (desiderosi di non correre rischi e di coinvolgere gli USA in Africa - piano 'Super-Gymnast') e gli americani[64]. Nell'aprile 1942 Marshall inviò in Europa Eisenhower e Clark che subito pianificarono operazioni per un rientro in forze sul continente fin dal 1942, per alleviare i russi di nuovo sotto pressione (piano 'Sledgehammer'), e poi nel 1943 con offensive in grande stile (piano 'Round-up')[65].
Dieppe: un gruppo di soldati canadesi prigionieri.

Durante il viaggio di Molotov a Washington (maggio) Roosevelt diede precise assicurazioni positive in questo senso (forse anche per evitare impegni politico-territoriali precisi), ma Churchill e gli strateghi inglesi riuscirono, negli incontri del 18-20 luglio 1942, a imporre l'abbandono di questi progetti americani (anche a causa della disfatta di Tobruk in Africa e delle nuove ritirate sovietiche) e a stabilire come unico impegno positivo angloamericano per 1942 il piano 'Torch'-ex Super-Gymnast (sbarco nel Nordafrica francese)[66].

Tuttavia l'ipotesi di aprire un "Secondo Fronte" che minacciasse direttamente la Germania, magari partendo da un'invasione della Francia occupata dai tedeschi, non poteva essere del tutto trascurata. A tal proposito, i dubbi strategici e logistici dei generali Alleati risiedevano, soprattutto, nel cercare di capire se fosse possibile occupare un porto marittimo francese sul Canale della Manica, da utilizzare sia come punto di lancio per un'invasione su vasta scala, sia come punto di approdo sicuro per i rifornimenti alle truppe impegnate nell'invasione. Gli Alleati concordarono nell'effettuare un esperimento, per sondare la capacità di reazione della Wehrmacht: avrebbero tentato l'invasione del porto di Dieppe, sulla costa francese. Le truppe alleate avrebbero dovuto conquistarlo il più rapidamente possibile; quindi avrebbero tentato di mantenerlo occupato e controllato per almeno 48 ore; dopo di che sarebbero state evacuate. Se la Wehrmacht avesse dimostrato incapacità a reagire efficacemente, la futura ipotetica invasione della Francia avrebbe potuto iniziare da un porto.

Il 18 agosto fu messo in azione il Piano Jubilee a Dieppe, che però si risolse in un completo disastro. Non solo le truppe sbarcate (principalmente canadesi) non riuscirono ad occupare il porto, ma furono in gran parte distrutte dalle truppe tedesche in difesa (soltanto una minoranza di soldati alleati riuscì ad essere evacuata dal campo di battaglia) e la battaglia aerea sopra le spiagge terminò con una netta vittoria della Luftwaffe. Pertanto i Generali alleati ebbero la conferma che non sarebbe stato possibile invadere la Francia attaccando direttamente un porto marittimo; ma sarebbe stato necessario inventare nuove soluzioni tattiche, che sarebbero state poi impiegate nello sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. Per contro, il fallimento alleato a Dieppe mise comunque in allarme Hitler, che diede ordine di iniziare la costruzione di un imponente Vallo Occidentale o Vallo Atlantico, una lunghissima catena di fortificazioni difensive che, teoricamente, si sarebbe dovuta estendere sulle coste di tutto il Nord Europa occupato dai tedeschi: dalle coste della Norvegia alle coste meridionali francesi sino ai confini con la Spagna, creando così una Fortezza Europa. Da questo punto di vista, la sanguinosa incursione alleata su Dieppe risultò un discreto successo "indiretto", in quanto la conseguente decisione di Hitler, di costruire una quantità impressionante di fortificazioni ad Ovest, comportò il dispendio di enormi quantità di risorse industriali, quali ad esempio l'acciaio, che altrimenti l'industria bellica tedesca avrebbe potuto impiegare per produrre più carri armati e cannoni, da destinare al Fronte Orientale.

Poco prima, durante il suo soggiorno a Mosca (12-17 agosto 1942), Churchill aveva illustrato ad un furibondo Stalin le motivazioni delle nuove decisioni alleate: l'URSS sarebbe rimasta da sola a combattere il Terzo Reich sul continente almeno per un altro anno, mentre gli Alleati avrebbero preso la strada per l'Africa, in attesa di un ulteriore logoramento tedesco all'Est, nonché in attesa della costituzione di adeguate forze americane in Inghilterra, per un ipotetico attacco in forze in Francia nel 1943 o più probabilmente nel 1944[67].
1943
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1943.
La controffensiva tedesca ad est
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Offensiva Ostrogorzk-Rossoš, Operazione Stella e Terza battaglia di Char'kov.

Il 2 febbraio 1943, i resti della 6ª Armata tedesca si arresero a Stalingrado. Mentre si consumava il drammatico finale dell'interminabile battaglia, Stalin e il Comando supremo ampliarono le dimensioni e gli scopi dell'offensiva invernale sovietica. Coscienti delle enormi perdite inflitte alle truppe dell'Asse (quasi 70 divisioni distrutte - almeno 30 tedesche, 18 rumene, 10 italiane e 10 ungheresi[68]) e di fronte ai segni di ritirata generale dei tedeschi (il 30 dicembre era iniziato il ripiegamento dal Caucaso e il 12 gennaio era cominciata con un grande successo l'offensiva sul medio Don contro le truppe ungheresi e il Corpo Alpino italiano[69]) i comandi sovietici sperarono di respingere il nemico, prima del disgelo di primavera, almeno fino al Dniepr e alla Desna. Le vittorie sovietiche, in effetti, si succedettero: sul Medio Don le colonne corazzate sovietiche procedevano verso Kursk e Char'kov, il Caucaso venne progressivamente liberato, Rostov sul Don tornò in mano russe il 14 febbraio, il 30 gennaio erano iniziate due nuove operazioni (Operazione Galoppo e Operazione Stella) dirette verso il Dniepr e il mar d'Azov e il 16 febbraio cadde anche Char'kov dopo una dura battaglia contro alcuni reparti scelti tedeschi.

Stalin e lo Stavka organizzarono contemporaneamente altre offensive sul fronte di Leningrado, che venne parzialmente sbloccata il 18 gennaio, sul fronte di Ržev-Vjazma, dove i tedeschi ripiegarono ordinatamente ai primi di marzo e anche sul fronte di Or«l e Smolensk. Ma ormai anche i sovietici erano esauriti dopo tre mesi di offensive ed estenuanti inseguimenti: i reparti erano stanchi e le carenze logistiche si aggravavano. I comandi e lo stesso Stalin sottovalutarono le difficoltà e i pericoli. I tedeschi, dopo un momento di sbandamento, mantennero la loro efficienza combattiva e con l'afflusso di forti reparti corazzati provenienti dalla Francia, organizzarono una controffensiva per tagliare fuori le punte avanzate sovietiche e ristabilire la situazione su tutto il fronte Orientale.

A partire dal 19 febbraio le Panzer-Divisionen tedesche del feldmaresciallo von Manstein sferrarono il loro contrattacco: i sovietici furono colti di sorpresa (era convinzione generale che i tedeschi avrebbero continuato la loro ritirata) e sconfitti. Tutte le colonne di testa vennero messe in grave difficoltà e cominciarono a ripiegare. I tedeschi riguadagnarono la linea del Donec e del Mius, a marzo riconquistarono anche Char'kov, prendendosi una sanguinosa rivincita (Terza battaglia di Kharkov). Anche i tentativi sovietici verso Or«l e Smolensk vennero respinti. A metà marzo con l'arrivo della rasputizsa (disgelo primaverile) le operazioni si fermarono e il fronte si stabilizzò momentaneamente[70].
La battaglia di Kursk e l'avanzata generale Sovietica
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Battaglia di Kursk e Quarta battaglia di Char'kov.
Battaglia di Kursk: l'ultima speranza tedesca.

Nella primavera del 1943, la nuova linea del Fronte presentava nel settore centrale un grosso saliente sovietico profondamente spinto verso ovest, presso Kursk: situazione potenzialmente pericolosa e favorevole ad un nuovo attacco tedesco a tenaglia. Tuttavia Hitler, scosso dalla catastrofe di Stalingrado e dalle sconfitte subite in Africa Settentrionale dall'Afrika Korps, con conseguente ulteriore indebolimento dell'alleato italiano, mostrò per una volta indecisione nella pianificazione strategica[71]. Timoroso di un nuovo fallimento, e di fronte ai pareri ampiamente divergenti dei suoi generali, Hitler decise successivi rinvii della prevista offensiva a tenaglia, per dare tempo all'industria bellica tedesca di fornire alla Wehrmacht un grande numero di carri armati, tra i quali i nuovi Panther e Tiger dai quali si aspettava risultati decisivi.
I carri armati 'Tiger' a Kursk.

Il ritardo tedesco nello scatenare l'offensiva fornì ai sovietici l'opportunità di rafforzare e fortificare il Saliente di Kursk. Anche Stalin stava pianificando nuove offensive, per liberare il territorio sovietico ancora occupato, ma di fronte ai giganteschi preparativi tedeschi decise, su consiglio anche dei suoi Generali, di mantenersi in un primo tempo sulla difensiva, per poi passare in un secondo momento ad una controffensiva generale. L'Armata Rossa ebbe tutto il tempo di prepararsi allo scontro. Il Saliente di Kursk fu riempito di mine anticarro e cannoni anticarro sovietici; trasformandosi da potenziale punto debole del Fronte sovietico in autentica trappola per la Wehrmacht[72].

Il 5 luglio i tedeschi iniziavano l'Operazione Cittadella per schiacciare il saliente di Kursk: furono otto giorni di battaglia durissimi tra i panzer tedeschi e le difese anticarro e i carri armati sovietici. Il 12 luglio i tedeschi, dopo aver subito grosse perdite, non erano ormai più in grado di insistere nell'attacco. La gigantesca mischia corazzata di Prokhorovka suggelò la sconfitta tedesca, proprio mentre nello stesso momento, secondo i progetti di Stalin, i sovietici passavano a loro volta all'attacco nella regione di Or«l e sul Mius. I tedeschi, avendo perso circa il 60% delle forze corazzate disponibili sul fronte orientale[73], dovettero rinunciare definitivamente all'iniziativa ad Est: cominciava ora per loro una lunga e sanguinosa ritirata.

L'offensiva di Stalin si sviluppò progressivamente su tutti i settori principali dell'immenso fronte orientale: fin dal 12 luglio era cominciata la battaglia di Or«l, il 3 agosto i sovietici passarono all'attacco, dopo aver ricostituito con grande rapidità grosse forze corazzate offensive (nonostante le pesanti perdite di Kursk) anche nel settore di Belgorod. La battaglia fu sempre durissima: i tedeschi non ripiegarono senza combattere e, al contrario, organizzarono continui rispiegamenti delle loro esperte Panzerdivision per rafforzare le difese e effettuare aspri contrattacchi. Ma l'avanzata sovietica fu inesorabile anche se duramente contrastata: il 5 agosto veniva liberata Or«l, il 23 finiva con la vittoria russa la Quarta battaglia di Kharkov, dopo nuovi furiosi scontri di carri armati; ai primi di settembre crollava anche il fronte sul Mius (presa di Taganrog e Stalino). A questo punto Hitler accolse, pur con riluttanza, la proposta del feldmaresciallo Erich von Manstein di un ripiegamento strategico fino alla linea del Dniepr (l'ipotizzato Ostwall), poiché le perdite tedesche erano state ingenti, le riserve corazzate erano esaurite e i russi apparivano nettamente superiori.
Carri armati e fanti sovietici avanzano durante l'offensiva dell'estate 1943.

Cominciò così la grande battaglia per il Dniepr: le truppe sovietiche, energicamente spronate da Stalin, inseguirono subito l'esercito tedesco in ritirata che tentava di attestarsi saldamente sul grande fiume. Il progetto tedesco fallì: i sovietici costituirono rapidamente numerose teste di ponte da cui partire per liberare anche l'Ucraina occidentale; l'obiettivo più importante era Kiev, che venne liberata il 6 novembre dopo un'audace manovra aggirante delle truppe corazzate sovietiche. Anche più a sud i sovietici si attestarono sulla riva occidentale del Dniepr e liberarono progressivamente (dopo duri scontri) i grandi centri di Dnepropetrovsk, Zaporoze, Kremencug. Infine anche a nord, nella regione centrale, l'Armata Rossa passò all'offensiva e, nonostante la resistenza tedesca e le difficoltà del terreno, liberò anche Brjansk (17 settembre) e Smolensk (25 settembre).

Tuttavia i tedeschi, pur fortemente indeboliti, mantennero ancora il possesso della Crimea, degli importanti centri minerari di Krivoj Rog e Nikopol e sferrarono anche una nuova controffensiva (con l'afflusso di rinforzi dall'ovest e dall'Italia) che mise in grosse difficoltà le truppe sovietiche che avanzavano dopo la liberazione di Kiev, (controffensiva di Zhitomir: novembre-dicembre 1943). Nonostante questi rovesci locali e le gravi perdite (oltre 1 milione di morti solo nel secondo semestre del 1943[37]), Stalin e l'Armata Rossa conclusero il 1943 con pieno successo: l'esercito tedesco era stato gravemente danneggiato (1.400.000 morti, feriti o dispersi tra luglio e dicembre[74]) ed era ora inferiore numericamente e tecnicamente, gran parte delle regioni occupate erano state liberate, l'offensiva invernale, già in preparazione, prometteva nuovi successi, l'intervento in forze sul continente degli anglosassoni era imminente[75].
Il fronte mediterraneo e la campagna d'Italia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Campagna d'Italia (seconda guerra mondiale).
Truppe americane durante lo sbarco di Salerno (9 settembre 1943).

Al disastro tedesco di Stalingrado ne seguì un altro in Tunisia, con la perdita dell'ultimo caposaldo dell'Asse in Nordafrica e la cattura di circa 200.000 soldati tedeschi e italiani (maggio 1943). Subito dopo gli Alleati usarono il Nordafrica come trampolino di lancio per l'invasione della Sicilia, l'Operazione Husky (luglio 1943). In realtà le decisioni definitive alleate riguardo alla pianificazione operativa avevano scatenato nuovi duri contrasti tra gli americani, desiderosi di un pronto ritorno in forze in Europa (Operazione Round-Up per un attacco in Francia nel 1943, che poi sarebbe diventata l'operazione Overlord del 1944) e gli inglesi, più timorosi della potenza tedesca e quindi favorevoli ad un rinvio (in attesa di un ulteriore dissanguamento tedesco all'est) e all'esecuzione di operazioni marginali nel Mediterraneo, nei Balcani, nell'Egeo (il ventre molle dell'Europa secondo Churchill). Le decisioni della Conferenza di Casablanca portarono allo sbarco in Sicilia (10 luglio 1943), anche nella speranza di provocare un crollo del regime fascista già fortemente indebolito. Le rapida dissoluzione delle difese italiane in Sicilia provocò una svolta decisiva in Italia: il 25 luglio Mussolini venne destituito dal re Vittorio Emanuele III e sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio; il ventennale regime fascista si dissolse in pochissime ore senza opporre resistenza. Hitler, furibondo, previde la possibile resa dell'Italia e organizzò rapidamente le truppe e i piani per fare fronte alla defezione, liberare Mussolini e organizzare un fronte difensivo tedesco in Italia per rallentare la progressione alleata da sud e proteggere le frontiere meridionali del Reich.
La liberazione di Mussolini.

Dopo confuse manovre diplomatiche Badoglio e il re decisero di accettare l'Armistizio imposto dagli Alleati: l'Italia si arrese, firmando l'armistizio il 3 settembre, reso poi pubblico l'8 settembre, ma le truppe tedesche si mossero con grande velocità e risolutezza e riuscirono, anche a causa del completo crollo militare e politico della struttura statale italiana, a disarmare l'esercito italiano (oltre 600.000 soldati italiani furono catturati e deportati in Germania), occuparono Roma e affrontarono anche con abilità l'invasione alleata della penisola. Lo sbarco di Salerno (8 settembre 1943) venne quindi fortemente contrastato delle truppe tedesche del feldmaresciallo Albert Kesselring; dopo aver rallentato l'avanzata angloamericana, i tedeschi ripiegarono metodicamente, infliggendo dure perdite, sulle varie linee difensive stabilite sugli Appennini Meridionali. Alla fine dell'anno le intemperie invernali e l'abile condotta dell'esercito tedesco condussero alla definitiva stabilizzazione del fronte sulla cosiddetta Linea Gustav, imperniata sulle difese di Cassino. L'avanzata era, almeno per il momento, finita. Nel frattempo, nell'Italia occupata dai tedeschi, Hitler (dopo la liberazione di Mussolini il 12 settembre) organizzò un governo fascista fantoccio (Repubblica di Salò) con il redivivo Duce alla sua testa: il duro comportamento delle truppe e delle autorità tedesche (e di quelle fasciste) nell'Italia occupata favorì l'inizio dei primi fenomeni di resistenza contro l'occupante. La situazione dell'Italia divenne tragica: trasformata in campo di battaglia, era occupata dai tedeschi a nord e dagli alleati a sud, preda dei bombardamenti e ridotta in miseria[76].
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Bombardamento di Amburgo (info file)
Bombing of Hamburg.ogg
1944
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1944.
L'offensiva invernale sovietica
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Battaglia di Korsun-Sevcenkovskij e Offensiva Uman-Botoşani.

Fin dal 24 dicembre, dopo la breve pausa imposta dalla controffensiva tedesca di Zhitomir, l'Armata Rossa riprese la sua offensiva nel settore meridionale del fronte orientale. Nonostante il peggioramento delle condizioni climatiche, i sovietici (partendo dalla loro grande testa di ponte di Kiev) progredirono nell'Ucraina occidentale nel tentativo di schiacciare le forze tedesche contro la costa del Mar Nero. La resistenza tedesca, ancora una volta basata sulle forze corazzate, riuscì a frenare l'avanzata, ma le truppe che Hitler aveva ostinatamente lasciato nella testa di ponte sul Dniepr di Kanev, vennero accerchiate e distrutte dopo una nuova terribile battaglia invernale (battaglia della sacca di Korsun-Sevcenkovskij, terminata il 18 febbraio con quasi 50.000 perdite tedesche[68]).
Le colonne sovietiche avanzano in Ucraina occidentale nell'inverno 1943-1944.

Questo nuovo disastro tedesco facilitò la successiva avanzata generale di tutto lo schieramento meridionale sovietico: a sud vennero liberate Krivoj Rog (22 febbraio) e Nikopol (8 febbraio) e rimase isolato il raggruppamento tedesco in Crimea; il maresciallo Konev iniziò la sua celebre marcia nel fango e a dispetto delle intemperie liberò di sorpresa Uman e proseguì a valanga superando in successione il Buh Meridionale, il Dniestr e il Prut. Il maresciallo Zhukov manovrò in profondità verso Cernovitsy e i Balcani. A Kamenetzk-Podolsk i carri armati dei due marescialli riuscirono a chiudere in una sacca un'intera armata tedesca (28 marzo); sembrò giunta la catastrofe finale dei tedeschi a sud; ma l'armata accerchiata riuscì con una ritirata di centinaia di chilometri, aiutata da un nuovo efficace contrattacco di truppe corazzate tedesche affluite dall'ovest al comando del generale Model (che aveva sostituito von Manstein), a uscire dalla sacca e a porsi in salvo (4 aprile). In questo modo i tedeschi riuscirono ad evitare il crollo ma tutta l'Ucraina era ormai stata persa e i sovietici erano penetrati in Romania (dopo aver liberato Odessa) e in Polonia orientale. Anche a Nord i sovietici riuscirono finalmente a rompere in modo definitivo la presa tedesca su Leningrado il 26 gennaio (dopo un terribile assedio di 900 giorni[77]) e a progredire, con grosse difficoltà e gravi perdite, verso i Paesi Baltici fino a raggiungere la linea Pskov-Narva (per il momento saldamente tenuta dai tedeschi). Alla vigilia di Overlord, ai Russi rimanevano da liberare solo la Bielorussia e gli Stati Baltici; a costo di incredibili sacrifici e spaventose perdite (oltre 700.000 morti da gennaio a giugno[37]), l'esercito tedesco era stato dissanguato (quasi 1 milione di perdite dell'Asse durante l'inverno 1943-44[68]), Stalin poteva ora guardare con fiducia ai suoi vasti progetti geostrategici di riorganizzazione della carta europea[78].
Lo sbarco in Normandia e la liberazione della Francia
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci sbarco in Normandia, battaglia di Normandia, operazione Cobra e sacca di Falaise.
D-Day, 6 giugno 1944 Normandia

Dopo quasi due anni di preparativi e di pareri discordanti tra gli Alleati, durante la conferenza di Teheran[79] venne presa la decisione di attaccare il cosiddetto Vallo Atlantico, allo scopo di aprire il secondo fronte, insistentemente richiesto da Stalin dall'inizio dell'operazione Barbarossa, con il duplice intento di liberare la Francia e di sottrarre risorse alle forze tedesche impegnate sul fronte orientale contro l'Armata Rossa ed, il 6 giugno 1944, con lo sbarco sulle coste della Normandia, prese il via l'operazione Overlord, che costituì l'inizio alla battaglia di Normandia e che ebbe termine il 26 agosto con la liberazione di Parigi.

Dopo lo sbarco le truppe Alleate, disponendo di una schiacciante superiorità aerea, riuscirono dapprima ad attestarsi sulle spiagge e successivamente ad avanzare verso sud e nella penisola di Cotentin; i primi tentativi di sfondamento da parte della 2ª armata britannica, comandata dal generale Miles Dempsey, nel settore di Caen furono respinti dalle divisioni corazzate tedesche e la città cadde solo il 9 luglio, mentre nel settore di competenza della 1ª armata americana, comandata dal generale Omar Bradley, l'avanzata fu ostacolata dal bocage normanno e solo 26 giugno fu conquistato l'obiettivo del porto di Cherbourg.
I carri armati alleati dilagano in Francia

L'attacco in profondità sul fronte tedesco venne portato dagli americani con la cosiddetta operazione Cobra nel settore di Saint-L´: l'attacco ebbe successo ed, oltre a sfondare il fianco sinistro del fronte tedesco, permise alla 3ª armata americana, comandata dal generale George Smith Patton, di aprirsi un varco verso la Bretagna; Hitler, reduce dall'attentato del 20 luglio, proibì qualunque ripiegamento ed ordinò un contrattacco, la cosiddetta operazione Lüttich, che venne interrotto dopo soli quattro giorni a causa dell'impossibilità di perseguire l'obiettivo di respingere gli americani verso Avranches.

Il 14 agosto la 1° armata canadese, comandata dal generale, Harry Crerar, sferrò un'offensiva verso Falaise, allo scopo di congiungersi con le forze americane che a sud avevano occupato Argentan; la cosiddetta operazione Tractable, nonostante i ritardi dovuti alla resistenza tedesca, consentì di perseguire l'obiettivo ma una larga parte delle forze nemiche riuscì a sottrarsi alla sacca di Falaise, ripiegando verso la Senna. Sconfitte le forze tedesche poste a difesa della Normandia le forze Alleate poterono dirigersi verso Parigi che venne liberata il 25 agosto, con l'ingresso nella capitale della 2ª divisione corazzata francese, comandata dal generale Philippe Leclerc de Hauteclocque, alla quale venne consentito, a seguito di accordi intercorsi tra il comando alleato ed il generale Charles de Gaulle, comandante delle forze della Francia libera, di entrare per prima, sfilando in parata il giorno successivo.

Fin dal 15 agosto un nuovo sbarco alleato in Provenza (Operazione Dragoon) suggellava la disfatta tedesca all'ovest: ai primi di settembre l'avanzata sembrava ormai inarrestabile (nonostante la perdita di circa 210.000 uomini[80]) e la sconfitta tedesca definitiva (oltre 500.000 perdite subite[81]). Il 3 settembre gli inglesi entravano a Bruxelles, l'11 settembre le prime truppe alleate raggiungevano il confine tedesco, i reparti corazzati americani del generale Patton, estremamente mobili, superavano la Mosa e la Mosella e raggiungevano la Lorena[82].
L'offensiva sovietica d'estate
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Operazione Bagration, Offensiva Lvov-Sandomierz, Rivolta di Varsavia e Offensiva IaÈi-ChiÈinău.
I carri armati sovietici liberano Minsk (3 luglio 1944).

Ancor prima dell'inizio dell'Operazione Overlord (6 giugno), i russi avevano ottenuto una nuova risonante vittoria liberando la Crimea (compreso il grande porto di Sebastopoli) e schiacciando completamente le ingenti forze tedesco-rumene rimaste imbottigliate nella penisola sul Mar Nero (9 maggio). Il 10 giugno Stalin sferrava una nuova offensiva all'estremo nord del fronte orientale (nell'istmo di Carelia) per regolare finalmente i conti con la Finlandia: dopo una dura resistenza, le forze sovietiche, nettamente superiori, ebbero ragione delle difese finniche (presa di Vyborg il 20 giugno). La Finlandia abbandonava l'alleanza con la Germania e accettava di firmare la pace con L'URSS (19 settembre): a prezzo di nuove perdite territoriali la nazione scandinava conservava almeno la propria indipendenza.

Il 22 giugno (a tre anni esatti dall'inizio dell'Operazione Barbarossa) Stalin dava il via all'Operazione Bagration: sarebbe stata una spettacolare dimostrazione della potenza dell'Armata Rossa. L'attacco venne sferrato contro le forze tedesche posizionate in Bielorussia e fin dall'inizio ottenne pieno successo. Con manovra a tenaglia, le potenti unità corazzate sovietiche (4.000 mezzi corazzati[83]) prima travolsero i capisaldi tedeschi di Vitebsk sulla Dvina (26 giugno) e di Bobrujsk sulla Beresina (27 giugno) e quindi serrarono velocemente su Minsk. I tedeschi, molto indeboliti, tentarono disperatamente di rallentare l'avanzata per permettere il deflusso delle forze che rischiavano di rimanere tagliate fuori a est della Beresina, ma l'avanzata sovietica era inarrestabile: Minsk cadde il 3 luglio, nei giorni seguenti le armate tedesche rimaste isolate vennero progressivamente distrutte (oltre 100.000 prigionieri[68]). L'intero raggruppamento centrale tedesco era crollato; a questo punto le colonne corazzate sovietiche proseguirono l'avanzata in due direzioni contemporaneamente: verso nord-ovest (presa di Vilnius il 13 luglio, di Kaunas il 1º agosto) per raggiungere la costa baltica; e direttamente verso ovest in direzione del Niemen e della Vistola (presa di Lublino il 23 luglio e di Brest-Litovsk il 28 luglio, raggiungimento del confine tedesco in Prussia Orientale il 31 luglio). Inoltre, fin dal 13 luglio, l'Armata Rossa era passata all'attacco anche più a sud (in Volinia); dopo duri scontri, i carri armati russi occupavano Lvov (27 luglio) e proseguivano a valanga verso la Vistola che attraversavano d'assalto a Sandomierz e a Magnuszew. Ma ora i tedeschi, con l'arrivo di forti riserve corazzate e nonostante lo sbandamento dell'attentato a Hitler del 20 luglio, riuscirono miracolosamente a riprendersi, a fermare l'avanzata sovietica verso il golfo di Riga, a contenere le teste di ponte sulla Vistola e ad arrestare l'avanzata su Varsavia.
L'Armata Rossa entra a Lvov (luglio 1944).

Il 30 luglio l'Armia Krajowa polacca (filoccidentale e legata al governo polacco di Londra) iniziava la drammatica rivolta di Varsavia; ma i tedeschi riuscirono a controllare la situazione, a schiacciare progressivamente l'insurrezione e a respingere, con l'intervento di alcune Panzerdivisionen, le esauste colonne corazzate sovietiche in avvicinamento alla capitale polacca (battaglia di Radzymin). Stalin certamente non si dispiacque del fallimento della rivolta e contava di trarre profitto dalla sconfitta degli insorti nazionalisti, tuttavia il mancato intervento sovietico in aiuto fu dovuto in parte anche all'esaurimento delle truppe e alla violenza del contrattacco tedesco[84]. Dopo un'avanzata di oltre 500 km e dopo aver inflitto ai tedeschi perdite enormi (900.000 uomini da giugno a agosto[85]), l'Armata Rossa si fermò sulla Vistola e sul San: anche le sue perdite erano state ingenti (quasi 500.000 morti[37]) e inoltre Stalin ora era ancor più interessato alla conquista del Baltico e a "liberare" le nazioni balcaniche già alleate di Hitler.

Il 20 agosto le forze sovietiche a sud dei Carpazi sferravano la terza grande offensiva dell'estate 1944; una nuova manovra a tenaglia si chiuse rapidamente su tutto lo schieramento tedesco-rumeno (24 agosto). La battaglia di IaÈi-ChiÈinău si concludeva con un nuovo trionfo per Stalin: dopo la perdita di altri 200.000 soldati tedeschi[68], il vuoto si apriva per i carri armati sovietici; le alleanze della Germania franarono: il 23 agosto la Romania abbandonava l'alleato germanico e le colonne sovietiche dilagavano senza incontrare resistenza (il 31 agosto i russi entravano a Bucarest), il 9 settembre la Bulgaria (a cui l'URSS aveva dichiarato guerra il 5) passava al fianco degli Alleati e apriva le porte all'Armata Rossa, solo l'Ungheria rimase alleata dei tedeschi (dopo il colpo di stato filonazista di Szalasi del 15 ottobre). Le residue forze tedesche ripiegarono attraverso i Carpazi e iniziarono l'abbandono della Grecia e della Jugoslavia (Belgrado venne liberata dai carri armati sovietici provenienti dalla Bulgaria, insieme alle truppe di Tito, il 14 ottobre)[86].
La guerra in Italia

Contemporaneamente all'invasione della Francia, gli Alleati conquistarono Roma (il 4 giugno) e, in poche settimane, il resto dell'Italia centrale. In novembre, raggiunto l'importante obiettivo simbolico-propagandistico, obiettivo a cui gli inglesi molto tenevano, della conquista-liberazione di Forlì, la cosiddetta "Città del Duce", le operazioni conobbero un rallentamento, dovuto all'arrivo dell'inverno.
La ripresa tedesca e l'offensiva delle Ardenne
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Operazione Market Garden e Offensiva delle Ardenne.

Alla metà di settembre la situazione del Terzo Reich sembrava disperata: ad ovest, dopo il crollo del fronte di Normandia, le mobilissime colonne alleate progredivano rapidamente nelle pianure franco-belghe disperdendo i demoralizzati resti dell'esercito tedesco dell'ovest; in Italia le forze del feldmaresciallo Kesselring ripiegavano verso nord, dopo aver perso tutta l'Italia centrale, cercando di attestarsi sulla cosiddetta Linea Gotica apprestata per sbarrare agli Alleati l'accesso alla valle Padana; nell'aria i bombardamenti strategici, sempre più devastanti, provocavano enormi distruzioni e intralciavano la produzione bellica tedesca di armi e carburanti sintetici; ad est (dove combatteva ancora il grosso della Wehrmacht) il fronte sembrava provvisoriamente stabilizzato sulla linea della Vistola e in Prussia Orientale, ma il raggruppamento tedesco nel Baltico rischiava di essere completamente isolato, mentre nei Balcani, l'inarrestabile avanzata dell'Armata Rossa, con il conseguente cambio di alleanza di Romania e Bulgaria, progrediva verso le pianure ungheresi e metteva a rischio tutte le forze tedesche presenti in Jugoslavia e in Grecia.

Contro tutte le previsioni, tuttavia, a questo punto si assistette ad una sorprendente ripresa tedesca autunnale su tutti i fronti, che avrebbe portato a nuove sanguinose battaglie ed anche ad un ultimo tentativo tedesco di controffensiva strategica. I fattori politico-strategici che resero possibile questa imprevista ripresa tedesca furono principalmente: la spietata volontà di Hitler di continuare a battersi, di rastrellare tutte le risorse umane e materiali, di non rassegnarsi alla sconfitta[87]; la capacità dell'esercito tedesco di ripiegare senza perdere la coesione e la combattività dei reparti; l'abilità dei comandanti tedeschi nelle improvvisazioni tattiche; alcuni errori alleati nella pianificazione operativa e logistica; l'esaurimento momentaneo delle risorse alleate all'ovest (in attesa della liberazione del porto di Anversa) e la decisione di Stalin (probabilmente corretta) di dare priorità alle avanzate Balcaniche e nel Baltico, per motivi politici ma anche strategici[88].
Offensiva delle Ardenne: gli ufficiali tedeschi studiano le rotte di marcia.

All'ovest, gli alleati, dopo uno spericolato attacco combinato terrestre e aviotrasportato (organizzato dal generale Montgomery) per occupare in un sol colpo tutti i ponti strategici su i vari rami del Reno (Operazione Market-Garden), fallito dopo l'aspra battaglia di Arnhem[89] (17-25 settembre), si ridussero durante l'inverno ad operazioni limitate dirette alla completa liberazione del porto di Anversa (a opera dei Canadesi), all'attacco alle fortificazioni della cosiddetta Linea Sigfrido (precariamente riorganizzata dai tedeschi) che portò alle logoranti battaglie di Aquisgrana (21 ottobre) e della foresta di Hürtgen; alla liberazione, a opera di americani e francesi, di Alsazia e Lorena. I tedeschi persero altro terreno, ma nel complesso riuscirono a stabilizzare solidamente il fronte occidentale, infliggendo dure perdite agli alleati (cosiddetto miracolo dell'ovest)[90].

In Italia, il feldmaresciallo Kesselring, con la sua consumata abilità tattica, contenne sulla Linea Gotica, l'avanzata alleata, indebolita da notevoli prelevamenti di truppe a favore del fronte occidentale; alcuni ulteriori tentativi offensivi alleati ottennero solo mediocri successi locali (presa di Rimini il 21 settembre)[91].

All'est, dove rimaneva oltre il 60% delle forze della Wehrmacht, l'offensiva sovietica nei paesi Baltici venne duramente contrastata; Riga cadde il 13 ottobre, solo il 15 ottobre (al secondo tentativo) le forze corazzate sovietiche raggiunsero la costa a Memel, isolando tutto il raggruppamento tedesco settentrionale[68]; ma queste forze continuarono a battersi, rifornite via mare, e ripiegarono progressivamente in Curlandia dove sarebbero rimaste asserragliate fino alla fine della guerra; in Prussia Orientale un primo attacco sovietico venne respinto. Nei Balcani, con l'intervento di nuovi reparti corazzati e con l'aiuto del governo fantoccio ungherese, Hitler organizzò un'aspra difesa nelle pianure ungheresi. Le forze sovietiche, esauste, subirono in questa regione numerosi scacchi a opera dei panzer (battaglie di Debrecen 22-25 ottobre). Dopo un nuovo raggruppamento di forze, e con l'afflusso delle armate provenienti da Belgrado, i russi ripresero l'offensiva e riuscirono, dopo nuovi scontri di carri armati, ad avvicinarsi a Budapest, dove sarebbe stata combattuta fino al febbraio 1945 una lunga e durissima battaglia[92].
Truppe americane durante la battaglia delle Ardenne.

Il 16 dicembre l'Esercito tedesco sferrava l'Operazione Herbstnebel: era l'inizio della Offensiva delle Ardenne (nella storiografia anglosassone the battle of the bulge: la battaglia della sacca), il disperato tentativo di Hitler di ottenere una clamorosa vittoria all'ovest, scuotere il morale anglosassone e ribaltare la situazione strategica[93]. L'attacco, sferrato da tre armate e oltre 1.000 carri armati[94], colse di sorpresa i comandi alleati (convinti dell'impossibilità di una nuova offensiva tedesca[95]) e provocò confusione ed anche cedimenti tra le truppe americane attaccate. Alcune colonne corazzate tedesche penetrarono in profondità, superando i deboli sbarramenti americani; i panzer di testa, rallentati dalle intemperie climatiche (che tuttavia avevano anche impedito interventi massicci dell'aviazione alleata) e dal terreno boscoso, il 24 dicembre giunsero in vista della Mosa[96]. Ma i comandi alleati nel frattempo erano riusciti a mobilitare tutte le riserve e, grazie alla coraggiosa resistenza di alcuni reparti americani e all'efficace difesa dei nodi di comunicazione più importanti (Bastogne), poterono gradualmente chiudere la breccia e poi contrattaccare. Alla fine dell'anno l'avanzata tedesca era ormai bloccata. Di fronte alla crescente superiorità numerica e materiale alleata, i tedeschi ripiegarono lentamente sulle posizioni di partenza; a metà gennaio la battaglia, sanguinosa per tutte e due le parti (oltre 80.000 perdite per parte[97]) era finita; essa segnava la fine delle ultime speranze di Hitler (era già fallito anche un nuovo tentativo offensivo in Alsazia, l'operazione Nordwind).
1945
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1945.
L'offensiva sovietica sulla Germania
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Assedio di Budapest, Offensiva sovietica gennaio-aprile 1945, Battaglia di Kielce (1945) e Battaglia di Königsberg.

Mentre si combatteva la battaglia delle Ardenne, in Ungheria continuavano i duri scontri tra tedeschi (con l'aiuto dei reparti dell'esercito ungherese) e sovietici (appoggiati dai contingenti rumeni); dopo nuove complesse manovre delle colonne meccanizzate sovietiche a cavallo del Danubio e grosse battaglie di mezzi corazzati, finalmente il 27 dicembre le tenaglie sovietiche si chiudevano accerchiando completamente Budapest e le cospicue forze tedesche e ungheresi poste a difesa della capitale magiara[98]. Ben lontano da rinunciare, Hitler (mentre conduceva la battaglia all'ovest) organizzò ripetuti tentativi di sbloccare la città con l'afflusso di nuove forze tedesche. Dopo nuovi aspri scontri (e notevoli difficoltà e perdite per i sovietici) alla fine di gennaio i tedeschi dovettero rinunciare al tentativo di soccorrere Budapest. Nel frattempo dentro la città stava infuriando una micidiale battaglia stradale (quasi altrettanto feroce di quella di Stalingrado) tra le truppe scelte tedesche accerchiate (tra cui notevoli reparti di Waffen-SS) e le potenti truppe d'assalto sovietiche. Fu una battaglia durissima combattuta fanaticamente, le perdite furono ingentissime per tutte e due le parti, le devastazioni della splendida città sul Danubio enormi; Pest cadde il 18 gennaio ma la città vecchia di Buda venne difesa ancor più accanitamente. Dopo scontri furibondi e un tentativo fallito di sortita, le residue truppe tedesche e ungheresi si arresero il 13 febbraio 1945[99]. La vittoria era stata raggiunta e il bottino dell'Armata Rossa notevole (50.000 morti e 138.000 prigionieri tedesco-ungheresi complessivi da novembre a febbraio[68]) ma le perdite erano state pesanti anche per i russi (320.000 uomini in tutta la campagna ungherese[37]).
Soldati sovietici durante i furiosi combattimenti a Budapest.

Mentre infuriavano i combattimenti nelle strade di Budapest, le enormi forze sovietiche ammassate sulla Vistola e in Prussia Orientale avevano già ottenuto una schiacciante vittoria e stavano marciando, apparentemente inarrestabili, direttamente su Berlino. L'ultima grande offensiva invernale dell'Armata Rossa era cominciata il 12 gennaio (in apparenza in anticipo sui piani per ordine di Stalin, sollecitato da Churchill il 6 gennaio a iniziare senza indugio la nuova offensiva per alleggerire gli Alleati sul fronte ovest[100]) a partenza dalle teste di ponte sulla Vistola di Baranow e Sandomir. Una vera valanga di uomini, cannoni (32.000), carri armati (6.400) e aerei (4.800)[101] si abbatté sulle precarie difese tedesche (recentemente indebolite da Hitler, ingannato sulle intenzioni sovietiche[102], con trasferimenti di truppe in Ungheria). Le prime linee sulla Vistola vennero rapidamente travolte, Varsavia (città fantasma) cadde senza combattere, le riserve corazzate tedesche, schierate troppo vicine alla prima linea, vennero distrutte dai corpi meccanizzati del maresciallo Konev[103].

Un enorme vuoto si apriva davanti alle colonne dei marescialli Žukov e Konev che si lanciarono rapidamente in profondità aggirando i capisaldi di resistenza tedeschi di Breslavia e Posen (difesi dai tedeschi secondo la tecnica dei "frangiflutti" (wellenbrecher), ideata da Hitler[87]). L'avanzata in Polonia fu rapidissima: il 17 gennaio venne raggiunta Czestochowa, il 19 Lodz e Cracovia, il 28 gennaio Katowice (il bacino industriale della Slesia cadde intatto in mano dei sovietici, secondo gli intendimenti di Stalin[104]); alla fine di gennaio l'Armata Rossa raggiungeva, dopo un'avanzata forsennata, il fiume Oder (ultima protezione naturale per Berlino) e costituiva subito teste di ponte sulla riva occidentale a Küstrin e a Oppeln: la capitale tedesca era distante appena 80 km; la catastrofe tedesca era stata enorme (quasi 400.000 perdite in un mese[105]), le devastazioni immense, i civili tedeschi avevano abbandonato in massa i territori invasi della Pomerania, della Prussia e della Slesia, i soldati sovietici si erano spesso abbandonati al saccheggio e alla vendetta sulle popolazioni[106].
I carri armati sovietici durante la 'corsa all'Oder' (gennaio 1945).

Molto più combattuta fu la battaglia in Prussia Orientale (attaccata dal 13 gennaio da un altro massiccio raggruppamento sovietico): i tedeschi, in difesa del suolo patrio, si batterono con abilità e efficacia, sfruttando il terreno boscoso e le solide fortificazioni. I russi dovettero impegnarsi in estenuanti e sanguinosi attacchi frontali, impiegando grandi quantità di artiglieria pesante[107]; alcune colonne corazzate raggiunsero la costa Baltica presso Marienburg il 27 gennaio, ma i tedeschi contrattaccarono e una parte delle truppe riuscì a ripiegare in Pomerania[108]. Le superstiti navi da guerra della Kriegsmarine intervennero con le loro artiglierie in aiuto delle truppe a terra e inoltre eseguirono numerose evacuazioni di reparti militari e soprattutto di civili in fuga davanti alla valanga devastatrice dei russi[109]. La lotta si prolungò fino ad aprile; progressivamente le forze tedesche vennero frammentate e distrutte dopo lotta accanita e ingenti perdite (585.000 perdite russe[37]). La poderosa fortezza di Königsberg venne attaccata a partire dal 1º aprile dalle forze sovietiche, guidate personalmente dal maresciallo Vasilevsky e conquistata il 9 aprile, grazie all'impiego in massa dell'artiglieria pesante e di grandi rinforzi di aviazione (150.000 perdite tedesche[109])[68]. Piccoli nuclei di resistenza tedeschi rimasero attivi nella regione del Frisches Haff fino alla capitolazione del Terzo Reich.

Mentre si prolungava l'aspra battaglia in Prussia Orientale, le potenti forze russe giunte all'Oder avevano interrotto in febbraio la loro avanzata verso Berlino. Questa inattesa tregua era dovuta alla capacità di Hitler e dei tedeschi di ricostituire un nuovo fronte difensivo con i resti delle forze sconfitte e con l'afflusso di circa 20-25 divisioni dall'ovest e dall'Italia; all'esaurimento e alle difficoltà logistiche delle forze sovietiche (dopo un'avanzata di 600 km); alla decisione di Stalin, impegnato in quel momento nel 'grande gioco' della conferenza di Jalta[110], di non rischiare un balzo immediato su Berlino, per timore di uno scacco a causa dei fianchi esposti delle avanguardie sull'Oder. Durante febbraio e marzo, quindi, l'Armata Rossa si impegnò nel rastrellamento delle sacche di resistenza tedesche rimaste indietro (che si batterono con accanimento) e nella sconfitta delle forze nemiche in Pomerania e in Slesia, in preparazione dell'ultima grande battaglia di Berlino[111].
Il crollo del fronte occidentale

Dopo la battaglia delle Ardenne e il crollo della linea della Vistola (con conseguente trasferimento di numerose divisioni tedesche verso il fronte orientale), l'esercito tedesco dell'ovest era ormai in schiacciante inferiorità numerica e materiale nei confronti delle forze alleate, continuamente potenziate dall'afflusso di nuovi reparti americani da oltre oceano[112]. Dopo una fase di riorganizzazione e pianificazione (ed anche di scontri tra generali inglesi e americani sulle priorità strategico-operative[113]), gli alleati poterono quindi ripartire all'offensiva, a partire dall'8 febbraio, per superare la Linea Sigfrido e conquistare tutto il territorio renano a ovest del grande fiume. I tedeschi combatterono ancora con tenacia, ma la superiorità aereo-terrestre alleata era troppo grande; dopo aspri scontri le truppe tedesche cercarono di ripiegare dietro il Reno. Il 6 marzo gli americani entravano in Colonia; sfruttando la crescente confusione tra le file del nemico, già il 7 marzo, con un colpo di mano si impadronivano del grande ponte sul Reno di Remagen e costituivano una prima testa di ponte a est del fiume[114]. Nel frattempo altri reparti americani penetravano in Germania più a sud; il 21 marzo occupavano Magonza e il 23 superavano anch'essi di sorpresa il Reno a Oppenheim, organizzando una seconda testa di ponte. La resistenza tedesca dava segni di collasso (280.000 prigionieri dall'8 febbraio al 23 marzo[105]); la linea del Reno era già intaccata e il morale dei soldati stava cedendo.
Le truppe americane al ponte di Remagen.

Il 23 marzo anche gli inglesi superavano il Reno (alla presenza di Churchill) a Wesel, con una mastodontica operazione aeroterrestre (forse inutile visti i segni di dissoluzione nel campo tedesco)[115]. A questo punto il fronte tedesco a ovest cedette definitivamente; il raggruppamento centrale venne accerchiato il 2 aprile nella 'sacca della Ruhr' dalle veloci colonne americane sbucate dalle teste di ponte; la resistenza nella sacca fu debole e cessò già il 17 aprile (325.000 prigionieri[105]). Con deboli perdite, i mezzi corazzati alleati poterono dilagare quasi a volontà nella Germania occidentale (sfruttando anche l'eccellente rete autostradale tedesca), contrastati solo da una sporadica resistenza di alcuni reparti fanatici di Waffen-SS e della Hitlerjugend. Il grosso dei tedeschi si arrese o ripiegò in rotta[114].
I soldati tedeschi si arrendono ('sacca della Ruhr')

Mentre gli anglo-canadesi puntavano su Brema e Amburgo (raggiunta il 2 maggio) per anticipare i russi in Danimarca, le mobilissime unità americane al centro (quasi 4.000 carri armati[105]) puntavano verso il fiume Elba; il 10 aprile raggiunsero Hannover, il 14 cadde Lipsia; il 13 aprile costituivano una prima testa di ponte sul fiume vicino Magdeburgo (a 120 km da Berlino). In questa zona alcune divisioni tedesche "fantasma" opposero resistenza e bloccarono l'avanzata americana; del resto, secondo le disposizioni di Eisenhower, la linea dell'Elba doveva costituire il limite massimo dell'avanzata americana su cui incontrare i russi[116]. Più a sud le colonne del generale Patton avanzarono in Sassonia e Baviera, in direzione dell'Austria, mentre altre forze americane e francesi penetrarono in Baviera (il 19 aprile cadde Norimberga e il 2 maggio Monaco) alla ricerca di un fantomatico e inesistente Ridotto nazista alpino in cui, secondo l'intelligence alleata, Hitler e i suoi fedelissimi avrebbero dovuto opporre l'ultima resistenza[117]. In realtà l'esercito tedesco a ovest aveva ormai cessato di combattere; milioni di soldati si consegnarono spontaneamente agli alleati per non cadere in mano ai russi. La guerra in Europa era finita. Durante la loro avanzata gli alleati liberarono i vari campi di concentramento e sterminio nazisti, che svelarono pienamente la follia omicida del Terzo Reich; del resto, fin dal 17 gennaio le truppe sovietiche erano entrate nel campo di Auschwitz in Polonia. Il primo collegamento, molto amichevole, tra russi e americani avvenne a Torgau sul fiume Elba il 25 aprile.

La capitolazione tedesca all'ovest venne firmata ufficialmente da Alfred Jodl il 7 maggio a Reims alla presenza del generale Eisenhower, comandate in capo delle forze alleate.
Battaglia di Berlino e fine del Terzo Reich
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Battaglia di Berlino e Offensiva di Praga.

Fino all'ultimo Hitler, ormai disperato e quasi farneticante, pianificò fantomatiche offensive e proclamò propositi di resistenza ad oltranza, utilizzando i miseri resti delle armate sconfitte, vecchi e giovanissimi del Volksturm e divisioni "fantasma" (create frettolosamente con nomi altisonanti e pochi mezzi). Ancora il 6 marzo le divisioni corazzate Waffen-SS ritirate dalle Ardenne sferravano un'ultima offensiva in Ungheria nella zona del lago Balaton; dopo duri scontri le forze sovietiche contennero l'attacco e passarono all'offensiva (16 marzo). Ormai in disfacimento, le armate tedesche ripiegavano per coprire Vienna; le colonne corazzate russe proseguirono superando tutti gli sbarramenti. Vienna cadde il 13 aprile dopo alcuni aspri scontri dentro la città; i russi si congiunsero il 4 maggio con gli americani provenienti da ovest nella regione di Linz[68].

Il 16 aprile 1945 l'Armata Rossa sferrava la sua ultima offensiva generale con obiettivo Berlino; l'attacco venne sferrato in gran fretta sotto la pressione di Stalin: di fronte al crollo del fronte occidentale tedesco, ai segni evidenti di dissoluzione della resistenza all'ovest e alla rapidità dell'avanzata, scarsamente contrastata, alleata, c'era il rischio che gli alleati occidentali precedessero i russi a Berlino (del resto nelle alte sfere tedesche c'erano piani assurdi per aprire la Germania agli anglosassoni e tentare un rocambolesco rovesciamento di alleanze[118]). Al contrario, la resistenza tedesca sul fronte est si stava rafforzando (con l'afflusso di rinforzi terrestri e aerei dagli altri fronti) e le truppe nemiche erano intenzionate a battersi fino all'ultimo per difendere la capitale e il Führer, ma anche per salvaguardare la popolazione civile e guadagnare tempo in attesa dell'arrivo angloamericano da ovest[119]. La massa offensiva sovietica (agli ordini dei marescialli Žukov e Konev) era imponente e nettamente superiore a quella nemica, ma inizialmente venne impiegata male e confusamente; le perdite, di fronte alle difese fortificate tedesche furono altissime; lo sfondamento decisivo (ottenuto con la forza bruta di migliaia di carri armati impiegati in massa) fu ottenuto solo il 20 aprile[120]. Dopo queste difficoltà iniziali, la velocità dell'avanzata aumentò; in campo aperto le armate corazzate sovietiche superarono tutti gli ostacoli e manovrarono per accerchiare Berlino; il 25 aprile iniziò la battaglia dentro l'enorme abitato della capitale. Hitler, ormai rassegnato e deciso a terminare la sua vita e quella del Terzo Reich con un vero "Crepuscolo degli Dei" nibelungico[121], decise di rimanere dentro la città e di organizzare la difesa contando su reparti raccogliticci di Waffen-SS straniere, resti di Panzerdivision disciolte e truppe del Volksturm e della Hitlerjugend. La battaglia casa per casa fu durissima e sanguinosa, i sovietici avanzarono passo passo da tutte le direzioni lentamente e a costo di pesanti perdite; dall'esterno alcuni tentativi di soccorrere Berlino da parte delle modeste forze dei generali Wenck e Steiner fallirono; il cerchio di ferro sovietico era impenetrabile. Sempre il 25 aprile l'Armata Rossa si congiungeva a Torgau sull'Elba con l'Esercito Americano arrivato sul fiume fin dal 13 aprile.

La battaglia finale nel centro di Berlino terminò il 2 maggio con la resa della guarnigione; Hitler si era suicidato già il 30 aprile dopo aver sposato il 29 aprile Eva Braun[122]. I sovietici avevano così concluso vittoriosamente, dopo grandi sacrifici, nel cuore della capitale nemica la Grande Guerra Patriottica; solo in quest'ultima battaglia persero 135.000 uomini[37]; le perdite tedesche furono di 400.000 morti e feriti e 450.000 prigionieri[37].
Il maresciallo Zhukov firma il documento di resa della Germania l'8 maggio 1945.

L'ultima manovra sovietica in Europa fu la marcia su Praga, insorta contro i tedeschi il 5 maggio, organizzata da Stalin anche per anticipare l'arrivo degli americani; le colonne corazzate russe diressero su Dresda e arrivarono nella capitale cecoslovacca il 9 maggio[68]. Sul Baltico le forze sovietiche si erano già congiunte con le truppe inglesi provenienti dallo Schleswig-Holstein, dove si era rifugiato l'ultimo governo del Reich guidato (secondo le disposizioni testamentali di Hitler) dall'ammiraglio Karl Dönitz.

La notte del 8 maggio, al quartier generale del maresciallo Zhukov a Berlino (alla presenza dei rappresentanti alleati Spaatz, Tedder e deLattre) il feldmaresciallo Keitel firmava il documento di resa incondizionata della Germania. Per volontà di Stalin (volendo egli sottolineare il ruolo preponderante dell'Unione Sovietica nella vittoria), i rappresentanti del Reich avevano dovuto ripetere davanti ai russi la resa già firmata il 7 maggio al quartier generale di Eisenhower a Reims.
Teatro del Pacifico e asiatico
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce guerra del Pacifico (seconda guerra mondiale).

I giapponesi avevano già invaso la Cina nel 1937-'38, prima che la seconda guerra mondiale iniziasse in Europa. Con gli Stati Uniti e altre nazioni che bloccavano le esportazioni verso il Giappone, quest'ultimo decise di bombardare Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 senza una preventiva dichiarazione di guerra. Il danno per la Flotta Americana del Pacifico fu grave, anche se le portaerei scamparono perché si trovavano al largo. Le forze giapponesi invasero simultaneamente i possedimenti britannici in Malesia e Borneo e le Filippine occupate dagli americani, con l'intenzione di conquistare i pozzi petroliferi delle Indie Orientali Olandesi. Dopo il rapido crollo delle difese britanniche in Malesia anche l'isola fortezza di Singapore (difesa da truppe britanniche, indiane e australiane) si arrese il 15 febbraio 1942, dopo una breve resistenza, alle forze giapponesi provenienti via terra dalla penisola malese. Oltre 130.000 prigionieri dell'Impero Britannico caddero in mano all'Esercito giapponese: fu quella che lo stesso Churchill definì la più umiliante sconfitta britannica e la più grande capitolazione inglese di tutti i tempi[123].
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Day of infamy: l'annuncio di Roosevelt (info file)

Nel maggio 1942 l'invasione giapponese di Port Moresby, che se avesse avuto successo li avrebbe messi a portata di tiro dell'Australia, venne sventata dalle forze navali statunitensi nella battaglia del mar dei Coralli, divenendo sia la prima efficace opposizione ai piani giapponesi, che la prima battaglia navale combattuta principalmente tra portaerei. Un mese dopo la Marina statunitense prevenne l'invasione delle isole Midway, questa volta distruggendo quattro portaerei, che l'industria giapponese non fu in grado di rimpiazzare, e mettendo il Giappone sulla difensiva.

I capi alleati si erano accordati, ancora prima dell'ingresso degli USA nella guerra, che la priorità andava alla sconfitta della Germania. Cionondimeno, gli Stati Uniti e altre forze, inclusa l'Australia, iniziarono a metà del 1942 a riguadagnare i territori catturati, contro l'amara e determinata difesa delle truppe giapponesi. Guadalcanal venne assalita dal mare dai Marines statunitensi, mentre l'esercito guidato dal generale MacArthur si sforzò di riprendere le zone occupate della Nuova Guinea. Le isole Salomone furono riprese nel 1943, Nuova Britannia e Nuova Irlanda nel 1944. Le Filippine furono attaccate nel tardo 1944 a seguito della battaglia del Golfo di Leyte.

L'Armata nazionalista Kuomintang di Chiang Kai-shek e l'Armata comunista cinese di Mao Zedong si accordarono per mettere da parte le differenze e opporsi al Giappone nelle aree occupate della Cina, ma senza cooperare.

All'inizio del 1945, l'Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone, attaccando ad agosto la famosa armata giapponese del Kwantung, schierata in Manciuria e Corea (circa 1 milione di soldati); incapace di contenere le grandi masse corazzate dell'Armata Rossa (1,5 milioni di soldati con 5.500 carri armati e 3.900 aerei), trasportate in Estremo Oriente dopo la sconfitta della Germania, l'armata giapponese crollò e venne sbaragliata (oltre 600.000 prigionieri); i sovietici occuparono rapidamente tutta la Manciuria, la Corea e l'isola di Sakhalin[124].

L'entrata in guerra di questo nuovo potente nemico, la rovinosa disfatta della prestigiosa armata del Kwantung (culla del nazionalismo espansionistico nipponico), il catastrofico bombardamento di Tokyo con bombe incendiarie e l'attacco atomico contro Hiroshima e Nagasaki da parte dell'aeronautica statunitense, spinsero infine i dirigenti giapponesi (dopo l'intervento dell'imperatore) alla resa[125].
1941
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Attacco di Pearl Harbor.
La USS Arizona in fiamme

Il 7 dicembre 1941 con un'operazione a sorpresa, il Giappone bombardò il porto di Pearl Harbor distruggendo ed affondando la maggior parte delle navi alla fonda. La risposta statunitense fu immediata, il giorno dopo gli Stati Uniti d'America entrarono in guerra contro il Giappone ed i suoi alleati. L'escalation giapponese fu rapida e violenta. Malesia, Singapore, Birmania e Nuova Guinea vennero rapidamente invase. La resistenza statunitense nelle Filippine venne anch'essa rapidamente liquidata. La "forza Z", una squadra navale britannica composta dalla corazzata Prince of Wales e dall'incrociatore da battaglia Repulse venne annientata dall'aviazione della Marina Imperiale Giapponese, che in quel momento aveva gli equipaggi meglio addestrati alla guerra aeronavale.
1942
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce cronologia della seconda guerra mondiale#1942.

In quest'anno i giapponesi conquistano le Filippine dopo una resistenza accanita ma senza prospettive da parte delle forze filippino-statunitensi che si concluderà con la marcia della morte di Bataan; anche Singapore, la Malesia e il Borneo cadono nelle mani dei giapponesi che arrivano a minacciare la frontiera indiana e la strada che collega l'India e la Cina, assicurando i rifornimenti alleati a Chiang Kai-shek. Subito dopo, anche l'Australia viene minacciata e soggetta ad una serie di attacchi aerei e di unità subacquee, ma gli alleati raccolgono le forze per fronteggiare un'eventuale invasione e respingere la minaccia.
La Battaglia del Mar dei Coralli e Midway
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi le voci Battaglia delle Midway e Battaglia del Mar dei Coralli .

Durante il periodo di espansione, le forze giapponesi iniziarono anche la spinta verso gli Stati Uniti. L'obiettivo finale era mettere a terra una forza di invasione, dapprima nelle isole Hawaii, e comunque di allargare il perimetro difensivo della cosiddetta sfera di coprosperità della più grande Asia Orientale. In questa ottica, le forze navali nipponiche si scontrarono con la flotta alleata nella battaglia del Mar dei Coralli, che fu interlocutoria rispetto alla più importante battaglia di Midway, ma che comunque vide per la prima volta le forze navali giapponesi non riuscire a prevalere su quelle alleate. Nella battaglia di Midway invece le forze giapponesi vennero duramente colpite dall'aviazione imbarcata statunitense perdendo quattro portaerei di squadra contro una statunitense e soprattutto non riuscendo a conseguire l'obiettivo primario, l'atollo di Midway, che avrebbe avvicinato di molto le forze nipponiche alle isole Hawaii.
Salomone Orientali, Guadalcanal e Santa Cruz
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce Campagna di Guadalcanal .

Se la battaglia delle Midway segnò la fine dell'avanzata giapponese, la campagna di Guadalcanal fu l'inizio dell'arretramento. Nel teatro delle Isole Salomone le forze alleate e quelle giapponesi si combatterono per terra e in mare, con alterne vicende ma che alla fine spostarono gli equilibri di forze verso gli alleati, per il semplice motivo che questi avevano dalla loro parte delle risorse economiche e umane molto superiori a quelle nipponiche, e pertanto, col tempo, i giapponesi non riuscirono più a rimpiazzare le perdite subite in mezzi e, per quanto riguarda gli uomini, soprattutto in termini di aviatori addestrati. Inoltre, la strategia del "salti di rana" di Mac Arthur tagliò fuori, gradualmente, dall'industria bellica nipponica le aree ricche di materie prime come il Borneo.
Teatro del Mediterraneo e africano
Rommel, la Volpe del deserto
Exquisite-kfind.png     Per approfondire, vedi la voce campagna del Nordafrica.

La guerra in Nordafrica iniziò nel 1940, quando, dopo molte esitazioni, le truppe italiane avanzarono in Egitto, fino a Sidi el Barrani, a circa 90 km dal confine libico. Le truppe italiane, sebbene molto superiori di numero, erano mal comandate e scarsamente equipaggiate. In autunno una controffensiva condotta dal generale sir Archibald Wavell con un Corpo d'armata di circa 30.000 uomini sbaragliò una forza di oltre 200.000 italiani, facendo decine di migliaia di prigionieri e avanzando fino al golfo della Sirte. Nei primi mesi del 1941 le prime forze tedesche comandate da Erwin Rommel sbarcarono in Libia. Il generale tedesco assunse il comando delle operazioni sul campo, mentre il comando supremo, piuttosto pavido e indeciso, rimase ai generali italiani. La controffensiva italo-tedesca portò a controllare nuovamente la Cirenaica, eccettuata la città di Tobruk, che rimase in mano britannica e sotto assedio. In compenso, nel giugno 1941 le forze alleate invasero la Siria e il Libano, occupando Damasco il 17 giugno e prevenendo una penetrazione italo-tedesca in Siria. Allo stesso modo le forze britanniche presero il controllo dell'Iraq, e congiuntamente con l'Armata Rossa (l'Unione Sovietica era stata attaccata il 22 giugno), invasero l'Iran. Entrambi i paesi erano fonti petrolifere irrinunciabili.

L'Afrika Korps di Rommel avanzò rapidamente ad est, portando l'assedio al vitale porto di Tobruk. Le truppe, principalmente australiane, che difendevano la città, resistettero finché vennero rilevate, ma una rinnovata offensiva dell'Asse portò alla cattura della città e spinse indietro l'Ottava Armata Britannica fino alla linea di El Alamein.

La prima battaglia di El Alamein ebbe luogo tra il 1º luglio e il 27 luglio 1942. La truppe dell'Asse erano avanzate fino all'ultimo punto difendibile prima di Alessandria d'Egitto e del Canale di Suez. Comunque rimasero a corto di rifornimenti e i britannici ebbero modo di allestire una solida linea difensiva. La seconda battaglia di El Alamein avvenne tra il 23 ottobre e il 3 novembre 1942 dopo che il generale Bernard Montgomery aveva sostituito Claude Auchinleck come comandante dell'Ottava Armata. Le forze del Commonwealth lanciarono l'offensiva e nonostante la disperata resistenza delle divisioni italiane (tra le quali ricordiamo la Folgore e la Ariete) e tedesche sfondarono il fronte facendo migliaia e migliaia di prigionieri. Rommel venne respinto indietro, e questa volta non si fermò fino a che non giunse in Tunisia.

A complemento di questa vittoria, l'8 novembre 1942, truppe americane e britanniche sbarcarono in Marocco e Algeria durante l'operazione Torch. Le forze locali della Francia di Vichy opposero poca resistenza prima di unirsi alle forze alleate. Infine, le truppe tedesche e italiane vennero prese nella morsa di una doppia avanzata dall'Algeria e dalla Libia. Avanzando da est e da ovest, gli Alleati spinsero le forze dell'Asse completamente fuori dall'Africa e il 13 maggio 1943, i resti delle truppe italiane e tedesche in Nordafrica si arresero. Furono presi circa 200.000 prigionieri[126]; l'intero raggruppamento italo-tedesco in Africa era stato distrutto (8 divisioni tedesche e 7 italiane[74]).

Il Nordafrica venne usato come punto di partenza per l'invasione della Sicilia e dell'Italia nel 1943.
Fine del conflitto

    Con il Proclama Badoglio dell'8 settembre 1943 venne reso pubblico l'armistizio di Cassibile: il Regno d'Italia fu la prima, fra le potenze maggiori, ad abbandonare il campo (più precisamente, l'Italia dichiarerà guerra, il 13 ottobre del 1943, all'ex alleato tedesco).
    Il 23 agosto del 1944 venne arrestato Ion Antonescu, conducător della Romania. Sette giorni dopo, la Romania dichiarò guerra alla Germania. L'armistizio, per lo più dettato dai sovietici, fu firmato dai rumeni il 12 settembre. Il colpo di stato ai danni di Antonescu, secondo alcuni[127], potrebbe aver accorciato la seconda guerra mondiale di circa sei mesi, rendendo più rapida l'avanzata sovietica.
    Il 17 agosto 1944 Pierre Laval diede le dimissioni da capo del governo della Francia di Vichy, mentre tre giorni dopo Philippe Pétain venne condotto in Germania, pressoché prigioniero dei tedeschi. La liberazione di Parigi (25 agosto) segnò la fine dell'operazione Overlord.
    Il 4 settembre 1944, la Finlandia pattuì con i sovietici un cessate il fuoco. Il 19 settembre le due parti firmarono l'armistizio di Mosca, che pose fine alla "guerra di continuazione". Tra gli accordi, l'impegno dei finlandesi a scacciare tutti i nazisti presenti in patria: la Finlandia dichiarò guerra alla Germania il 28 settembre, impegnandosi contro di essa nella guerra di Lapponia.
    Il 15 ottobre 1944 Miklós Horthy, capo provvisorio dello stato ungherese, avviò colloqui di resa coi sovietici; venne arrestato e sostituito da Ferenc Szálasi. Il 4 aprile 1945 si conclusero ufficialmente le operazioni sovietiche per scacciare i nazisti dall'Ungheria.
    Il 6 aprile 1945 gli alleati danno inizio all'offensiva di primavera nell'Italia settentrionale con l'obbiettivo di liberare tutto il nord Italia dall'occupazione nazista e far crollare il regime della Repubblica Sociale Italiana.
    Il 25 aprile 1945 i partigiani italiani liberarono Milano e Torino. La fine della Repubblica di Salò venne sancita da Benito Mussolini: militari e civili vennero sollevati dal vincolo di giuramento. Mussolini venne fucilato il 28 aprile. La sconfitta ufficiale dell'RSI avvenne il 29 aprile, mentre il dispositivo della resa di Caserta entrò in vigore il 2 maggio.
    Il 7 maggio 1945 Alfred Jodl firmò la resa incondizionata delle forze armate tedesche a Reims, di fronte ai rappresentanti militari degli Alleati occidentali. Il giorno dopo finì formalmente la guerra in Europa. Le forze dell'Impero giapponese si ritirarono ovunque ma non si arresero.
    L'8 maggio 1945 Wilhelm Keitel firmò la resa definitiva della Wehrmacht a Berlino di fronte ai capi militari dell'Armata Rossa.
    Il 6 agosto 1945 il quadrimotore B-29 Enola Gay sganciò una bomba atomica sulla città di Hiroshima (Giappone). Il 9 agosto un secondo ordigno nucleare fu sganciato su Nagasaki. Il 15 agosto l'imperatore Hiro Hito annunciò la resa incondizionata del Giappone, ponendo fine alla guerra.

Conseguenze della guerra
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I tre grandi a Jalta: Churchill, Roosevelt e Stalin

L'Italia dovette cedere alla Jugoslavia Fiume, il territorio di Zara, le isole di Lagosta e Pelagosa, gran parte dell'Istria, del Carso triestino e goriziano, l'alta valle dell'Isonzo e alla Francia territori nell'area alpina. L'Unione Sovietica, che ebbe un ruolo preponderante nella distruzione del Nazismo, invece, ottenne cospicui guadagni territoriali ritenuti indispensabili da Stalin per costituire un nuovo bastione difensivo contro possibili nuove aggressioni (con l'accordo di Churchill e Roosevelt).

Nel dettaglio Stalin ottenne dalla Germania gran parte della Prussia orientale, dalla Finlandia circa un decimo del suo territorio sia a sud (Carelia) che a nord (Petsamo e lo sbocco sull'Artico), il raggiungimento della Linea Curzon sul confine orientale polacco (con l'aggiunta di Leopoli-Lvov), che la Polonia compensò ad ovest (sul confine dell'Oder-Neisse) le perdite dei territori ad est (gran parte dei quali occupati con la forza al momento della caduta dello zarismo ed abitati in larga maggioranza da popolazioni di etnia lituana, bielorussa ed ucraina); le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), persero l'indipendenza; la Romania che partecipò in forze all'operazione Barbarossa nel 1941, perse la regione moldava ad est del Prut e la Bucovina settentrionale; la Cecoslovacchia perse la sua regione orientale.

La Bulgaria, alleata della Germania nelle operazioni militari nei Balcani, ma che si astenne dalla partecipazione all'aggressione all'Unione Sovietica (con la quale non era confinante), ottenne dalla Romania la Dobrugia meridionale. A differenza di quanto era avvenuto dopo il primo conflitto mondiale, si ebbero nel secondo dopoguerra spostamenti di milioni di persone che abbandonarono (o che andarono a ripopolare), i territori ceduti (o acquisiti). Un piano creato dal segretario di stato statunitense George Marshall, il Piano di Recupero Economico, meglio noto come piano Marshall, chiese al Congresso degli Stati Uniti di assegnare miliardi di dollari per la ricostruzione dell'Europa.

La Società delle Nazioni che aveva chiaramente fallito nel prevenire la guerra, fu abolita e al suo posto venne costruito un nuovo ordine internazionale. Nel 1945 vennero fondate le Nazioni Unite. Alla porzione di Europa occupata o dominata dall'Unione Sovietica (Finlandia inclusa) non fu consentito di beneficiare del Piano Marshall. Nel Trattato di Pace di Parigi, ai nemici dell'Unione Sovietica (Ungheria, Finlandia e Romania) venne richiesto di pagare le riparazioni di guerra per 300.000.000 di dollari ciascuna (in dollari del 1938) all'URSS e ai suoi satelliti. All'Italia ne furono chiesti 360.000.000, destinati principalmente a Grecia, Jugoslavia e Unione Sovietica.

Nelle aree occupate dall'Unione Sovietica alla fine della guerra, vennero installati progressivamente (con la fine dell'accordo tra i Tre grandi e l'inizio della costituzione di sfere di influenza politico-militare) regimi comunisti filosovietici (Ungheria e Cecoslovacchia furono inizialmente escluse dal processo), nonostante le obiezioni degli altri alleati e dei governi in esilio. La Germania venne divisa in due stati, con la parte orientale che divenne uno stato comunista. Per usare le parole di Churchill, "una cortina di ferro è calata attraverso l'Europa". Per impedire il propagarsi dell'ideologia comunista nell'Europa occidentale gli USA si impegnarono direttamente e fu fondata la NATO in contrapposizione al Patto di Varsavia legato all'Unione Sovietica. La fase di tensione che ne derivò negli anni successivi è ricordata come Guerra Fredda.

Il rimpatrio, conformemente ai termini della Conferenza di Jalta, di due milioni di soldati russi prigionieri dei tedeschi, che erano stati liberati dalle forze armate britanniche e americane in avanzata da ovest, risultò per molti di loro in una condanna alla deportazione o alla morte nei vari campi di rieducazione e lavoro. Stalin, e anche molti cittadini sovietici, vedevano questi sventurati, prevalentemente caduti in mano tedesca durante il primo anno di guerra a causa degli errori dei vertici militari, quasi come dei disertori o elementi infidi passati al nemico; comunque meritevoli di punizione per non aver combattuto fino alla morte contro l'invasore.

L'imponente ricerca e sviluppo coinvolti nel Progetto Manhattan, allo scopo di ottenere rapidamente un'arma nucleare funzionante, ebbe un profondo effetto sulla comunità scientifica, sia dal punto di vista puramente tecnico, che dal punto di vista filosofico e morale. Nella sfera militare, sembrò che la seconda guerra mondiale avesse marcato l'avvento dell'era della potenza aerea, principalmente a spese delle navi da guerra. Mentre il pendolo continua ad oscillare in questa interminabile competizione, l'aviazione è ora una delle componenti fondamentali di ogni azione militare.

La guerra fu, anche, una linea di demarcazione per gli eserciti di massa. Anche se enormi eserciti composti da truppe scadenti si sarebbero visti ancora (durante la guerra di Corea e in diversi conflitti africani), dopo questa vittoria, le principali potenze occidentali si affidarono maggiormente a piccoli eserciti altamente addestrati.

Dopo la guerra, molti alti esponenti della Germania nazista vennero processati per crimini di guerra, così come per gli omicidi di massa dell'olocausto (commessi principalmente nella zona del Governatorato Generale), al processo di Norimberga. Similarmente, i capi giapponesi vennero giudicati nel processo per crimini di guerra di Tokyo. In altre nazioni, ad esempio in Finlandia, gli Alleati chiesero che la leadership politica venisse giudicata in un "processo per le responsabilità di guerra", ovvero non per crimini di guerra. Una delle poche eccezioni è rappresentata dall'Italia, dove non si arriverà mai ad un processo contro i criminali di guerra.

La sconfitta del Giappone, e la sua occupazione da parte delle forze americane, portò a un'occidentalizzazione del paese che fu molto più estesa di quanto non sarebbe stato altrimenti. Il Giappone si avvicinò di più alla democrazia di stampo occidentale. Questo grande sforzo portò il Giappone del dopoguerra al miracolo economico ed a diventare la seconda economia mondiale. Anche la Germania, pur uscendo sconfitta dalla seconda guerra mondiale, riuscì a risollevarsi nel dopoguerra, diventando una delle principali forze economiche europee.
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Da: X dd17/10/2011 12:48:26
Si e' capito che sei te che intasi questo forum, non hai proprio niente di meglio da fare....manco nel giorno di riposo....!!! Sei la nullità al corso come tanti altri anonimi e anche fuori!!!
Rispondi

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Da: dd17/10/2011 13:57:38
Si e' capito che sei te che intasi questo forum, non hai proprio niente di meglio da fare....manco nel giorno di riposo....!!! Sei la nullità al corso come tanti altri anonimi e anche fuori!!!
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Da: ee17/10/2011 13:58:09
Si e' capito che sei te che intasi questo forum, non hai proprio niente di meglio da fare....manco nel giorno di riposo....!!! Sei la nullità al corso come tanti altri anonimi e anche fuori!!!
Rispondi

Da: ff17/10/2011 13:58:33
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Rispondi

Da: gg17/10/2011 13:58:44
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Da: hh17/10/2011 13:59:00
Si e' capito che sei te che intasi questo forum, non hai proprio niente di meglio da fare....manco nel giorno di riposo....!!! Sei la nullità al corso come tanti altri anonimi e anche fuori!!!
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Da: dopo la h cosa viene?17/10/2011 13:59:31
????
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Da: il corsista samurai17/10/2011 16:04:55
Samurai: storia, etica e mito
Percorrere e tracciare i lineamenti fondamentali della storia dei samurai non è cosa facile perché alla mera ricostruzione evolutiva dei fatti si intreccia inevitabilmente la visione, più romantica che storica, della figura del guerriero in sé, il samurai appunto. Per il giapponese questa figura non è la semplice "protagonista" di un certo periodo storico; è, al contrario, il periodo storico, il tempo a trovarsi in una posizione di sudditanza rispetto al mito e alle tradizioni che intorno a tal mito sono state costruite, tanto che il tempo stesso risulta avere un ruolo secondario di fronte al "protagonista" che questo tempo ha vissuto. Cosicché parlare di "etica della guerra" e di "cultura samurai" ci appare come un discorso sempre attuale, che esula dalla visione della storia come "trattato dello ieri" e ci pone in quella che è la giusta visione della storia, vale a dire la storia come "metafora del mito". Utile ribadire che ogni area geografica e culturale ha avuto (ha) i suoi (e di tutti) miti eternamente attuali.




La società giapponese


La società giapponese del XVI secolo aveva una struttura definibile come feudalesimo piramidale.
Al vertice di questa ideale piramide vi erano i signori dell'alta nobiltà, i daimyo, che esercitavano il loro potere tramite legami personali e familiari. Alle dirette dipendenze dei daimyo vi erano i fudai, ovvero quelle famiglie che da generazioni servivano il proprio signore. In questo contesto i samurai rappresentavano una casta familiare al servizio dei daimyo, ne erano un esercito personale.
Accadeva che durante le guerre feudali, il clan sconfitto, per non perdere le proprietà precedentemente conquistate, entrava a far parte dello stato maggiore del clan vincitore con funzioni di vassallaggio.
In questa organizzazione politica, quella militare dei samurai aveva caratteristiche e funzioni proprie al suo interno. Divisi in 17 categorie, i samurai avevano il compito di rispondere alla chiamata alle armi del daimyo cui facevano riferimento combattendo con armi proprie. Al di sotto dei samurai propriamente detti, ma facenti parte della stessa famiglia, vi erano i sotsu ("truppe di fanteria") a loro volta divisi in 32 categorie.
Alla base della piramide troviamo gli ashigaru, cioè la maggior parte dei combattenti (soldati semplici diremmo oggi) che erano per lo più arcieri e lancieri o semplici messaggeri. Nei periodi di pace gli ashigaru svolgevano mansioni come braccianti del samurai incaricato al loro mantenimento.


Excursus storico sui samurai


L'epopea dei samurai comincia nel periodo Heian (794-1185).
Alla fine del XII secolo il governo aristocratico di Taira subì una sconfitta nella guerra di Genpei cedendo il potere al clan dei Minamoto. Minamoto Yoritomo, spodestando l'imperatore, assunse di fatto il potere col titolo di shogun (capo militare) e fu lui a stabilire la supremazia della casta dei samurai, che fino a tal periodo svolgeva il ruolo di classe servitrice in armi estromessa da questioni di natura politica. Nei 400 anni a venire la or più accreditata casta guerriera avrebbe svolto un ruolo decisivo nella difesa del Giappone da tentate invasioni esterne, - come quella mongola del XIII secolo -, e nelle faide interne tra i vari feudatari (daimyo), tra le quali vanno ricordate quella del periodo Muromachi (1338-1573) in cui gli shogun Ashikaga affrontarono i daimyo, e quella del periodo Momoyama (1573-1600) in cui i grandi samurai Nobunaga (in foto) prima e il suo successore Hideyoshi dopo si batterono per sottomettere il potere dei daimyo e riunificare il paese.

La politica interna troverà stabilità al termine della battaglia di Sekigahara (1600), nella quale il feudatario Tokugawa Ieyasu, col titolo di shogun, sconfiggendo i clan rivali, assumerà pieni poteri sul paese insediando il suo "regno" nella città di Edo (odierna Tokyo) e inaugurando il periodo che da tale città prese nome (1603-1867), mentre l'imperatore rimaneva di fatto confinato nell'antica capitale Kyoto.
In questo periodo la pace fu garantita dal fatto che i daimyo giurarono fedeltà, di fatto sottomettendovisi, allo shogunato e a loro volta mantennero all'interno dei loro castelli contingenti di soldati e servi. Le conseguenze per la casta dei samurai furono immediate. Divenuta una casta chiusa e non essendoci più motivi di gerre feudali, il suo ruolo guerriero assunse sempre più toni di facciata: i duelli, in un contesto dove regnava la pace tra clan, divennero per lo più di tipo privato. Lo sfoggio di abilità guerriere e l'uso della spada (per il samurai un vero e proprio culto religioso) avveniva, in maniera sempre più frequente, soltanto per scopi cerimoniali; mentre le funzioni a cui venivano sempre più spesso preposti erano di tipo burocratico ed educativo, integrandosi sempre di più nella società civile. Un segnale della trasformazione del ruolo dei samurai è testimoniato dai rapporti che questi intrapresero con il disprezzato ceto chonin (borghesia in ascesa). Tale avvicinamento ha avuto tuttavia una grande importanza per aver "esportato" i valori della "casta del ciliegio" nella società civile fino ad oggi.

Una classe di samurai che fece la sua comparsa in questa epoca di pace fu quella dei ronin ("uomini onda" o "uomini alla deriva"). Si tratta di quei soldati rimasti senza signore perché soppresso il feudo di appartenenza; in sostanza samurai declassati.
Con la caduta dell'ultimo shogunato, vale a dire quello di Yoshinobu Tokugawa, ebbe inizio l'era Meiji (1868-1912). Fu questo un periodo di radicali riforme, note con il nome di "rinnovamento Meiji", le quali investirono a pieno anche la struttura sociale del Sol levante: l'imperatore tornava ad essere la massima figura politica a scapito dello shogunato, lo Stato fu trasformato in senso occidentale e i feudi soppressi. La casta samurai abolita in funzione di un esercito nazionale.


L'arte e l'onore. La morte e il ciliegio


hana wa sakuragi, hito wa bushi ("Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero")

La costante ricerca di una condotta di vita onorevole si fondeva, nell'etica della guerra del samurai, con una disciplina ferrea nell'addestramento marziale. Anche durante la pace del lungo periodo Edo, i samurai coltivarono le arti guerriere (bu-jutsu, oggi budo). Le principali discipline praticate e di giorno in giorno perfezionate erano il tiro con l'arco (kyu-jutsu, oggi kyudo), la scherma (ken-jutsu, oggi kendo) e il combattimento corpo a corpo (ju-jutsu, oggi più comunemente conosciuto come ju-jitsu).

La katana ("spada lunga") era il principale segno di identificazione del samurai e l'acciaio della lama incarnava tutte le virtù del guerriero; ma più che questa funzione meramente riconoscitiva, la spada rappresentava un vero e proprio oggetto di culto. L'attenzione rivolta nel costruirla (sarebbe più preciso dire crearla), nel curarla e nel maneggiarla dà l'impressione che la spada venisse venerata più che utilizzata.
Trattando la figura del samurai non è possibile scindere l'allenamento fisico da quello spirituale, così come non è possibile scindere l'uomo dal soldato; tuttavia, per fini esemplificativi, potremmo dire che se il braccio era rafforzato dalla spada, lo spirito era rafforzato dalla filosofia confuciana. Fin da bambino, il futuro guerriero, veniva educato all'autodisciplina e al senso del dovere. Egli era sempre in debito con l'imperatore, con il signore e con la famiglia e il principio di restituzione di tale debito era un obbligo morale, detto giri, che accompagnava il samurai dalla culla alla tomba.

Il codice d'onore del samurai non si esauriva, tuttavia, nel principio giri, ma spaziava dal disprezzo per i beni materiali e per la paura, al rifiuto del dolore e soprattutto della morte. È proprio per la preparazione costante all'accettazione della morte che il samurai scelse come emblema di appartenenza alla propria casta il ciliegio: esso stava infatti a rappresentare la bellezza e la provvisorietà della vita: nello spettacolo della fioritura il samurai vedeva il riflesso della propria grandezza e così come il fiore di ciliegio cade dal ramo al primo soffio di vento, il guerriero doveva essere disposto a morire in qualunque momento.
Se morte e dolore erano i principali "crimini", lealtà e adempimento del proprio dovere erano le principali virtù; atti di slealtà e inadempienze erano (auto)puniti con il seppuku ("suicidio rituale", l'harakiri è molto simile, ma è un'altra cosa...).
Il codice d'onore del samurai è espresso, dal XVII secolo, nel bushido ("via del guerriero"), codice di condotta e stile di vita riassumibile nei sette princìpi seguenti:

- ç, Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell'onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

- 勇, Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L'eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

- ä», Jin: Compassione
L'intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d'aiuto ai propri simili e se l'opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.

- ç, Rei: Gentile Cortesia
I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.

- è, Makoto o ä¿, Shin: Completa Sincerità
Quando un Samurai esprime l'intenzione di compiere un'azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l'intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di "dare la parola" né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

- 名è, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell'onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

- ¿ç, Chugi: Dovere e Lealtà
Per il Samurai compiere un'azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.

Che i Samurai, nei tanti secoli della loro storia, si siano sempre e comunque attenuti a questi princìpi, è un elemento di certo secondario, né tantomeno spetta a noi il compito di ergerci a giudici. Ciò che rimane indelebile e si manifesta in tutta la sua grandezza è invece lo spirito autentico e "romantico" di un'etica guerriera (ma non solo guerriera) fondata sul rispetto, l'onore, la lealtà, la fedeltà, il coraggio e l'abnegazione: valori che furono incarnati da molti samurai i cui nomi sono stati - a buon diritto - consegnati alla storia. E in una società che sembra aver smarrito la bussola, sempre timorosa (finanche di se stessa), l'etica samurai potrebbe rappresentare un ausilio, una salda coordinata per un recupero dell'autocoscienza e della padronanza di sé; sicuramente un ottimo strumento per il rifiuto di un'esistenza meschina ed esclusivamente materiale e per una riscoperta del proprio spirito. Lo stesso spirito che animò i "guerrieri-poeti" i quali, grazie alla lama della loro spada e al tenue turbinare dei fiori di ciliegio, seppero coniugare sapientemente Poesia e Azione.
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Da: il corsista filosofo17/10/2011 16:06:22
LA VITA E IL PERIODO PRECRITICO

Kant opera negli ultimi decenni del Settecento in Germania, in un'epoca per molti versi di transizione tra illuminismo e romanticismo. Risente di questa fase di transizione e, pur collocandosi a pieno titolo nell'illuminismo (di cui è l'ultimo e il massimo esponente), molti aspetti del suo pensiero sono già romantici. Rilevante è il fatto che egli operi in una realtà come quella tedesca che, per la sua collocazione 'provinciale' dal punto di vista culturale e politico, vede il penetramento di un illuminismo diverso da quello degli altri Paesi, un illuminismo più sfumato, il cui aspetto rivoluzionario di netta rottura e di critica verso il passato risulta smorzato. Che l'illuminismo in Germania sia più sfumato che altrove, lo si può facilmente evincere dall'uso che i tedeschi continuano a fare del latino, nella altre nazioni europeee ormai sostituito dalle lingue nazionali, atte a divulgare il più possibile la cultura e le scoperte filosofiche. Un altro aspetto che contraddistingue la realtà tedesca dalle altre in Europa è il fatto che, in ambito filosofico, in Germania non c'è la rottura definitiva con la metafisica, nè tantomeno il distacco degli intellettuali dalle università: Kant stesso sarà per tutto il corso della sua vita professore universitario. Si può dire, in altri termini, che la Germania di quegli anni è di gran lunga meno rivoluzionaria di molti altri Paesi, quali la Francia o l'Inghilterra; Kant è per molti versi un pensatore rivoluzionario, tanto da essere talvolta paragonato a Robespierre; eppure, letto in trasparenza, molti sono in lui gli aspetti conservatori: egli si presenta, più che come pensatore radicalmente rivoluzionario, come pensatore che cerca di dare una sistemazione definitiva alla culturta moderna . Kant accetta con entusiasmo le novità subentrate nella cultura moderna, cercando di dar loro una veste definitiva; quest'operazione egli la attuerà soprattutto con la scienza newtoniana: la filosofia di Kant è, infatti, per molti aspetti un tentativo di fondare filosoficamente la scienza di Newton e questo dimostra che egli non è un conservatore, ma anche che è meno rivoluzionario del previsto. La vita di Kant , interamente dedicata all'insegnamento universitario, è diventata quasi proverbiale per i pochi avvenimenti che la caratterizzano. Due però sono le tappe fondamentali che la segnano: la prima, risale a quando Kant rivendicò apertamente la libertà di pensiero, in opposizione con la censura che aveva avuto da dire sul suo scritto sulla religione costruita nei limiti della sola ragione. In Kant la libertà di pensiero è un tema centrale , che trova la sua massima trattazione nella Risposta alla domanda: che cosa è l'illuminismo? (1784) . In questo trattatello (che è il vero e proprio testamento spirituale dell'illuminismo), Kant definisce l'illuminismo come ' l'uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso ' , quasi come se l'uomo non fosse ancora del tutto divenuto maggiorenne sul piano intellettuale, cioè capace di usare la propria ragione. Kant, riprendendo le tematiche tipicamente illuministiche della lotta ai pregiudizi, spiega che gli uomini, fino a quel momento, non hanno dovuto fare lo sforzo di pensare da soli perchè c'era chi lo faceva per loro: essi si sono dunque ridotti ad accettare le opinioni elaborate dagli altri senza vagliarle con la propria ragione. La minorità che ha caratterizzato fino ad allora l'uomo è interamente imputabile all'uomo stesso, che non ha avuto il coraggio nè la voglia di sapere; l'illuminismo è quindi un fatto di volontà e il suo motto è ' abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione! '. A questo punto, però, Kant (e qui si vede come egli sia per molti aspetti conservatore) distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione : l'uso pubblico è quello che io faccio in qualità di libero cittadino, quello privato è invece quello che faccio nell'esercizio specifico di determinate funzioni. Come soldato impegnato in guerra, ad esempio, dovrò limitarmi ad obbedire, senza esprimere la mia disapprovazione (uso privato della ragione); quando però non sono più nelle vesti di soldato, ma in quelle di cittadino, posso liberamente esprimere la mia disapprovazione e tutte le obiezioni che desidero (uso pubblico della ragione); allo stesso modo, se un gruppo religioso mi paga per tenere la messa, io devo limitarmi ad eseguire e non mi è concessa la libertà di esprimere le mie riserve in merito a quella dottrina religiosa; come libero cittadino, invece, posso esprimere il mio disappunto e le mie perplessità. Nei due casi appena esaminati, non vi è alcuna violazione dell'obbedienza: ho libertà di parola, ma devo obbedire (anche se non approvo); e Kant tesse le lodi di Federico II, il sovrano imbevuto di razionalismo, il cui atteggiamento può così essere riassunto: 'puoi pensare quello che vuoi, ma devi obbedire ai miei ordini'. Tuttavia Kant si accorge con grande acutezza che spesso la distinzione tra fatti e parole non è così facilmente operabile: il soldato che obbedisce agli ordini, ma li critica va oltre la libertà di espressione e raggiunge la fattualità, creando una situazione psicologica che favorisce la disobbedienza agli ordini: in questo modo, le parole diventano fatti. Kant riconosce dunque due limiti alla libertà di espressione: il primo è quello che risiede nella distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, e il secondo è invece quello riguardante i casi in cui la libertà d'espressione non è del tutto legittima (come nel caso del soldato che obbedisce ma critica). L'altra tappa fondamentale della vita di Kant è legata all'atteggiamento assunto nei confronti della Rivoluzione francese: si narra che i concittadini di Kant regolassero i loro orologi in base alle sue passeggiate, che avvenivano immancabilmente in determinati orari, e che una sola volta egli mancò all'appuntamento: quando seppe della presa della Bastiglia. Anche quando la Rivoluzione prese una piega radicale, Kant restò coerente: non rinunciò mai a considerare la Rivoluzione come positiva per la storia dell'umanità e il popolo francese come il primo popolo che si era finalmente dato un regime del tutto degno del genere umano. Stranamente però nel giudicare la Rivoluzione e l'annosa questione della legittimità della ribellione, Kant sostenne che di fronte ad un'autorità legittimamente costituita la ribellione fosse illegittima; tuttavia questo non gli impedì di giudicare positivamente i contenuti del regime nato dalla Rivoluzione una volta che esso era nato: la Rivoluzione è stata illegittima, secondo Kant, perchè contro un governo legittimamente costituito, ma, una volta che essa c'è stata, non si possono non riconoscere i valori fortemente positivi scaturiti dal nuovo regime. Anche in merito a questo strano atteggiamento verso la Rivoluzione emerge la questione della libertà di pensiero: non c'è il diritto di opporsi ad uno stato costituito legittimamente, ma c'è il diritto di schierarsi, in qualità di liberi cittadini, a favore della Rivoluzione, una volta che essa ha preso il via. Tutto questo si collega ancora ad un altro opuscolo kantiano, dedicato alla politica e intitolato Per la pace perpetua : in esso, Kant ipotizza la possibilità di realizzare una pace perpetua, cioè di trovare un sistema di equilibrio internazionale che garantisca una volta per tutte la fine delle guerre. Kant non ipotizzava una sorta di unico stato mondiale, anzi, guardava con sospetto la cosa perchè in fondo la sua è una posizione liberale. Piuttosto, egli propone di creare una sorta di federazione mondiale degli Stati, a partire dall'Europa per poi coinvolgere l'intero mondo. In questo senso, Kant può essere considerato il teorico dell'Europa Unita. E' interessante il fatto che egli scorga nella Francia repubblicana (per repubblicano Kant intende uno Stato in cui i cittadini prendano parte al governo) il punto di riferimento per questa confederazione: il ragionamento che porta il pensatore tedesco a scegliere la Francia e più in generale un Paese repubblicano è questo: Kant è convinto che in fondo i sovrani han sempre fatto le guerre come varianti dello sport della caccia, senza rimetterci molto; se si vuole davvero ottenere una pace perpetua, è necessario che a scegliere se fare la guerra o meno sia chi ne paga le conseguenze, ovvero il popolo: se spettasse ad esso la decisione, non vi sarebbero mai guerre, sostiene Kant. Quest'osservazione kantiana, però, non è del tutto corretta e nasce soprattutto in virtù dell'ottimismo illuministico che si respirava in quegli anni: il Novecento ha chiaramente mostrato come i popoli (pur pagandone le conseguenze) si lascino facilmente trascinare in guerra, a differenza di quel che pensava il filosofo tedesco. Piuttosto importante è la vita intellettuale di Kant : egli ebbe una prima formazione di stampo pietistico. Il pietismo è quella corrente protestante che, nata nel Seicento, si caratterizza per un intenso senso della spiritualità e per un rigorismo morale molto marcato: e sia il rigorismo sia l'interiorità spirituale sono due connotazioni fortissime nella filosofia di Kant; uno dei suoi testi più famosi (la Critica della ragion pratica ) è dedicato all'etica ed è evidentemente ispirato al pietismo. Nella formazione culturale del giovane Kant ebbero peso parecchi pensatori: va subito precisato che Kant non è un autore precoce (come saranno invece gli autori romantici: Schelling, ad esempio, a 25 anni aveva già scritto le sue opere più importanti), bensì giunge alla piena maturazione del proprio pensiero in età avanzata. Pur avendo composto parecchi scritti in gioventù, è solo con la Critica della ragion pura (1781), composta quando aveva ormai circa sessant'anni, che Kant raggiunge la maturità del suo pensiero. Tutto ciò che aveva scritto prima non è altro che una lunga e laboriosa preparazione a questo. La sua filosofia, del resto, viene solitamente suddivisa in due periodi, facendo riferimento alla stesura della Critica della ragion pura : il periodo che viene prima di quest'opera è definito 'precritico'. A caratterizzare questo lungo periodo di maturazione filosofica, sono le continue oscillazioni dovute alle diverse influenze filosofiche che agiscono su Kant. Di esse, due sono quelle che si fanno più sentire: si tratta dell'empirismo e dell'innatismo. Nella metà del Settecento, in Germania, l'influenza di Leibniz era ancora fortissima, grazie anche alla diffusione e alla sistematicizzazione del suo pensiero operata da Wolff: e proprio queste due istanze, leibniziane e di sistematicizzazione, le ritroviamo in Kant; soprattutto l'idea di sistematicizzare è fortissima nel pensatore tedesco, quasi ossessiva, tanto che qualcuno ha detto che si tratta quasi di una gabbia che cristallizza il suo pensiero: sì, perchè se prendiamo la Critica della ragion pura noteremo in essa una sistematicità esasperata, ricercata; addirittura alle altre due grandi critiche (la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio ) egli tenterà di conferire la stessa sistematicità. Detto questo, Kant deriva da Leibniz parecchie concezioni, delle quali una resta fissa, assolutamente intoccabile: si tratta di un'istanza innatista sul piano gnoseologico, un rifiuto a pensare che tutto possa derivare solo dall'esperienza; come diceva Leibniz stesso, non c'è nulla nel nostro intelletto che prima non sia passato dall'esperienza, fatta eccezione per l'intelletto stesso. Naturalmente il materiale della conoscenza lo riceviamo dal'esperienza, ma a rielaborarlo è l'intelletto, che esula del tutto dall'esperienza stessa. Leibniz aveva avuto il merito di riconoscere, almeno embrionalmente, che le strutture con le quali organizziamo le conoscenze sono innate; la soluzione all'annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà Kant, in modo definitivo: la materia della conoscenza deriva dall'esperienza, ma la forma della conoscenza è a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l'istanza innatistica, pur depurandola: dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi deriviamo invece i contenuti. Questo vuol dire che Kant (sostenendo che il materiale dela conoscenza derivi dall'esperienza) non attinge solo dall'innatismo leibniziano, ma anche dall'empirismo lockiano. Da Locke egli eredita anche il criticismo nei confronti degli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, ponendosi il quesito: fin dove può arrivare la mia ragione? Locke diceva che la ragione è l'unico lume di cui possiamo avvalerci per illuminare il mondo, ma si tratta comunque di una luce limitata, che non può gettar luce su ogni cosa: ma la limitatezza di queso mezzo non autorizza a porre ad esso dei limiti esterni (quale la fede). Essendo l'unico strumento a disposizione, il lume della ragione è l'unico che abbia il diritto di indagare sui suoi stessi limiti, che non le sono comunque imposti dall'esterno. La ragione non è onnipotente, ma ha dei limiti intrinseci: questo distingue l'illuminismo dal razionalismo cartesiano, che, vedendo la ragione come onnipotente, scivolava, paradossalmente, nell'irrazionalismo al pari della religione: come la religione non ha fede nella ragione, così il razionalismo ha fede in essa, senza però indagare sui limiti che essa presenta. La Critica della ragion pura è proprio, come il Saggio sull'intelletto umano di Locke, un tentativo della ragione umana di riflettere su se stessa, un tentativo che per molti versi conclude il discorso avviato a suo tempo da Cartesio sul metodo da adottare: che mezzi ha a disposizione la ragione per conoscere? E fin dove si possono spingere tali mezzi della ragione? Ad indagare sui limiti della ragione deve essere la ragione stessa. Ma Kant, oltrechè dell'influenza di Locke e di Leibniz, risente anche di quella di Newton e di Hume: la filosofia di Kant (almeno nella sua parte teoretica, ossia nella Critica della ragion pura ), come accennato, si configura come tentativo di fondare filosoficamente la scienza moderna, la cui paternità è riconducibile soprattutto a Newton. A quest'ultimo spetta il merito di aver unificato in una sola legge (legge di gravitazione universale) quelle che in Keplero e Galileo erano leggi distinte: Keplero aveva elaborato le tre leggi sull'orbita ellittica dei pianeti, Galileo, invece, aveva formulato la legge di caduta dei gravi. All'epoca di Kant la formulazione scientifica di Newton è all'avanguardia perchè si configura come una formulazione pienamente matura del meccanicismo: ormai il meccanicismo cartesiano, rigurgitante di errori, è sorpassato. Cartesio, del resto, aveva respinto l'attrazione a distanza dei pianeti e dei corpi perchè puzzava troppo di animismo e rischiava di inficiare l'impianto meccanicistico, il quale implica invece un'azione per contatto. Le teorie di Newton, che proponevano, con la legge di gravitazione universale, un'attrazione reciproca dei corpi, erano state viste dai cartesiani come un infamante allontanamento dal meccanicismo, noi le vediamo invece come la sua forma più matura. E Kant, sotto questo profilo, la pensa come noi. A testimonianza del suo stretto rapporto con la scienza newtoniana va indubbiamente ricordato lo scritto, datato 1775, intitolato Storia universale della natura e teoria del cielo : in esso, Kant avanza l'ipotesi della nascita dell'universo a partire dalla formazione nello spazio di una nebulosa di materia, secondo le leggi di Newton; quest'opera testimonia, tra l'altro, grandi comptetenze scientifiche, perchè sarà poi riformulata dall'astronomo La Place e prenderà il nome di ipotesi Kant-La Place. Vi è poi un altro testo fondamentale, risalente al periodo precritico, che testimonia la vicinanza a Newton e, al tempo stesso, la presa di distanza da Leibniz: Newton e Leibniz avevano avuto due diverse concezioni del tempo e dello spazio. Per il pensatore inglese, il tempo era qualcosa di assoluto, cioè di indipendente dal soggetto che conosce e dagli oggetti immersi nello spazio stesso; anche se non vi fossero cose nè soggetti percepienti lo spazio, quasi come un enorme contenitore, continuerebbe ad esistere; per esso (dato da 3 coordinate, cioè tre numeri ciascuno dei quali dà un'informazione: non possono esserci al tempo stesso due oggetti ad occupare lo stesso spazio) è anzi indifferente che vi siano al suo interno soggetti e cose. La concezione di Leibniz, per molti versi più vicina a quella della fisica novecentesca, vuole sia il tempo sia lo spazio come inesistenti in assoluto, ma dipendenti dagli oggetti stessi: spazio e tempo per Leibniz non sono altro che le relazioni tra le realtà materiali esistenti: lo spazio è la relazione della coesistenza fra le cose, e il tempo della successione delle cose. Concettualmente per Leibniz prima ci sono le cose, poi il tempo e lo spazio, perchè ne sono relazioni (e una relazione deve per forza sussistere tra cose già esistenti): pur dipendendo dalle cose, spazio e tempo non dipendono per Leibniz dal soggetto, in quanto non hanno carattere meramente soggettivo. Per Newton è l'esatto opposto: prima ci sono lo spazio e il tempo, poi tutto il resto. E Kant, nel periodo precritico, scrive un opuscolo in cui prende le difese di Newton, servendosi, nella sua dimostrazione, dell'analisi degli oggetti simmetrici: la mano destra e la mano sinistra, pur essendo simmetriche (cioè avendo una relazione interna tra le parti uguale, ma capovolta), non sono congruenti (cioè non occupano lo stesso spazio); ne consegue che se lo spazio fosse soltanto la relazione delle parti di un oggetto, lo spazio occupato dalla mano destra e dalla sinistra (la cui relazione interna è uguale, seppur capovolta) dovrebbe essere uguale, ma così non è: infatti (ed è evidente nel caso delle mani) dove c'è la stessa relazione, non c'è lo stesso spazio, ovvero il rapporto tra le parti non è lo spazio. Il che spiega chiaramente che la relazione delle parti non fa lo spazio , come invece sosteneva Leibniz, ma che lo spazio è prima delle cose stesse, come voleva Newton. Nella fase critica, però, Kant, pur non rinnegando la sua adesione alla tesi di Newton, opererà una modifica: è vero che lo spazio e il tempo sono assoluti e indipendenti dagli oggetti, di cui sono anzi la condizione di esistenza, spiegherà, ma è altrettanto vero che essi sono in qualche modo dipendenti dal soggetto. Tra i vari pensatori che influiscono su Kant vi è pure l' inglese Berkeley , il quale sosteneva che essere vuol dire essere percepiti: anche nel caso in cui non vi fossero più gli uomini, le cose continuerebbero ad esistere perchè percepite da Dio; Berkeley conferiva così alla propria filosofia una sfumatura idealistica (negando l'esistenza autonoma delle cose). Quando Kant scriverà la Critica della ragion pura , molti vedranno erroneamente in essa una banale riproposizione delle tesi esposte a suo tempo da Berkeley: il che spinse Kant ad effettuare una rivisitazione dell'opera in cui confutava l'idealismo e prendeva le distanze da Berkeley. Oltre a Berkeley, Kant risente anche dell'influenza di Hume , a tal punto che egli riconoscerà al pensatore scozzese il merito di averlo destato dal suo sonno dogmatico. Quest'espressione, divenuta celebre, dà quasi l'idea di un'illuminazione improvvisa arrivata dalla lettura dei testi humeani, i quali hanno svolto su Kant una funzione anti-dogmatica, l'hanno cioè destato da quel sonno che l'aveva portato ad accettare in maniera acritica alcuni punti fermi della metafisica e del comune modo di pensare: Hume aveva mostrato che la nozione di sostanza e di causa, da tutti accettate come evidenti, in realtà non erano poi così ovvie: chi mi dice che il mondo sia effettivamente un insieme di sostanze tra loro legate da rapporti causali? Non posso dimostrarlo razionalmente, ma ne sono certo per via della credenza immediata dettata dalla mia stessa natura di uomo, la quale mi invita ad accettare le nozioni di causa e sostanza, secondo Hume. Una volta svegliato da Hume, Kant ne prenderà poi le distanze perchè convinto che sebbene infondate razionalmente, le nozioni di causa e sostanza, a differenza di quanto credeva il pensatore scozzese, possano essere fondate dalla ragione. Certo, Hume ha perfettamente ragione a dire che le nozioni di causa e sostanza non sono ovvie, ma, detto questo, bisogna spingersi oltre, provando, con un percorso originale, a fondarle. E a proposito è interessante ricordare uno scritto kantiano (di tutti forse il più piacevole alla lettura) risalente al 1766, intitolato I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica . Lo spunto per quest'opera sorge in occasione di un fatto contingente: una conoscente aveva chiesto a Kant il parere a riguardo di un bislacco personaggio di allora, dalle idee strane e, a quanto sosteneva, capace di entrare in contatto col mondo sovrasensibile e spirituale. Kant ne approfitta e scrive questo libercolo, effettuando un capovolgimento ironico (evidente a partire dal titolo), quasi a dire che quel personaggio è un fanfarone che vuole andare al di là dell'esperienza sensibile allo stesso modo in cui spesso la metafisica ha costruito castelli in aria, cercando illegittimamente di andare oltre l'esperienza: i sogni della metafisica vengono dunque accostati a quelli del fanfarone e ritenuti dei puri vaneggiamenti. Questo testo costituisce l'apice della polemica kantiana verso la metafisica, una polemica che trova appunto in Hume il suo massimo eroe. Questa posizione di insofferenza verso la metafisica nel periodo critico si attenuerà e, sebbene Kant continuerà a ritenere erronea la pretesa della metafisica di spiegare ciò che è al di là del mondo fisico, tuttavia egli spiegherà che si tratta di una pretesa innata nella natura dell'uomo stesso, il quale sente l'esigenza di porsi queste domande e di rispondere ad esse. Dirà che alcune idee metafisiche (ad esempio Dio) hanno una certa funzione nella conoscenza (ad esempio, non posso conoscere Dio, ma l'idea di Dio mi aiuta a capire molte altre cose), e che esse, sebbene inaccessibili alla conoscenza, per altri versi sono accessibili al campo morale ed etico (ad esempio, Dio non lo posso conoscere, ma nell'etica, scegliendo come comportarmi, mi baso sul concetto di Dio). A quegli anni risale anche un'altra opera kantiana, che segna il distacco di matrice humeana dalla metafisica: L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763) . Qui Kant distrugge la classica argomentazione ontologica di Anselmo da Aosta: Anselmo aveva dimostrato l'esistenza di Dio partendo dal concetto stesso di Dio, inteso come l'essere perfettissimo, e spiegando che Dio, la cosa più perfetta di ogni altra, per essere tale non può mancare di esistenza; l'esistenza, in quanto perfezione, per Anselmo fa parte dell'essenza, e un concetto (pura essenza) privo di esistenza, non può essere perfetto. Ma Kant confuta quest'argomentazione, sostenendo che l'esistenza non può a nessun titolo far parte dell'essenza ; il concetto di una cosa, sia che essa esista sia che non esista, non varia e l'esistenza è come se si aggiungesse dall'esterno: il concetto di giraffa è perfetto di per sè, anche se le giraffe non esistessero. Kant si avvaleva di un esempio: certo i 100 talleri che ho in tasca sono diversi dai 100 talleri che io penso, già solo perchè con quelli in tasca posso fare acquisti, ma non è una differenza di essenza, non è, come credeva Anselmo, che i 100 talleri esistenti siano più perfetti e abbiano più valore dei 100 talleri pensati; non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima cosa pensata come se inesistente. L'esempio dei 100 talleri rende bene l'idea perchè, se come dice Anselmo ciò che esiste vale di più ed è più grande di ciò che è solo pensato, avendo 100 talleri in tasca, pensando quei talleri, dovrei averne in mente meno, solo 90, ad esempio, perchè una cosa solo pensata vale meno di una esistente. Così facendo, Kant smonta la prova anselmiana e mostra che i 100 talleri, sia che esistano sia che non esistano, hanno la stessa essenza. L'esistenza è invece qualcosa che si aggiunge dall'esterno, è la posizione (l'essere posto) di qualcosa: esiste ciò che è dato o può essere dato nell'esperienza di qualcuno: l'essenza di libro non cambia a seconda che il libro esista o meno, e posso dire che il libro esiste perchè mi è dato all'esperienza (visiva, tattile, etc.). Ne consegue che all'esistenza di qualcosa si arriva sempre dall'esperienza, mai dall'essenza, e quindi Anselmo ha sbagliato credendo di poter dimostrare l'esistenza di Dio partendo dalla sua essenza. In L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , Kant, smontata la prova ontologica, spiega che vi è un solo argomento per dimostrare l'esistenza di Dio, e tale argomento si basa appunto sull'esperienza: si tratta della dimostrazione ('del principio di ragion sufficiente') data a suo tempo da Leibniz. Non vi è nulla che avvenga senza un motivo: ne consegue che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sè tutto il resto: si tratta di Dio. Successivamente Kant rifiuterà quest'argomentazione, ma manterrà valida la critica alla prova di Anselmo, spiegando anzi, nella Critica della ragion pura , che tutte le prove dell'esistenza di Dio sono riconducibili alla prova di Anselmo; ma se essa è falsa, anche tutte le altre (che da essa derivano) lo sono. In effetti la prova della dimostrazione dell'esistenza di Dio addotta da Kant in quest'opera è molto discutibile, e lui stesso se ne rende conto, a tal punto che, sul finale dell'opera sull'unico argomento possibile, troviamo scritto: ' se è necessario convincersi dell'esistenza di Dio, non è altrettanto necessario che la si dimostri '. Nel 1770 Kant pubblica un'opera di fondamentale importanza nel suo percorso filosofico: si tratta della Dissertazione del 1770 sulla forma e i princìpi del mondo visibile e intellegibile: l'importanza di questo scritto risiede nel fatto che esso segna il periodo di transizione da fase precritica a fase critica; dopo averla pubblicata, Kant non scriverà più nulla di significativo per 11 anni: egli sente l'esigenza di riflettere prima di pubblicare qualcosa di davvero importante. Possediamo delle lettere kantiane risalenti a quel periodo in cui il pensatore tedesco spiega di essere impegnato nella preparazione di una grande opera, la Critica della ragion pura , che comporrà, nel 1781, in due soli mesi . Dalle lettere, è interessante notare, emerge che Kant aveva pensato a realizzare un'unica opera in cui illustrare i concetti che invece poi inserirà in due opere distinte, la Critica della ragion pura (dedicata alla gnoseologia) e la Critica della ragion pratica (dedicata alla praticità). Nelle lettere Kant non accenna minimamente a quella che sarà la terza grande critica, la Critica del giudizio (dedicata all'estetica): non riteneva infatti l'estetica suscettibile di trattazione critica. Esiste poi un Opus postumum , una raccolta di riflessioni kantiane pubblicate postume, in cui emergono alcune sfumature del suo pensiero, in particolare a riguardo di quella che Kant chiamerà la 'cosa in sè': in questi scritti essa tenderà a subire delle modificazioni. Tornando alla Dissertazione del 1770 , quel che emerge in essa e che sarà presente, seppur in modo diverso, nel periodo critico è la distinzione tra fenomeno e noumeno. Fenomeno (dal greco fainomenon , ciò che appare ) è ciò che appare, è l'oggetto dell'esperienza sensibile, mentre noumeno (dal greco noumenon ciò che è pensato ) è ciò che viene pensato, il possibile oggetto del pensiero. Questa distinzione rievoca quella operata a suo tempo da Platone tra sensibile e intellegibile, anche se in realtà, per Platone, si trattava di una distinzione tra due diversi oggetti del pensiero (una cosa era il cavallo, un'altra l'idea di cavallo e altra cosa era conoscere la prima rispetto alla seconda: si poteva conoscere una realtà a livello sensibile o pensandola con l'intelletto), per il Kant della Dissertazione, invece, si tratta di due livelli graduali: prima conosco la cosa come appare (conoscenza fenomenica), poi come effettivamente è (conoscenza noumenica). Ed è solo la conoscenza intellettuale (noumenica) che mi fa vedere come la cosa è realmente. In un secondo tempo, Kant introdurrà il concetto di 'cosa in sè' come sinonimo di noumeno: parla di cosa in sè perchè si tratta della cosa non in riferimento alla mia attività conoscitiva, ma slegata, a sè stante. Tuttavia la differenza lampante tra il Kant della Dissertazione e quello della Critica della ragion pura sta nel fatto che nel 1770 egli, influenzato dal platonismo, è pienamente convinto della conoscibilità della cosa in sè, mentre nel periodo critico la dichiarerà inconoscibile. E' ben evidente che la posizione kantiana nella Dissertazione è diametralmente opposta a quella assunta ne I sogni di un visionario , dove intendeva la metafisica come un puro vaneggiamento: nella Dissertazione Kant dice invece che posso vedere le cose come mi appaiono, ma, platonicamente, posso anche coglierne col pensiero l'essenza stessa (la cosa in sè). Il Kant della Ragion pura, invece, proclamerà l'inconoscibilità della cosa in sè asserendo che la nostra conoscenza si ferma al fenomenico. Esaminando la Dissertazione, però, è interessante notare che Kant, imbevuto di platonismo, introduce l'idea che la forma della conoscenza fenomenica sono lo spazio (per il mondo esterno: tutto quel che è fuori di me, lo percepisco nello spazio) e il tempo (per il mondo interiore: la successione dei miei stati interni). Qui Kant concepisce lo spazio e il tempo in maniera differente rispetto alle nozioni leibniziane e newtoniane, spiegando che essi non hanno esistenza oggettiva (come pretendeva Leibniz) e non sono assoluti, indipendenti dalle cose in essi immerse e dai soggetti conoscenti (come voleva Newton): per Kant spazio e tempo sono realtà soggettive , che non appartengono agli oggetti e al noumeno, ma al nostro modo di conoscere gli oggetti e al fenomeno. Essi appartengono dunque alle forme della conoscenza sensibile (fenomenica), fanno parte non della natura delle cose in sè, ma della natura del nostro modo di percepire: percepiamo, infatti, le cose nello spazio e nel tempo. Ma dobbiamo prestare attenzione a non farci ingannare dal linguaggio kantiano: egli per oggettivo intende sì qualcosa di opposto al soggettivo, un qualcosa che non dipende dal soggetto ma è a sè stante (il noumeno), tuttavia in Kant il termine 'oggettivo' è spesso sinonimo di 'universale': ad esempio, spazio e tempo sono soggettivi, nel senso che non appartengono alle cose come sono in sè, ma alle cose come appaiono a noi; detto questo, però, Kant dice anche che la nostra conoscenza delle cose nello spazio e nel tempo è oggettive, ha cioè valenza universale, vale per tutti i soggetti umani. Dire che la conoscenza fenomenica è oggettiva sembra un paradosso, perchè il fenomenico è soggettivo, non attinge la cosa oggettivamente come è in sè: però, avendo tutti gli uomini la stessa struttura mentale, allora conoscono le cose, sostanzialmente, tutti nella stessa maniera, che non è oggettiva nel senso che attingono la cosa in sè, ma è oggettiva nel senso che tutti la percepiscono fenomenicamente allo stesso modo: quando, ad esempio, parlo della penna, nessuno può cogliere il noumeno, ma dicendo 'la penna è qui' tutti mi capiscono perchè hanno le mie stesse strutture mentali. Così si spiega dunque perchè per Kant la conoscenza fenomenica è oggettiva (universale), grazie al fatto di essere soggettiva : avendo tutti noi gli stessi strumenti per conoscere le cose in modo soggettivo (nello spazio e nel tempo), si tratta però di una conoscenza universale, cioè oggettiva; il che ci permette di comunicare. Protagora diceva che l' uomo é misura di tutte le cose e questa espressione può anche significare che l' uomo in quanto tale (il genere umano) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti. Ora, quest' interpretazione rispecchia molto bene il pensiero di Kant: il genere umano conosce le cose come appaiono (fenomenicamente), ossia ciascuno le conosce soggettivamente, come appaiono a lui; ma tuti gli altri uomini, dotati delle stesse strutture mentali, le conoscono soggettivamente allo stesso modo: si tratta allora di una conoscenza soggettiva (fenomenica: basata sull'apparenza), ma oggettiva (universale, uguale per tutti gli uomini). Ad accomunare Protagora e Kant è poi il fatto che per entrambe l'uomo può conoscere (e non può fare altrimenti) le cose come gli appaiono, quasi come se avesse davanti agli occhi delle lenti colorate non rimuovibili che gli fanno vedere il mondo in un determinato modo. Tuttavia, il Kant della Dissertazione è pienamente convinto che si possa conoscere anche il noumeno, accanto al fenomeno: vale a dire, che se la conoscenza fenomenica avviene attraverso il filtro dello spazio e del tempo e ci fa vedere le cose non come sono, ma come appaiono, tuttavia esiste la conoscenza noumenica, che ci fa cogliere le cose in sè, come oggetti del pensiero. Nella Critica della ragion pura , invece, spiegherà che è conoscibile solo il fenomeno e che in realtà, mentre lo spazio vale solo per il mondo esterno, il tempo, invece, oltre a valere nell'interiorità, vale anche per l'esterno: infatti anche le percezioni esterne diventano qualcosa di interiore a me (quando vedo un libro blu, è una sensazione di qualcosa di esterno, ma come sensazione è interna, perchè il blu entra nella mia testa, nel mio interno: e qui regna il tempo). Sempre nella Critica della ragion pura , Kant spiega che non si possono conoscere le cose in sè, ma le si possono comunque pensare: penso alla penna conosciuta fenomenicamente, la percepisco e la inquadro intellettualmente: rifletto sul fatto che al di là della penna c'è la penna in sè, da cui derivano tutti gli elementi sensibili, e sebbene io possa pensarla, tuttavia non posso conoscerla, perchè dovrei avere un concetto privo di contenuto della penna, senza relazioni con altre cose: dovrei avere il noumeno.

LA CRITICA DELLA RAGION PURA

Nella Dissertazione , dunque, (e qui sta la differenza rispetto alla Critica della ragion pura) vi è una netta contrapposizione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale, sebbene si tratti comunque di due diversi modi di conoscere il medesimo oggetto: esso viene conosciuto fenomenicamente sotto il profilo dell'apparenza, filtrato cioè dallo spazio e dal tempo (che non appartengono alle cose in sè, ma appartengono alle cose come fenomeni). Tuttavia, essendo spazio e tempo uguali per tutti gli uomini, tutti vedono le cose nella medesima maniera, in modo oggettivo (ossia universale). Tuttavia la posizione del Kant della dissertazione si riveste di ambiguità nel momento in cui prospetta la conoscenza della cosa in sè, del noumeno, che sarà invece respinta nella Critica della ragion pura . Per il Kant del periodo critico, conoscere sarà pensare, sì, ma pensare qualcosa di dato dall'esperienza: dove non c'è esperienza non c'è conoscenza. Pare del resto evidente che una cosa, per essere pensata e conosciuta, deve prima essere percepita empiricamente; tuttavia l'esperienza non basta, non c'è conoscenza senza il pensiero: raccolti i dati sensibili, essi devono essere riorganizzati dall'intelletto. Ecco dunque che quei due diversi livelli conoscitivi (intellettuale e sensibile) vengono per così dire ricompattati: nè l'esperienza nè il pensiero, da soli, danno la conoscenza; per pervenire ad essa sono necessari i dati sensibili e l'intelletto che li riorganizzi. Ecco perchè ' senza l'intelletto la nostra conoscenza sarebbe cieca e senza l'esperienza sarebbe vuota '. Kant non riconosce più, nel periodo critico, una netta distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale perchè ciascuno di questi due pezzi, se non abbinato all'altro, è inutile. La conoscenza che deriva dall'organizzazione dei dati sensibili da parte dell'intelletto resta comunque fenomenica (mai noumenica), in quanto l'intelletto non è più una fonte autonoma di conoscenza (come era nella Dissertazione); tuttavia la nozione di conoscenza fenomenica assume ora una diversa coloritura: essa implica la collaborazione tra sensi, impiegati nella raccolta dati empirici, ed intelletto, impiegato nell'organizzazione di tali dati; ne consegue che pensare significa unificare , ossia riorganizzare i dati dell'esperienza con l'intelletto. Tuttavia Kant si avvede che non è solo la sensibilità ad avere le sue forme (spazio e tempo), come invece credeva ai tempi della Dissertazione : anche l'intelletto organizza il materiale sensibile attraverso delle forme, che Kant chiama categorie; ecco dunque che nella conoscenza fenomenica opera anche l'intelletto, la cui competenza, invece, nella Dissertazione era riservata esclusivamente alla conoscenza noumenica. Questo non toglie che la conoscenza resti fenomenica, e anche se la cosa in sè posso pensarla, non per questo posso conoscerla. Il contenuto della cosa in sè, però, spiega Kant, é vuoto ed inaccessibile. Tutti questi concetti, pilastri del suo sistema filosofico, Kant li illustra nella Critica della ragion pura (1781) , il suo capolavoro, con la cui pubblicazione prende il via il periodo critico. Esso viene così definito per via dei titoli delle tre grandi opere che lo caratterizzano (le 3 critiche, della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio); in origine, però, la terza critica (quella del giudizio) non era prevista, e le prime due dovevano avere un titolo diverso da quello con cui ci sono giunte: si sarebbero infatti dovute intitolare Critica della ragion pura teoretica e Critica della ragion pura pratica . Bisogna ora spendere due parole sul motivo di questi titoli, in cui compare il termine 'critica' che dà appunto il nome a questa seconda fase del pensiero kantiano. Il termine 'critica' si riconduce inevitabilmente al vocabolario della temperie culturale allora in atto, l'illuminismo, il quale tendeva appunto ad avere con la ragione un approccio critico: la ragione per gli illuministi è l'unico baluardo conoscitivo a disposizione dell'uomo, ed è però uno strumento che presenta degli evidenti limiti. Per evitare che la ragione compia passi, per così dire, più lunghi della gamba e rischi di impelagarsi in questioni che non può risolvere nè le competono, è opportuno giudicare (in greco krinw vuol appunto dire giudicare: da qui l'aggettivo 'critico') sulle sue facoltà e sui suoi limiti. L'assillante quesito volto a scoprire che cosa possa conoscere la ragione e fin dove possa spingersi è presente a partire dalle opere seicentesche (il Novum organum di Bacone, il Discorso sul metodo di Cartesio, il SAggio sull'intelletto umano di Locke) e trova nel Kant della Ragion pura la massima espressione. Egli sostiene che la filosofia debba rispondere a tre quesiti: 1 ) che cosa posso sapere? (e Kant risponde a questa domanda nella Critica della ragion pura ), 2 )che cosa posso fare? (e Kant risponde nella Critica della ragion pratica ), 3 ) cosa posso sperare? (e risponde in ambedue le opere appena citate, sostenendo che è legittimo sperare nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima). Occorre dunque avere un approccio critico con la ragione, giudicandone i limiti ed i difetti: ecco allora che Kant istituisce un vero e proprio tribunale della ragione , dove la ragione é allo stesso tempo imputato e giudice : imputato nel senso che si indaga su quali siano i suoi limiti e il suo campo di applicabilità , giudice nel senso che é proprio lei che indaga e giudica se stessa. In tribunale però non si discutono solo le questioni di fatto, ma anche quelle di diritto: dopo aver spiegato che l'imputato ha agito in quel determinato modo, occorre chiedersi se egli ne aveva il diritto. Non si tratta dunque di indagare sulla ragione esclusivamente per quel che ha fatto, ma anche se aveva o meno il diritto di farlo. Nelle prime pagine della Critica della ragion pura , Kant riprende le tre domande poc'anzi citate cui è tenuta a rispondere la filosofia, e le riformula sotto forma di tre sottodomande: a ) come è possibile una matematica pura? b ) come è possibile una fisica pura? c ) come è possibile una metafisica come scienza ? Con l'ultimo quesito, il pensatore tedesco si chiede se sia possibile una metafisica come scienza e, nel caso lo sia, come debba funzionare. Con le prime due domande, invece, Kant non si chiede se sia possibile una matematica o una fisica pura (poichè egli non nutriva dubbio alcuno sulla fisica matematizzata di Newton), ma come sia possibile, secondo quali modalità. Che siano scienze 'possibili', del resto, lo dimostrano i grandi risultati a cui esse hanno portato: Kant dà quindi per scontato che siano possibili e passa direttamente a chiedersi come lo siano. Sarà poi nell' Ottocento e nel Novecento che la fisica e la matematica verranno messe in discussione e nasceranno le geometrie non euclidee. Per quel che riguarda la metafisica, anche in virtù dei dubbi sollevati da Hume, occorre invece chiedersi in primis se essa sia possibile, e, in caso affermativo, come lo sia. Alla domanda se sia possibile una metafisica come scienza Kant fornisce una risposta articolata e, per molti versi, ambigua, spiegando che la metafisica è un impulso innato nella natura umana: tale natura non si accontenta delle cose fisiche, ma ha bisogno di andare al di là di esse. Kant descrive quest'atteggiamento proprio dell'uomo servendosi di un'immagine: come quando in riva al mare vediamo all'orizzonte la distesa marina più in alto rispetto a quanto non sia, e pur sapendo che si tratta di un'illusione ottica, non per questo smettiamo di vederla più in alto, allo stesso modo sappiamo che la metafisica è una fantasticheria, ma non per questo cessiamo di cedere ad essa, presi da un impulso innato nella nostra natura. Kant quindi riconosce che l'uomo, per sua inclinazione naturale, tende alla metafisica, e vede questa tendenza come positiva; ciononostante, la ragione deve vigilare e deve fare in modo che questa tendenza ad andare al di là del mondo fisico non degeneri in una pretesa. Ma la questione inerente alla metafisica come scienza non si risolve qui: se intendiamo la metafisica in senso letterario come un oltrepassamento delle cose fisiche, allora essa non è possibile come scienza; ma il termine 'metafisica' può anche avere un significato più sfumato e se alla parola conferiamo questo significato, allora una metafisica come scienza è possibile. Sembra dunque che Kant sia il grande distruttore della metafisica (specialmente quando nega ogni possibilità di conoscere la cosa in sè), come Robespierre lo era del regime in vigore prima della Rivoluzione francese, ma in realtà il pensatore tedesco può anche essere considerato come il rifondatore della metafisica, colui il quale le diede fondamenti validi smantellando quelli vacillanti su cui fino ad allora era poggiata. Aristotele aveva inteso la metafisica (che lui chiamava 'filosofia prima') con una duplice valenza: in primis, per metafisica intendeva lo studio delle cose che stanno al di là del mondo fisico, al di là del mondo fenomenico avrebbe detto Kant (e il filosofo tedesco boccia l'ipotesi che una metafisica di questo genere possa essere una scienza), in secundis, però, metafisica era anche lo studio delle caratteristiche generali dell'essere (l'ontologia). Ecco allora che l'idea di una metafisica come scienza delle strutture generali dell'essere non va scartata, se però non la intendiamo come studio delle strutture dell'essere in sè (poichè il noumeno è inconoscibile), ma come studio delle caratteristiche dell'essere che appare a noi, fenomenicamente. Viene rifiutata, dunque, da Kant la metafisica come scienza delle leggi dell'essere in sè, ma viene accettata come scienza dello studio delle leggi dell'essere fenomenico, così come ci appare : del resto le leggi della realtà così come ci appare siamo noi a stabilirle, non nel senso che decidiamo noi come vada il mondo, ma nel senso che le leggi generali del funzionamento della realtà empirica come ci appare derivano dal nostro modo di concepire la realtà . Sì, perchè il nostro approccio con la realtà è soggettivo, in quanto filtrato dalle forme dell'intelletto e dei sensi, ma è oggettivo nel senso che è comune a tutti gli uomini: proprio in virtù di questa oggettività, esistono leggi generalissime della realtà riconosciute da tutti gli uomini, quale ad esempio la causalità: l'idea di fondo che nel mondo esistano rapporti di causa ed effetto rigidamente determinati, per cui ogni fenomeno è causato da un altro fenomeno ed è a sua volta causa di un terzo fenomeno. Queste legge generalissime derivano, secondo Kant, dal nostro modo di conoscere la realtà: come lo spazio e il tempo sono le forme della sensibilità, così le categorie sono le forme dell'intelletto. Proprio la causalità è una delle 12 categorie riconosciute dal pensatore tedesco ed è uno dei modi in cui l'intelletto inquadra ed organizza il materiale sensibile ricevuto filtrato dal tempo e dallo spazio. Se la causalità e le altre categorie non riguardano il mondo come è in sè, ma come ci appare, allora vuol dire che siamo in grado di descrivere un insieme di leggi generali che regolano il mondo: ne consegue che possiamo descrivere le strutture generali dell'essere fenomenico (e non noumenico, che resta inconoscibile), anzi, le possiamo conoscere con la massima certezza perchè abbiamo imposto noi tali leggi: Kant dirà che le possiamo conoscere a priori , ossia prima e indipendentemente dall'esperienza, perchè non ci derivano dall'esperienza, ma sono le leggi stesse che il nostro intelletto impone all'esperienza. Ogni cosa la pensiamo attraverso le 12 categorie (le strutture dell'intelletto) e la percepiamo attraverso lo spazio e il tempo: dunque il mondo che ci circonda è l'insieme del materiale derivatoci dall'esperienza (e che a sua volta deriva dalla cosa in sè, pensabile ma non conoscibile) e filtrato dallo spazio e dal tempo, poi riorganizzato attraverso le 12 categorie: ecco che così abbiamo quel che ci sta intorno. Il mondo quindi sarà costituito da un materiale (le sensazioni, i sensi, ecc) e dalle forme della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (le 12 categorie), che però gli abbiamo dato noi. Quando parliamo di leggi generali della realtà, quindi, non ci riferiamo al materiale della conoscenza, ma alla forma, perchè esse sono la forma della conoscenza: è evidente che la legge di causalità (una delle svariate leggi dell'essere) è una delle forme in cui inquadriamo il materiale, il quale esula dalle leggi generali dell'essere. Ne consegue che, essendo le leggi generali della realtà leggi della realtà come appare a noi, allora le leggi dell'essere fenomenico ci sono perfettamente conoscibili, proprio perchè sono le leggi generalissime che imponiamo alla realtà fenomenica a priori, prima e indipendentemente dalla realtà: ad esempio, ancor prima di entrare in una stanza vuota sappiamo a priori, senza sperimentarlo, che qualsiasi cosa che eventualmente troveremo sarà nello spazio, così come, messa per la prima volta una pentola piena d'acqua sul fuoco, a priori sappiamo che l'accensione della fiamma sarà la causa di qualcosa perchè il principio di causalità ci dice a priori che ogni cosa ne causa un'altra; solo a posteriori (dopo averlo sperimentato) però potremo effettivamente sapere che cosa causi la fiamma accessa sotto la pentola, ma a priori potevamo già dire che qualcosa l'avrebbe causato (perchè a monte rispetto all'esperienza sappiamo già che il mondo è un insieme di rapporti di causa ed effetto): lo scienziato, del resto, non si chiede se succederà qualcosa (perchè lo sa a priori), ma cosa succederà. Ecco quindi che Kant affronta le tematiche su cui si era arrovellato Hume: come si fa a tirar fuori la causalità dall'esperienza? Per Hume non era possibile: il fatto che ci siamo bruciati ogni volta che abbiam messo la mano sul fuoco, non permetteva secondo Hume di tirar fuori la causalità, perchè in fondo non c'è nulla che ci garantisca che ci bruceremo di nuovo quando metteremo la mano sul fuoco: il nostro concetto di causalità si basa, secondo il pensatore scozzese, sull'abitudine, ossia sull'essere certi che A causa B perchè ogni volta che abbiam visto A, abbiamo visto anche B. Kant dà ragione a Hume: il concetto di causalità non lo possiamo tirar fuori dall'esperienza; la causalità l'abbiamo per Kant già nella testa, ha dimensione innatistica: quale effetto deriverà da quella causa lo possiamo solo sapere dall'esperienza, ma che ci sarà una causa lo so a priori. Non è quindi il fatto che io veda due cose in rapporto di causa ed effetto che mi dà il concetto di causalità , ma è il fatto che io abbia insito in me il concetto di causalità che mi rende possibile l'esperienza, cioè il vedere le due cose in rapporto di causalità: concettualmente, prima c'è il concetto di causalità, poi l'esperienza. E, in questo capovolgimento del discorso di Hume, Kant dà per l'ennesima volta ragione a Newton: riprendendo l'immagine della stanza buia, prima c'è lo spazio, e poi, eventualmente, le cose immerse in esso: lo spazio è assoluto, a priori. Però per Kant non esiste oggettivamente lo spazio, è una forma della nostra conoscenza e proprio per questo è a priori, in quanto dipendente dalle forme sensibili soggettive. Ritornando alla questione di partenza, la metafisica (intesa non come scienza delle cose al di là del mondo fisico, ma come scienza delle leggi dell'essere) come scienza è possibile, perchè le strutture della realtà fenomenica le conosciamo perfettamente, perchè siamo noi a imporle, anzi, paradossalmente, si identificano con la nostra mente e con le sue strutture. Ed è proprio in virtù di questa identificazione che Kant impiega la parola metafisica con un terzo significato. Pubblicata la prima edizione della Critica della ragion pura (cui ne seguirà una seconda in cui dissiperà le perplessità e i fraintendimenti), scrive una versione semplificata della Ragion pura, intitolata Prolegomeni ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza : se in futuro la metafisica vorrà ancora presentarsi come scienza, bisogna prima chiarire alcuni cose; così suona il titolo. Fa subito capire che Kant non è distruttore della metafisica, ma anzi, ha un rapporto privilegiato con essa; egli si è sempre dichiarato innamorato della metafisica, e non vuole abbandonarla: per alcuni versi, come abbiamo visto, riesce anche a renderla possibile come scienza delle strutture generali della realtà (purchè sia del fenomeno). Kant arriva a definire metafisica l'indagine che lui sta conducendo, l'indagine preliminare sulle strutture della mente umana: sì, perchè se la metafisica come scienza delle leggi generali della realtà è possibile e tali leggi coincidono con la nostra mente (la realtà fenomenica è come la pensiamo), cioè le leggi della realtà sono le leggi del pensiero, ne consegue che possiamo designare col nome di metafisica anche l'analisi che noi facciamo delle strutture delle leggi del pensiero (proprio perchè esse coincidono con le leggi generali della realtà fenomenica, che chiamiamo appunto 'metafisica') . Nella Critica della ragion pura Kant fa un uso frequentissimo dell'aggettivo trascendentale , di matrice Scolastica; egli dice: ' chiamo trascendentale quella conoscenza che non si occupa degli oggetti in sè, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto questo modo deve essere possibile a priori . L'indagine non verte dunque sugli oggetti, ma sul modo in cui noi li conosciamo, proprio in quanto questo modo deve essere possibile a priori. E' la premessa e condizione di fondo perchè l'esperienza rigorosa si possa fare: debbo già avere il concetto di causalità per poterci costruire un'esperienza che sia rigorosa, sulla scia della scienza newtoniana. Ma dato che dall'esperienza non può derivarmi il concetto di causalità (come ha acutamente notato Hume), esso può derivarmi solo dall'ammissione di forme a priori in cui inquadrare l'esperienza: è solo ammettendo che esista nella struttura della mia mente il concetto di causalità che l'esperienza del mondo potrà essere rigorosa. Kant impiega il termine trascendentale, da un lato, per definire l'indagine da lui svolta sulle forme a priori della conoscenza e tutte le partizioni della Critica della ragion pura (estetica trascendentale, logica trascendentale, dialettica trascendentale), ma, dall'altro lato, per aggettivare le forme stesse della conoscenza. Usa però diverse espressioni per designare le forme della conoscenza: spesso le definisce 'pure', perchè analizzate in sè in quanto pure, depurate dall'esperienza, senza materiale sensibile all'interno: per intenderci, una cosa è lo spazio in quanto tale, un'altra cosa è lo spazio riempito di oggetti; una cosa è sapere che c'è la causalità, un'altra è la causalità applicata all'esperienza, al fuoco e alla pentola: e si intitola Critica della ragion pura in questo senso, cioè come giudizio sulla ragione depurata dall'esperienza). Altre volte Kant le definisce 'a priori' le forme, esse sono cioè condizioni che vengono prima dell'esperienza. Infine, e qui arriviamo al dunque, le chiama trascendentali: con questo termine egli intende una via di mezzo tra il trascendente platonico (le idee) e l'immanente aristotelico (le forme); da notare, però, che Kant impiega termini tipici della metafisica (materia, forma) in ambito gnoseologico, proprio in quanto concepisce la conoscenza come una costruzione che necessita di materia (i dati sensibili) e di forma (le 12 categorie più lo spazio e il tempo). Il termine trascendentale viene quindi adoperato nella sfera gnoseologica: Kant si chiede se le forme della conoscenza siano immanenti o trascendenti, se derivino dall'esperienza e se ad essa siano applicabili o se siano trascendenti e applicabili a qualcosa al di là dell'esperienza, e risponde che esse sono trascendentali, ovvero non derivano dall'esperienza, ma contemporaneamente non si può dire che siano legittimamente applicabili al di là dell'esperienza : non possono trascendere l'esperienza, ma non derivano da essa. Fin dalle prime pagine della Critica della ragion pura Kant prova ad individuare quale sia la domanda cui è tenuta a rispondere la ragion pura ed esamina, in termini generali, la risposta a tale quesito. Arriva alla conclusione che le varie domande che si era posto (sono possibili una matematica pura, una fisica pura e una metafisica, come scienze?) sono sintetizzabili in un solo interrogativo: come sono possibili dei giudizi sintetici a priori ? Kant ravvisa infatti tre diversi tipi di giudizio: i giudizi analitici a priori (quelli che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, 'relazioni tra idee' e 'verità di ragione') : sono giudizi analitici a priori quelli in cui si cerca di far emergere il predicato tramite un'analisi (ossia una scomposizione) dei concetti del soggetto; la sentenza 'il triangolo ha 3 lati' è un giudizio analitico a priori, in quanto è implicito nel concetto di triangolo il fatto di avere tre lati: nel dire che il triangolo ha 3 lati non si aggiunge qualcosa al soggetto, anzi, lo si estrae da esso. Vengono detti analitici perchè implicano un'analisi tutta interna al concetto del soggetto, e a priori perchè non derivano nè dipendono dall'esperienza, ma sono veri ancor prima di essa. E il fatto di essere a priori ne garantisce, secondo Kant, la necessità e l'universalità. Hume aveva a suo tempo insistito (e Kant gli dà ragione) che dall'esperienza in quanto tale, la necessità non viene mai fuori: sulle esperienze posso fare affermazioni, ma tali affermazioni non avranno mai carattere di assoluta necessità: dire che il fuoco causa il bruciore della mano posta su esso, è frutto dell'esperienza, ma non c'è nulla, a rigor di logica, che mi garantisca che la prossima volta che metterò la mano sul fuoco proverò bruciore; è solo un fatto di esperienza, nel senso che ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi sono bruciato, e dunque, sono convinto (per abitudine) che rimettendola, mi brucerò di nuovo. Da ciò che deriva dall'esperienza io non riesco ad avere oggettività, universalità e necessità. Gli analitici a priori hanno una loro oggettività (dire che il triangolo ha 3 lati è assolutamente corretto, universale e necessario) proprio perchè a priori. Accanto agli analitici a priori ci sono i giudizi sintetici a posteriori (che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, 'materie di fatto' e 'verità di fatto') che altro non sono se non i giudizi dell'esperienza. Sono detti a posteriori perchè vengono dopo l'esperienza, e sintetici perchè aggiungono qualcosa al concetto del soggetto. Kant si avvale di un'efficace immagine per illustrarli: i corpi. Se dire che un corpo occupa dello spazio è un giudizio analitico a priori perchè lo evinco dall'analisi del concetto del soggetto stesso (il corpo) senza bisogno di far uso dell'esperienza (perchè è già contenuto nel concetto stesso di corpo), dire che un corpo è pesante è un giudizio sintetico a posteriore perchè non rientra nel concetto di corpo l'avere un peso ma deriva, a posteriori, dall'esperienza attraverso la sintesi, cioè attraverso la costruzione di qualcosa di nuovo intorno al soggetto (il corpo). Infine Kant introduce i giudizi sintetici a priori (assenti in Hume e Leibniz) per far fronte all'aporia in cui era incappato Hume: il pensatore scozzese, infatti, si era accorto che nè i giudizi analitici a priori nè quelli sintetici a posteriori sono sufficienti. Sì, perchè gli analitici a priori sono assolutamente certi, ma assolutamente tautologici, non dicono cioè nulla di nuovo, che non fosse già presente nel soggetto; i sintetici a posteriori, invece, arricchiscono la nostra conoscenza perchè, tramite l'esperienza, ci dicono qualcosa di nuovo, che in partenza non era presente nel soggetto, ma hanno il difetto di non fornire assoluta oggettività, universalità e necessità. A questo punto, fatta crollare la metafisica, Hume si fermava perchè non riusciva a proseguire; Kant invece vuole andare avanti e si dimostra meno critico del previsto. Egli infatti accetta come scontata la validità oggettiva della scienza newtoniana e, in particolare, della conoscenza umana: non si chiede nemmeno se siano possibili aa matematica, la fisica e la conoscenza umana, ma si chiede direttamente come, in che modo, siano possibili, convinto che possibili lo siano. In altri termini, Kant è certo che sia possibile una scienza assoluta e proprio per questo non si accontenta di quanto ha detto Hume, il quale era pervenuto alla conclusione che la sostanza e la causalità fossero indimostrabili razionalmente e si basassero su una convinzione psicologica dettata dall'abitudine. La domanda kantiana 'come è possibile la conoscenza umana?' implica un'ulteriore domanda, 'come sono possibili giudizi sintetici a priori?': sì, perchè solo con gli analitici a priori e coi sintetici a posteriori non c'è via d'uscita, si ha una conoscenza certa ma tautologica con i primi, e una conoscenza ricca ma non assoluta coi secondi. E Kant vuole invece una conoscenza ricca e varia, ed ecco che tira in ballo i giudizi sintetici a priori, l'unione dei due precedenti giudizi. Del resto la scienza di Newton, di cui Kant si professa strenuo difensore, ha la pretesa di essere costituita da giudizi allo stesso tempo sintetici e a priori, perchè pretende di costruire (con l'abbinamento di esperienza ed inquadramento razionale della medesima) una scienza che contemporaneamente arricchisca di conoscenze nuove e che le fornisca non in termini probabilistici (come era per Hume), ma oggettivi, necessari e universali, validi sempre e per chiunque. In Hume questa esigenza di una conoscenza certa era assente perchè gli analitici a priori davano una conoscenza certa ma tautologica, mentre i sintetici a posteriori ne davano una ricca ma incerta: la certezza della conoscenza nel pensatore scozzese era meramente psicologica, basata sull'abitudine (ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi son bruciato, quindi in base a questa 'abitudine' sono convinto che se la rimetto mi ribrucio), ed esulava del tutto dalla razionalità. E proprio la razionalità della conoscenza è l'obiettivo cui mira Kant: la certezza della conoscenza non deve solo essere psicologica (basata sull'abitudine), ma fondata in modo preciso. Ne consegue che i giudizi che fanno davvero la scienza devono per forza essere, al tempo stesso, sintetici (devono dirmi qualcosa di nuovo) e a priori (non derivati dall'esperienza , ma ad essa precedenti, puri, non soggetti ad essere confermati e smentiti il giorno dopo). D'altronde Hume sbagliava agli occhi di Kant già nel ritenere che i giudizi matematici fossero analitici, mere relazioni tra idee, del tutto tautologici: per Hume svolgere un'espressione algebrica voleva dire prendere il concetto, analizzarlo, ed estrarne le conseguenze, con l'ovvio risultato che l'intera matematica finiva per essere nient'altro che un'enorme tautologia. Per Kant, invece, i giudizi matematici sono inevitabilmente sintetici: quando mi trovo di fronte all'espressione 7+5=12 non è vero che analizzo i concetti di 7 e di 5 e ne estraggo il 12 come relazione tra idee; al contrario, 7+5 è un materiale di lavoro, un'indicazione dell'operazione che devo svolgere. Ne è un fulgido esempio il fatto che i bambini contino servendosi di oggetti materiali, come ad esempio le palline: le raggruppano e le affiancano una alla volta e, una volta sommate, ottengono il risultato. Ed è quello che, secondo Kant, facciamo anche noi mentalmente. Ora, è evidente che un'operazione di questo genere non rientra nell'ambito delle relazioni tra idee, dei giudizi analitici a priori. Si tratta di un'operazione sintetica, di costruzione (e non di analisi), ma nessuno si sognerebbe per questo di considerarla a posteriori, come derivata solo e soltanto dall'esperienza, sebbene si usino materialmente delle palline: ciascuno di noi considera le verità matematiche del tipo 7+5=12 come assolutamente certe, e le certezze (come visto) derivano dagli analitici a priori. Del resto le verità matematiche non possono derivare dall'esperienza, nè tantomeno essere da essa smentite: se un prestigiatore infila prima 7 e poi 5 palline in un recipiente e, mostrandoci il contenuto, non vediamo 12 palline, abbiamo la certezza che c'è stato un trucco, nessuno penserebbe mai che possano essere più o meno di 12. Questo vuol dire che se anche l'esperienza ci fa vedere che 5+7 non dà 12, noi continuiamo ad essere certi che 7+5 dia 12; tutto questo dimostra l'a-priorità (sono giudizi certi, non derivati nè sconfessabili dall'esperienza) e la sinteticità (sono giudizi costruiti nel corso della dimostrazione). E' dunque possibile una matematica pura, certa, razionale che funziona in base ai giudizi sintetici a priori; ma è possibile anche una fisica pura, basata sui giudizi sintetici a priori? Kant dice di sì e lo dimostra avvalendosi del principio della causalità. Esso consiste nel sapere che ogni fatto è causato da un altro fatto, ed è lui stesso causa di un altro: Hume aveva detto che tale principio non era un giudizio nè analitico a priori (nel concetto di causa non è insito quello di effetto) nè sintetico a posteriori (se, messa la mano sul fuoco, mi brucio una o due volte non ve la metterò più, per via di una certezza psicologica, derivata dall'abitudine che ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi sono bruciato e ho maturato la certezza che il bruciore è causato dal fuoco; ma non posso avere la certezza razionale che il fuoco causi il bruciore perchè non c'è nulla che mi garantisca che la prossima volta mi brucerò la mano mettendola sul fuoco). Ma Kant non è d'accordo e sostiene che anche la causalità sia un giudizio sintetico a priori: sintetico perchè nel concetto di causa non è implicito quello di effetto (non è dunque un analitico), ma a priori perchè ancor prima dell'esperienza so già che la mia azione causerà qualcosa: così lo scienziato si chiede non se la sua azione sortirà un effetto, ma quale effetto, poichè nella sua testa è già presente la certezza che il fatto è stato causato e sarà causa di qualcosa (ma di cosa?): sarà poi l'esperienza che mi dirà di cosa sarà causa, riempiendo questa forma della conoscenza insita nel mio intelletto. Anche la fisica, dunque, nei suoi princìpi generalissimi, è costituita da giudizi sintetici a priori, non derivati dall'esperienza: anzi, ne sono il fondamento, perchè posso indagare attraverso l'esperienza su quale causa ha sortito quell'effetto proprio perchè ho già nella mia testa il concetto di causalità. I giudizi fisici sono dunque sintetici (perchè non analitici), e a priori (perchè non derivati dall'esperienza: l'idea che un fatto ne causa un altro è già presente in me, ancor prima che io lo constati empiricamente). La matematica e la fisica ci danno dunque conoscenze nuove (sono giudizi sintetici) e certe (sono giudizi a priori, non smentibili dall'esperienza). Resta da rispondere alla domanda: 'come, in che modo, sono possibili i giudizi sintetici a priori?' La risposta Kant la fornisce sostanzialmente in quella che lui definisce ' rivoluzione copernicana del pensiero '. Per spiegare il movimento dei pianeti, Copernico aveva cambiato il punto di vista, trasferendolo dalla Terra al Sole e aveva in questo modo dato un'interpretazione corretta; anche Kant, sulle orme di Copernico, attua un radicale cambiamento di punto di vista, convinto che guardando le cose dalla nuova posizione esse risultino più facilmente spiegabili. La rivoluzione che Kant attua, però, è meramente gnoseologica: la maniera tradizionale di interpretare la conoscenza è sempre stata quella di concepirla come un'assimilazione del soggetto all'oggetto, quasi come se la mente fosse uno specchio che diventa uguale alla realtà che su essa viene riflettuta o come se fosse la cera che prende la forma del sigillo (l'oggetto) impressole. Questa concezione era valida sia per gli empiristi sia per gli innatisti; il ragionamento che spinge Kant a respingere questo approccio con la conoscenza e a stravolgere il punto di vista è questo: se la conoscenza deve essere rigorosa (come pretende la scienza newtoniana e come crede Kant), ebbene Hume ci ha insegnato che non può esserlo nell'esperienza, perchè negli oggetti non può essere ravvisato tale rigore e l'esperienza sarà sempre e comunque modificabile da ulteriori esperienze . Ora, per Hume la conoscenza poteva essere solo probabilistica, proprio perchè nell'oggetto non vi è il rigore auspicato dalla scienza; ma Kant vuole che essa sia rigorosa, e di conseguenza, non potendo trovare tale rigore nell'oggetto, sposta il punto di vista sul soggetto. La certezza della conoscenza la si può avere solo ipotizzando che essa non giri attorno all'oggetto, ma al soggetto: dunque non sarà più il soggetto ad essere modificato dall'oggetto, ma, viceversa, sarà l'oggetto ad essere modificato dal soggetto. In questo modo si spiega perchè per Kant il carattere oggettivo (universale e necessario) della conoscenza derivi dal suo carattere soggettivo: nella nostra testa abbiamo strutture conoscitive soggettive, ma essendo esse uguali in tutti gli uomini, garantiscono che la conoscenza sia oggettiva, cioè universalmente valida. Ne consegue che dobbiamo ipotizzare che quel che conosciamo è un'organizzazione che noi uomini impartiamo al materiale conoscitivo datoci dall'esperienza, cosicchè non conosciamo le cose come sono in sè, ma le conosciamo tutti allo stesso modo. Dunque è il soggetto a costruire l'oggetto , e non viceversa: è il soggetto che riceve il materiale dell'esperienza filtrato dal tempo e dallo spazio e che lo costruisce in base alle sue forme mentali. Tuttavia, Kant non è certo un idealista alla Berkeley, bensì è convinto che il materiale della conoscenza derivi dalla realtà (dalla cosa in sè), anche se filtrato dalle forme sensibili e da quelle intellettuali. Dunque l'oggetto è costruito dal soggetto, e proprio in virtù di questo processo costruttivo si tratta di una conoscenza oggettiva (universale). Gli idealisti di inizio '800 diranno che la realtà esiste solo nella misura in cui è prodotta dal soggetto: Kant non vuol certo dire questo, per lui le cose non le creo io, esistono indipendentemente da me come cose in sè; io non le produco, ma le costruisco per me; e gli altri le costruiscono come me perchè hanno strutture mentali analoghe. La posizione di Kant, come accennato, fu erroneamente intesa come berkeleyana, ma Kant spiegò di non essere affatto idealista, sottolineando che la cosa in sè esiste indipendentemente ed è immodificabile: il mio processo di costruzione dell'oggetto riguarda il fenomenico, non il noumeno; del resto costruisco l'oggetto con il materiale dell'esperienza in ambito fenomenico, e non dal nulla (come era e sarà per gli idealisti). Esaminiamo ora la partizione della Critica della ragion pura : dicevamo che essa è caratterizzata da un'estrema, quasi esasperata, sistematicità, tanto da voler sembrare più sistematica di quanto non sia in realtà: alcune problematiche del pensiero kantiano, se si entra nel dettaglio scavando a fondo, si scopre che non sono così ben chiarite come vorrebbe far credere il pensatore tedesco. La Critica della ragion pura si divide in: DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI e DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO. Nella Dottrina degli elementi Kant vorrebbe, come aveva fatto Locke, individuare gli elementi costitutivi della ragion pura; nella Dottrina del metodo, invece, vuole dare, in base all'analisi degli elementi della ragion pura, un metodo all'operatività della ragione. In realtà, poi, la Dottrina del metodo occupa solo un sesto dell'opera perchè, descrivendo gli elementi nella Dottrina degli elementi, finisce per descriverne anche il funzionamento, che in teoria avrebbe dovuto spiegare solo nella Dottrina del metodo. La Dottrina degli elementi si suddivide, a sua volta, in ESTETICA TRASCENDENTALE e LOGICA TRASCENDENTALE ; e quest'ultima, a sua volta, si divide in ANALITICA TRASCENDENTALE e DIALETTICA TRASCENDENTALE. Infine, l'Analitica si divide in ANALITICA DEI CONCETTI e ANALITICA DEI PRINCIPI. Riassumiamo la partizione in uno schema:

   

DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI - DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO: la DOTTRINA DEGLI ELEMENTI si divide poi in

    1 ) ESTETICA TRASCENTALE - LOGICA TRASCENDENTALE : la LOGICA si divide poi in
    2 ) ANALITICA TRASCENDENTALE - DIALETTICA TRASCENDENTALE : l'ANALITICA si divide poi in
    3 ) ANALITICA DEI CONCETTI - ANALITICA DEI PRINCIPI



Esaminiamo ora l'Estetica e la Logica: la parola 'estetica' viene intesa nella Critica della ragion pura in modo singolare: a quei tempi si stava diffondendo in ambito filosofico l'uso della parola estetica come la intendiamo noi oggi, come filosofia che riguarda la categorie del bello; in questa accezione la usa anche Kant stesso nella Critica del giudizio , dove si occupa appunto del bello e del brutto. Ma nella Critica della ragion pura, dove non si occupa nè del bello e del brutto ( Critica del giudizio ) nè del bene e del male ( Critica della ragion pratica ), bensì si occupa del vero e del falso, per estetica egli intende, riprendendo il termine nel suo significato etimologico, 'sensazione '. Dunque l' Estetica trascendentale si occuperà dell' aisqhsis , della parte sensibile della conoscenza, quella parte cioè che si occupa della conoscenza che viene prima di quella intellettuale; 'trascendentale' perchè si occupa delle forme sensibili presenti in noi in modo innato, ma applicabili solo all'esperienza. La Logica trascendentale si occupa invece dell'intelletto, del logoV ,dell'elaborazione mentale dei dati sensibili compiuta dall'intelletto; 'trascendentale' perchè studia le forme dell'intelletto. A questo punto, poi, Kant distinguerà tra un uso legittimo e un uso illegittimo dell'intelletto: il grande errore della metafisica, ai suoi occhi, risiede nella pretesa di usare l'intelletto anche dove non c'è disponibilità di materiale sensibile; dei sensi, invece, non si può fare un uso illegittimo, in quanto essi non possono andare al di là di nulla. Con le categorie dell'intelletto, invece, ci si trova di fronte a forme non derivate dall'esperienza, ma l'intelletto si illude di poterle usare al di là dell'esperienza proprio in quanto non derivano da essa. La dimostrazione stessa dell'esistenza di Dio poggia su questa falsa pretesa: a furia di applicare il principio di causalità nel mondo, l'intelletto finisce per volere adoperare tale principio (che non deriva dall'esperienza) anche al di là di essa. E così arriva ad applicare il principio di causalità a Dio stesso. Ecco allora che quando l'intelletto vuole costruire conoscenze senza l'apporto dell'esperienza, finisce per creare concetti vuoti, privi di contenuti empirici. Proprio dai due diversi usi, legittimo e legittimo, che si possono fare dell'intelletto deriva la suddivisione della Logica trascendentale in Analitica trascendentale (che studia l'uso legittimo delle categorie e dell'intelletto, ovvero in abbinamento all'esperienza) e Dialettica trascendentale (che invece studia l'uso illegittimo dell'intelletto, il risultato a cui tale uso porta e le precauzioni da prendere per prevenirlo). Nell'Analitica trascendentale si serve della parola 'intelletto' per designare l'intelletto impiegato nel suo uso legittimo, mentre nella Dialettica trascendentale designa col nome di 'ragione' l'intelletto impiegato in modo illegittimo, in modo meta-empirico. Ecco dunque che il termine 'ragione', che nel titolo Critica della ragion pura era sinonimo di 'mente', passa qui a caricarsi di un valore negativo. Kant desume da Aristotele i termini Analitica (l'uso legittimo dell'intelletto) e Dialettica (l'uso illegittimo dell'intelletto): lo Stagirita, infatti, definiva 'analitica' la sua logica, mentre designava col termine 'dialettica' la logica più debole, quella che partiva da basi incerte. Con Kant, è importante ricordarlo, si assiste ad una metamorfosi della nozione di 'intelletto' ( verstand in tedesco): a partire da lui, infatti, esso viene inteso come la facoltà che mira a conoscere il finito, mentre la ragione ( vernunft in tedesco) è intesa come la facoltà che mira a conoscere l'infinito . Tuttavia, se il puntare all'infinito della ragione per Kant è del tutto illegittimo, esso diventa legittimo per i Romantici e, soprattutto, per Hegel. Esaminiamo ora le varie parti della Critica della ragion pura , partendo dall' ESTETICA TRASCENDENTALE : essa riguarda la sfera sensibile della conoscenza, le cui forme sono lo spazio e il tempo. Tra le varie considerazioni che si possono subito fare, la prima è che spazio e tempo non si trovano sullo stesso livello: il tempo è, secondo Kant, più importante perchè mentre lo spazio è esclusivamente la forma della sensibilità esterna (le cose che percepisco fuori di me), il tempo è la forma sia della sensazione interna (la percezione dei miei stati interni), sia della forma esterna: quando percepisco nello spazio qualcosa che è a me esterno, paradossalmente esso viene interiorizzato ed io lo percepisco dentro di me, sotto l'influsso del tempo. Infatti, percepiamo la successione dei fenomeni fisici che avvengono nello spazio proprio in virtù dell'azione del tempo, entro il quale li percepiamo. Kant definisce sia lo spazio sia il tempo con il nome di intuizioni pure , ossia intuizioni a priori, sganciate dall'esperienza: se per noi 'intuizione' dà l'idea di una conoscenza che scavalca la ragione (e così è anche per i Romantici), storicamente (dal Medioevo fino a Kant) per intuizione si intende qualsiasi forma di conoscenza immediata e proprio perchè immediata Kant non la concepisce come uno scavalcamento della ragione, ma semplicemente come conoscenza sensibile priva di mediazioni. Ecco dunque che l'oggetto dei sensi è l'intuizione, dal momento che colgo l'oggetto senza mediazioni . Resta però da chiarire quali siano per Kant gli oggetti dei sensi. Un libro, per lui, non è un oggetto dei sensi, ma è già il risultato di un processo di unificazione di dati semplici (il blu, la forma parallelepipedo, la composizione atomica, ecc); il libro è dunque un oggetto di esperienza, e non dei sensi; oggetti dei sensi saranno invece il blu del libro o la forma parallelepipedo del libro, quelle che Locke aveva chiamato 'idee semplici' e che unificate con l'intelletto mi danno appunto il libro. Le intuizioni, dunque, vengono secondo Kant ricevute (e qui dà ragione a Locke) dalle nostre facoltà sensibili in modo puramente passivo: in questa parte della conoscenza, qualcosa che esiste fuori ed indipendentemente da noi agisce in qualche modo sui nostri organi di senso trasmettendoci alcune sensazioni, che sono il risultato dell'azione dell'oggetto sul soggetto. Ed è in questo modo che percepisco in modo del tutto passivo il blu del libro, come azione dell'oggetto libro su di me, soggetto percipiente; tuttavia l'oggetto (la cosa in sè) io non lo conosco, proprio come per Locke non potevo conoscere la sostanza. Tuttavia, se per Locke non potevo conoscere la 'cosa in sè' (che lui chiamava 'sostanza') ma di essa potevo conoscere le qualità che le inerivano (il blu, ad esempio), per Kant non posso nè conoscere la cosa in sè, nè le qualità che le ineriscono: il blu che ricevo passivamente con gli organi di senso, appartiene al mondo fenomenico, non alla cosa in sè, lo ricevo cioè filtrato dallo spazio e dal tempo. La passività con cui riceviamo i dati sensibili non implica che li si ricevano non filtrati dalle forme della sensibilità (spazio e tempo). L'esempio che porta Kant in merito è quello delle lenti colorate. Immaginiamo di avere sugli occhi delle lenti amovibili: riceviamo i dati sensibili dall'esterno ma, non potendoci togliere le lenti, li vediamo irrimediabilmente modificati, sotto colorazioni che non appartengono a loro. Così è per lo spazio e il tempo: tutte le cose che vediamo e percepiamo, sono irrimediabilmente filtrate dallo spazio e dal tempo, i quali ci impediscono di vedere la cosa in sè, proprio come le lenti non ci fanno vedere le cose come sono in realtà. Tuttavia Kant non si dimostra poi molto critico e dà per scontato che lo spazio e il tempo non appartengano alle cose in sè: non c'è nulla, in fin dei conti, che ci vieti di ritenere che essi appartengano alla cosa in sè. Kant, riscontrando che spazio e tempo sono forme a priori della nostra conoscenza (ossia li abbiamo nella testa ancor prima di fare una qualsivoglia esperienza) , si sente autorizzato a sostenere che non appartengano alla cosa in sè, mentre in realtà si sarebbe legittimamente autorizzati a dire che potrebbero non appartenerle come appartenerle; quando del resto ho sugli occhi delle lenti verdi, non c'è nulla che mi autorizzi a dire che quello che per via delle lenti vedo verde, poi in realtà non sia per davvero verde: non posso saperlo. Fatta questa precisazione, proseguiamo nell'analisi dell'Estetica: spazio e tempo sono dunque intuizioni pure, cioè oggetti di conoscenza immediata e a priori. Per Kant, sarà invece conoscenza mediata quella riguardante tutto ciò che è il risultato di un'unificazione operata dall'intelletto: il libro (unificazione del colore blu alla forma parallelepipedo, ecc), la casa (unificazione del colore giallo alla forma parallelepipedo), e così via. Sarà invece una conoscenza immediata quella che non implica un'unificazione dell'intelletto.Che esistano intuizioni empiriche, singoli dati immediati dell'esperienza (come la percezione del blu) è evidente; le intuizioni, è altrettanto evidente, sono sempre dati singoli e proprio in questo si distinguono dai concetti, i quali implicano che ci sia un insieme di dati unificati sotto un comune denominatore, sotto un unico 'cappello'. Per esempio, si può citare il concetto di uomo: che rapporto sussiste tra il concetto di uomo e i singoli uomini? Kant definisce questo rapporto di ' sussunzione ' spiegando che i singoli uomini sono sussunti sotto il concetto di uomo; essi non fanno parte di tale concetto, ne sono solo esempi, ossia casi particolari. Il concetto di uomo, invece, è generale, una percezione che mi permette di pensare contemporaneamente tutti gli uomini, che di esso sono casi particolari. Ma la domanda che si pone Kant a questo punto è: lo spazio e il tempo sono concetti? No, sono intuizioni, ma non sono empirici, bensì a priori: sono dunque intuizioni a priori. Non sono nell'esperienza, ma la fondano; del resto, Kant si chiede, che rapporto c'è tra i singoli spazi e lo spazio? Forse che, come nel caso del concetto di uomo, gli spazi sono singoli casi dello spazio? No, di certo, ne sono parti. Il che vuol dire che lo spazio e il tempo non sono concetti, ma realtà singole divisibili in parti. Ma proprio in quanto realtà singole, sono intuizioni, non derivate dall'esperienza, ma a priori (sono cioè puri). Detto questo, Kant allarga il discorso e dice che lo spazio e il tempo sono i fondamenti, rispettivamente, della geometria e dell'aritmetica , riportandosi all'assillante quesito: come sono possibili una matematica e una fisica pure? L'aritmetica e la geometria, spiega Kant, sono possibili proprio perchè esistono lo spazio e il tempo come intuizioni pure: abbiamo detto che i giudizi matematici sono a priori, ma sintetici, cioè dicono cose assolutamente certe e 'nuove', arricchenti. Lo stesso vale per il tempo e per lo spazio: essendo puri (a priori), tutto ciò che sarà fatto nello spazio e nel tempo godrà di assoluta certezza e rigore. Se fossero concetti (e non intuizioni), potrei da essi derivare analiticamente (cioè come relazione tra idee, senza costruzioni) alcune cose, così come dal concetto di uomo posso derivare che i singoli uomini (supponendo di non averne mai visto uno) avranno le braccia, le gambe e gli occhi: non saprò di che colore saranno gli occhi, ma saprò con certezza, estraendolo dal concetto stesso di uomo, che li avranno. Quella riguardante i concetti è una concezione a priori, ma analitica: conosco il concetto di uomo prima di aver visto un uomo in carne ed ossa, tuttavia quel che tale concetto mi dice, pur dicendomelo con estremo rigore, non è arricchente, è una tautologia. L'aritmetica e la geometria, invece, per Kant non sono deduttive e tautologiche, non tiro fuori concetti da concetti: quando conto, costruisco il numero, così come costruisco le figure geometriche. L'aritmetica è costruita nel tempo (prendo mentalmente l'unità e l'aggiungo), mentre la geometria è costruita nello spazio (traccio figure in esso), ma anche nel tempo: il che implica che si possa applicare l'aritmetica alla geometria; lo posso fare proprio perchè hanno in comune l'essere nel tempo. Il fatto che spazio e tempo siano intuizioni e non concetti permette a Kant di applicarli all'aritmetica e alla geometria: se fossero stati concetti, cioè dotati di analiticità oltrechè di a-priorità, sarebbero stati inaccostabili all'aritmetica e alla geometria, caratterizzate dalla sinteticità. Oltre ad aver spiegato che sono possibili una matematica e una fisica pure come giudizi sintetici a priori, Kant risponde anche all'interessante quesito: come mai possiamo applicare la matematica al mondo fisico ? Se i Pitagorici e Platone avevano risposto a tale domanda sostenendo che la matematica è applicabile al mondo fisico perchè i numeri (esistendo in sè e non essendo il frutto della nostra immaginazione) fanno parte di tale mondo, e se con Galileo fisica e matematica erano diventate un binomio indisgiungibile (tanto da diventare impossibile una fisica senza matematica, come invece la intendeva Aristotele), Kant, nell'attuare la sua riforma copernicana, inverte il discorso: la matematica, la geometria e l'aritmetica sono costruite nelle forme pure della mia conoscenza, ma essendo il mondo da me conosciuto puramente fenomenico (filtrato cioè dallo spazio e dal tempo), non c'è nulla di strano se applico ad esso la matematica e la geometria, che io stesso ho costruito nello spazio e nel tempo: il mondo fenomenico al quale applico la matematica è inquadrato nello spazio e nel tempo, proprio come la matematica e la geometria. E' ovvio che la matematica sia applicabile al mondo fenomenico; tuttavia non posso sapere se essa lo sia al mondo noumenico, della cosa in sè. Fatte queste considerazioni, Kant asserisce che tempo e spazio sono ' empiricamente reali, ma trascendentalmente ideali ', riprendendo la distinzione tra oggettivo e soggettivo: tempo e spazio appartengono oggettivamente alla realtà, purchè la concepiamo in termini fenomenici: essi, cioè, appartengono alle cose viste fenomenicamente, non alle cose in sè. Ecco perchè se parliamo di cose fenomeniche, spazio e tempo sono reali, esistono davvero, mentre se parliamo di cose in sè, essi sono 'ideali', cioè non sono veri, non esistono. Spazio e tempo, come Kant ha già ampiamente illustrato, appartengono al soggetto e al mondo fenomenico che il soggetto si crea. Passiamo ora all'analisi dell' Analitica trascendentale dei concetti : la Logica (il cui studio verte sull'intelletto) si suddivide in Dialettica (uso illegittimo dell'intelletto) e Analitica (uso legittimo dell'intelletto); e quest'ultima è incentrata sul tentativo di rispondere alla domanda 'come è possibile una fisica pura?'. Se la sensibilità riceve passivamente i dati sensibili, all'intelletto spetta unificarli: pensare vuol dire unificare. Se la sensibilità ha a che fare con le intuizioni (pure, come lo spazio e il tempo, ed empiriche, come i dati che riceviamo nello spazio e nel tempo), l'intelletto deve invece vedersela con i concetti, anch'essi suscettibili di a-priorità o di empiricità. L'intelletto si distingue dai sensi, in primo luogo, per il fatto di essere una funzione attiva e non immediata: unifica i dati ricevuti passivamente dai sensi. Saranno concetti empirici quelli che nascono dall'unificazione di dati dell'esperienza: ad esempio, il concetto di uomo deriva dall'unificazione di dati sensibili, esula dall'a-priorità. Il concetto di uomo è un concetto generale, dato dall'unificazione di tanti uomini in un concetto unico, di cui tutti gli uomini sono casi particolari; ma accanto a questo tipo di concetto generale, Kant riconosce anche come concetto l'uomo in carne ed ossa che mi sta davanti. A differenza di Platone (per cui 'concetto' era l'uomo pensato, mentre l'uomo che mi trovo davanti era un dato della sensibilità), Kant riconosce come concetti sia l'uomo pensato (concetto generale), sia l'uomo materiale che mi sta davanti (concetto particolare) , in quanto anch'esso è il frutto di un'unificazione di dati sensibili (il colore della pelle, degli occhi, la forma a uomo, ecc) in un concetto (l'uomo). In altri termini, quel che mi è dato nei sensi sono solo i singoli dati sensibili (il colore della pelle, degli occhi, la forma 'uomo', ecc), mentre l'uomo che mi sta davanti è già l'unificazione elaborata dall'intelletto di tali dati sensibili. Ecco dunque che per Kant l'intelletto può tanto unificare dati sensibili (per darmi l'uomo che mi sta davanti) quanto concetti (i vari uomini che ho visto per darmi il concetto generale di uomo). Accanto ai concetti empirici vi sono i concetti puri , che Kant chiama anche 'categorie' o 'forme dell'intelletto': essi sono le forme attraverso le quali unifichiamo i dati della sensibilità. Così come le intuizioni sono i filtri attraverso i quali filtriamo passivamente i dati sensibili, le categorie sono 'scatole vuote' in cui unifichiamo i dati arrivati all'intelletto attraverso il filtraggio passivo delle intuizioni. La categoria di sostanza sarà quella forma dell'intelletto in cui unifico i singoli dati sensibili per ottenere il libro che fenomenicamente mi sta davanti; lo stesso valga per la categoria della causalità. Dunque, con lo spazio e col tempo i dati sensibili venivano passivamente ricevuti, con le categorie vengono invece unificati : se spazio e tempo erano filtri passivi, le categorie (o 'concetti puri') sono delle 'funzioni', degli strumenti con cui l'intelletto lavora: anzi, esso non è altro che l'insieme delle categorie. Sì, perchè l'intelletto unifica i dati in tanti modi e ciascuno di essi è proprio una delle 12 categorie. Interessante è poi il termine 'categoria', che Kant (come con i termini 'analitica' e 'dialettica') mutua da Aristotele, pur cambiandone il significato: lo Stagirita illustrava le categorie e le loro funzioni sia nella Metafisica sia nella Logica, in quanto convinto che le strutture della realtà e del pensiero fossero identiche (forse proprio perchè il nostro intelletto fa comunque parte della realtà ed è soggetto alle sue leggi); Aristotele spiegava, infatti, il principio di non-contraddizione spiegando ora che non è possibile che la stessa cosa abbia due caratteristiche contradditorie, ora che non è possibile che il pensiero predichi contemporaneamente due cose opposte, sottolineando appunto l'identità tra strutture dell'intelletto e della realtà. Ecco allora che per lui le 10 categorie erano i 10 modi fondamentali dell'essere, ma anche i 10 modi fondamentali di predicare l'essere, di dire che qualcosa è (il termine 'categoria', del resto, vuol proprio dire 'predicato'). Ora, Kant è pienamente d'accordo con Aristotele sul fatto che le strutture della nostra mente coincidano con quelle della realtà , ma, a differenza dello Stagirita, lo dimostra razionalmente, servendosi sempre dell'inversione di rapporti creata dalla rivoluzione copernicana. Il mondo fenomenico che noi conosciamo, spiega Kant, è costruito da noi attraverso il nostro pensiero (tramite le categorie), ed è dunque ovvio che le leggi del nostro pensiero saranno le stesse che governano il mondo. Le 12 categorie che determinano le leggi del nostro pensiero passano così a determinare anche le leggi del mondo fenomenico: esse diventano dunque al tempo stesso strutture fondamentali del nostro pensiero e della realtà (fenomenica). Ecco dunque che la categoria di sostanza è una forma (un 'concetto puro', a priori, che sta prima dell'esperienza) della mia mente, ma nel mondo fenomenico vi sono sostanze. A questo punto, Kant introduce due forme di deduzione delle categorie, la 'deduzione metafisica' (una sorta di rassegna delle categorie) e la 'deduzione trascendentale' (una sorta di discussione delle categorie). Non bisogna farsi trarre in inganno dalla parola 'deduzione': se nella 'deduzione metafisica delle categorie' riveste il significato più ovvio e più familiare di derivazione di dati di fatto da altri dati di fatto, essa viene invece ad assumere, nella 'deduzione trascendentale delle categorie', un significato desueto, di stampo giudiziario: la deduzione trascendentale è cioè la dimostrazione non di un fatto ( quid facti ), ma della legittimità di un fatto ( quid juris ). Non c'è nulla da dimostrare sul fatto che io applico le categorie (le forme dell'intelletto) al materiale sensibile, è ovvio: se vedo la sostanza libro davanti a me è proprio in virtù dell'unificazione dei dati sensibili attraverso le categorie; occorre piuttosto dimostrare se sia un'azione legittima o meno. Ed ecco dunque che affiora la domanda centrale della Critica della ragion pura : la nostra conoscenza ha un valore o è una grande illusione? L'applicazione delle forme mentali (categorie) alla realtà è legittima o no? La ragione è chiamata a giudizio a difendere la propria attività. Nel dimostrare come e perchè è legittimo l'uso delle categorie nell'ambito dell'esperienza, Kant dimostrerà anche, implicitamente, che l'applicazione di tali categorie al di là dell'esperienza è illegittima. E così Kant, dopo aver in precedenza spiegato che è possibile una 'matematica pura' tramite la formulazione di giudizi sintetici a priori, risponde positivamente alla domanda 'come è possibile una fisica pura?' : la scienza newtoniana è applicabile alla realtà ed è assolutamente certa perchè le leggi del nostro pensiero sono le stesse che governano la realtà . Tuttavia Kant risponde negativamente alla domanda 'è possibile una metafisica pura?' : le categorie, pur essendo a priori (non derivandoci cioè dall'esperienza) non sono applicabili al di là di essa: ne consegue che una metafisica pura è inattuabile. Detto questo, Kant dà per scontato che le forme dell'intelletto, in quanto funzioni unificatrici, ci permettano di esprimere giudizi, ossia di formulare proposizioni: i giudizi, infatti, non sono altro che un atto di unificazione. Quando dico 'la penna è sul tavolo', ho unificato con l'intelletto la sostanza penna e il fatto di essere sul tavolo. Dunque in ogni giudizio entra in gioco, tramite le categorie, l'intelletto. Ora Kant ritiene che le categorie in azione nei giudizi siano le stesse che costituiscono gli oggetti, quasi come se le categorie agissero in due modi diversi: se dico 'l'uomo è un animale', è chiaro che sto facendo una predicazione relativamente alla sostanza 'uomo'; però la categoria di sostanza entra in gioco anche nel costituire il singolo oggetto, il libro ad esempio, dato dall'unificazione dei dati sensibili. In altre parole, per Kant ogni categoria ha due ruoli, uno di tipo trascendentale (della categoria di sostanza sarà il costituire il libro come oggetto), l'altro di tipo logico (della categoria di sostanza sarà il cosituire i giudizi di sostanza , come 'l'uomo è un animale'). Siccome le categorie hanno due ruoli distinti, ne deriva che se mi pongo la domanda 'quali e quante sono le categorie', per rispondere basterà individuare i tipi di giudizio: e ad ogni tipo di giudizio corrisponderà, ovviamente, una determinata categoria. Per ogni modalità di giudizio ci sarà una categoria : ecco che questa è la deduzione metafisica delle categorie. Ci sarà dunque una tavola avente 12 giudizi, affiancata da un'altra avente 12 categorie.
   

TAVOLA DEI GIUDIZI:

    1 ) QUANTITA' : universali , particolari , singolari
    2 ) QUALITA' : affermativi , negativi , infiniti
    3 ) RELAZIONE : categorici , ipotetici , disgiuntivi
    4 ) MODALITA' : problematici , assertori , apodittici

   

TAVOLA DELLE CATEGORIE:

    1 ) QUANTITA' : unità , pluralità , particolarità
    2 ) QUALITA' : realtà , negazione , limitazione
    3 ) RELAZIONE : inerenza e sussistenza ( substantia et accidens ) , causalità e dipendenza ( causa ed effetto ) , comunanza ( azione reciproca tra agente e paziente )
    4 ) MODALITA' : possibilità-impossibilità , esistenza-inesistenza , necessità-contingenza

Ma perchè sono divisi in 4 gruppi? Ad ogni tipo di giudizio corrisponde una categoria, abbiam detto, dunque dovrebbero essere 12 gruppi, e non 4. In realtà, ogni giudizio appartiene non ad una tipologia di giudizio, ma a 4 tipologie di giudizio; ogni giudizio avrà dunque la sua caratteristica relativa, rispettivamente, alla quantità, alla qualità, alla relazione e alla modalità. Ogni singolo giudizio appartiene contemporaneamente a 4 tipologie diverse a seconda se lo guardiamo dal punto di vista della quantità, della qualità, della relazione o della modalità. In concreto, vuol dire che il singolo giudizio 'l'uomo è un animale' rispetto alla categoria della quantità è un giudizio universale (tutti gli uomini sono animali, non alcuni), sotto la categoria della qualità è affermativo (mi dice cosa è, non cosa non è), sotto la categoria della relazione non è ipotetico o disgiuntivo (non mi dice 'l'uomo o è questo o è quell'altro'). Ogni giudizio avrà dunque 4 caratteristiche che lo definiscono. Le categorie sono in azione nei giudizi: in essi l'intelletto unifica appunto grazie alle categorie. Per chiarire in che senso i giudizi contengano le categorie, è opportuno soffermare l'attenzione sui Prolegomeni : in essi Kant distingue tra giudizi di sensibilità e giudizi empirico-oggettivi . Prendendo in mano una penna e dicendo che in questo momento ho una serie di percezioni (colore, forma, ecc) e che contemporaneamente ho anche la sensazione di peso, mi trovo di fronte ad un giudizio di sensibilità; ho davanti a me due gruppi di percezione (la forma, il colore, ecc da una parte, e il peso, dall'altra) e li percepisco contemporaneamente. Se invece dico che la penna è pesante, le cose cambiano: mi trovo di fronte ad un giudizio empirico-oggettivo. Certo, il 'materiale' rimane lo stesso, perchè appunto i dati sono gli stessi (l'insieme di percezioni che danno la penna più l'insieme di quelle che danno il peso); tuttavia diversa è la forma. Nel primo caso (giudizio di sensibilità) sto facendo affermazioni su di me, soggettive (sono io che percepisco questo e quest'altro), che non riguardano gli altri; nel secondo caso (giudizio empirico-oggettivo), invece, vi è un carattere oggettivo, in quanto il riferimento è alla penna (e non al soggetto) e riguarda oggettivamente tutti (la penna è infatti pesante per tutti). Dunque, pur essendo identica la materia, cambia la forma del giudizio; e questo cambiamento è dovuto al fatto che in un giudizio è presente la categoria, nell'altro no. Infatti, dire che la penna è pesante è un giudizio di categoria sotto la forma 'substantia et accidens' (mi dice che la penna è e ne predica la pesantezza), mentre dire che io percepisco il colore e la forma e poi la pesantezza è un giudizio che esula dall'oggettività, proprio perchè sganciato dalle categorie. Sono le categorie stesse, infatti, proprio perchè presenti a priori nella mente di tutti, che trasformano in oggettivo quel che è soggettivo. E, venendo al dunque, la deduzione metafisica è proprio una sottrazione in cui ad un giudizio oggettivo-empirico sottraggo i dati sensibili (giudizio di sensibilità), ottenendo così la categoria . Ritorniamo all'esempio della penna: al giudizio 'la penna è pesante' sottraggo i dati sensibili (il colore, la forma, ecc) ed ottengo la categoria di sostanza. In molti casi la terza categoria è una sintesi delle prime due: prendiamo il caso del 2° gruppo, delle qualità dei giudizi; i giudizi possono essere affermativi (è una penna), negativi (non è una penna) e infiniti (questa è una non-penna). Il caso infinito, è evidente, è una sorta di sintesi degli altri due, in quanto esclude una possibilità (non è una penna) e ne lascia aperte altre (potrebbe essere un libro o un quaderno). E così Kant può finalmente chiarire le questioni lasciate aperte da Hume: le categorie non sono traibili dall'esperienza, ma ne sono le condizioni a priori; non potrò mai dedurre la categoria di causalità dal fatto che messa la mano sul fuoco, esso ha causato bruciore alla mia mano, perchè sarà sempre smentibile da una nuova esperienza; tuttavia capisco che il fuoco causa bruciore alla mia mano proprio in virtù della categoria di causalità insita a-prioristicamente nella mia testa. Dunque la fisica newtoniana è possibile proprio perchè la si costruisce all'interno delle forme a priori e nessuna conoscenza potrà mai realizzarsi se non inquadrata in quelle forme. Siamo infatti noi che diamo la forma al materiale ricevuto passivamente dai sensi e tale forma sarà valida oggettivamente, ovvero per tutti, perchè tutti abbiamo tali forme. Detto questo, però, Kant deve ancora spiegare come siano possibili 'giudizi sintetici a priori': con la deduzione metafisica, Kant ne ha in parte dato una spiegazione, illustrando come essi non diano un sapere tautologico (e quindi non siano analitici, bensì sintetici), ma arricchente (come quando faccio un esperimento, non so esattamente che risultato avrò, ma so che un risultato ci dovrà essere), e come siano a priori, cioè puri, oggettivi, universali e necessari, a monte dell'esperienza. Ora, dopo aver illustrato come siano possibili e come di fatto noi li utilizziamo, Kant deve però spiegare se essi siano legittimi: ed è proprio quello che fa con la deduzione trascendentale delle categorie . Ai dati di fatto dell'esperienza noi applichiamo le categorie: le applichiamo anche nel più banale giudizio che formuliamo. Ma è una cosa legittima? Siamo autorizzati o agendo in tal modo deformiamo la realtà? La posta in gioco è alta: conoscenze acquisite in migliaia di anni potrebbero andare in fumo se risultasse un'azione illegittima l'applicazione delle categorie. Kant chiarisce subito che la deduzione, ovvero il processo per verificare la legittimità, non era necessario nel caso dello spazio e del tempo perchè si trattava di una ricezione passiva di dati sensibili, in cui non si poteva scegliere se applicare o meno lo spazio e il tempo come forme a priori; si era costretti ad applicarli e non si poteva fare diversamente. Con le categorie, siamo invece di fronte ad un'attività unificatrice dell'intelletto sull'esperienza, e occorre dunque capire se sia lecito o meno agire in tal modo. Kant spiega però che se arriveremo a dimostrare che, così come non è necessaria la deduzione per lo spazio e per il tempo (proprio perchè non si danno percezioni se non nello spazio e nel tempo), anche per quel che riguarda l'intelletto, se i dati sensibili ci vengono dati direttamente nell'intelletto, il gioco è fatto. Certo, almeno in apparenza, sembra proprio che il dato sensibile non ci sia dato nelle categorie, nel pensiero, ma nei sensi: il pensiero sembra essere un qualcosa che si aggiunge dopo e opera sui dati sensibili unificandoli. Ma Kant riesce a dimostrare che quanto detto per spazio e tempo è valido anche per il pensiero: i dati sensibili non possono esserci dati se non nel pensiero . L'essere inquadrati dal pensiero fa infatti parte dello stesso dato sensibile, spiegherà Kant, e non ha dunque senso chiedersi se sia un'azione legittima l'applicazione delle categorie, proprio perchè è inevitabile. Dimostrato questo, si sarà risolto il problema. Ma, come sappiamo, per Kant non c'è vera conoscenza se prima dell'attività intellettuale non vi è la raccolta dati sensibili; quanto detto, diventa ora il simmetrico: non ci può essere raccolta dei dati sensibili se non c'è il pensiero, nel senso che ogni dato sensibile è già inquadrato nel pensiero , il quale non interviene in un secondo tempo, come Kant sosteneva prima. Riuscendo a dimostrare che i dati sensibili sono sempre già inquadrati dal pensiero, si cadrà dunque in un caso del tutto analogo a quello dello spazio e del tempo. Nell'impostare quest'ardua dimostrazione, Kant introduce il concetto di Io penso , centrale nella sua filosofia: avrebbe potuto chiamarlo 'Io' o 'Pensiero', ma preferisce l'espressione 'io penso', e spiegheremo perchè. Ora, l'Io penso è la funzione del pensare e, in quanto tale, è la funzione unificatrice (pensare = unificare). Kant si chiede: dico che i dati della sensibilità ci son dati passivamente e poi, in un secondo tempo, interviene l'intelletto ad unificarli; ma appena ci son dati (prima che intervenga l'intelletto ad unificare), non può esservi già una forma di unità? Quando sono davanti alla penna, prima che intervenga la categoria di sostanza dico che percepisco il colore, la forma, ecc e insieme la pesantezza, ma non vi è ancora una forma di unità? Certo che c'è, fa notare Kant; un elemento di unità c'è per forza, e sono io soggetto che ho i due gruppi di percezioni. Ancor prima che entri in gioco l'intelletto ad unificare, i dati sensibili hanno già una sorta di unità per il fatto di essere l'insieme dei dati sensibili da me percepiti : essi sono ricondotti ad un unico orizzonte, sono i dati che percepisco io. Del resto, se non fossero in qualche modo unificati, non potrei nemmeno dire che sono i dati delle mie percezioni. Hume aveva fatto notare che l'Io non è altro che un fascio di percezioni, e che se svuotassimo la testa di ogni contenuto non resterebbe più nulla: per il pensatore scozzese, infatti, non siamo 'cose che pensano', soggetti che pensano altre cose, ma siamo esclusivamente questi pensieri unificati in un fascio. Kant riprende il ragionamento humeano e si accorge che se è vero che siamo un fascio di percezioni, è anche vero che ci deve essere un qualcosa che tiene insieme tale fascio, proprio come in una fascina i legni son tenuti insieme dalla fascina appunto. Dunque le nostre percezioni, ancor prima che su di esse lavori l'intelletto con le sue categorie, sono ricondotte ad un unico orizzonte. Bisogna pertanto ammettere che esista qualcosa che fa sì che tale orizzonte esista, così come ci deve essere qualcosa che tiene insieme la fascina di legni per evitare che essi si disperdano. D'altronde, se ricevessimo le percezioni in modo 'rapsodico', come dice Kant, non potremmo a rigore nemmeno dire che sono nostre percezioni, perchè dire che sono nostre implica che siano già ricondotte ad un unico orizzonte. Ci deve dunque essere un qualcosa che costituisca tale orizzonte che unifica; se è vero che pensare è unificare, è allora altrettanto vero che unificare è pensare. A tenere insieme le nostre percezioni è dunque il pensiero, il lavoro del nostro intelletto e delle sue categorie. Il pensiero è dunque già in azione nei dati della sensibilità. E' quindi legittimo l'uso delle categorie? Sì, perchè il dato sensibile ci viene già dato inquadrato dall'intelletto, e di conseguenza non possiamo fare a meno di applicare le categorie, il che vuol dire che l'uso di esse è per forza legittimo. Già, perchè le nostre percezioni sono da noi sentite come nostre, inquadrate in un unico orizzonte, il che implica che ci debba essere un qualche elemento di unità e, come Kant ha più volte spiegato, a conferire unità alla conoscenza è sempre e soltanto l'intelletto, il quale si trova ad operare sui dati sensibili immediatamente, nel momento stesso in cui ci vengono forniti. Il punto fondamentale del ragionamento kantiano è che le nostre sensazioni, anche le più disparate, sono già un dato unitario, allora in esse opera fin dall'inizio l'intelletto, il solo capace di dare unità, e ne consegue che l'uso delle categorie è legittimo proprio perchè non si potrebbe non applicarle, così come legittimi sono lo spazio e il tempo. L'unità primordiale che mi consente di dire che tutte le percezioni che ho sono mie, radunate sotto un unico orizzonte, Kant la definisce unità qualitativa , proprio per distinguerla dalla categoria di unità: Kant sta infatti parlando non già dell'unità conferita dalla categoria, bensì di quella propria delle sensazioni, forniteci inevitabilmente inquadrate dall'intelletto, ed è per questo che la definisce 'qualitativa'. E così Kant risolve il problema della deduzione trascendentale delle categorie, facendo venir meno la netta distinzione tra sensibilità e intellettualità e spiegando che, propriamente, la sensibilità la riceviamo già inquadrata dall'intelletto, mai da sola, quasi come se il pensiero fosse già intrinseco ai dati sensibili che riceviamo (fenomenicamente). Tuttavia, con l'argomentazione poc'anzi esposta, Kant risponde anche ad un'altra domanda, forse anche più importante della precedente: infatti, dimostrando che l'applicazione delle categorie è legittima ai dati della sensibilità, Kant dimostra anche il simmetrico, ovvero che tale applicazione è illegittima al di là dei dati dell'esperienza . Sì, perchè con la complessa argomentazione con cui ha spiegato che il pensiero nella sensibilità è già, per così dire, a casa sua, e che le categorie sono applicabili alla sensibilità proprio perchè i dati sensibili ci vengono forniti già inquadrati dall'intelletto, Kant ha spiegato che il contrario non può essere: le categorie sono applicabili al mondo sensibile, ma non al di là di esso. Le categorie, pur essendo concetti puri caratterizzati da assoluta a-priorità, sono talmente legate alla sensibilità, che non appena si sganciano da essa e vanno oltre divengono inapplicabili. L'applicazione delle categorie al di là dell'esperienza è illegittima, ma ciò non toglie che l'uomo le abbia indebitamente applicate per secoli al di là dell'esperienza: il caso più clamoroso è quello della dimostrazione di Dio effettuata da Aristotele. Lo Stagirita aveva giustamente notato che ogni cosa è stata causata da un'altra, però, ad un certo punto, usciva dalla sfera dell'esperienza per trovare in Dio la causa ultima di tutte le cose, apllicando la categoria di causalità al di là dell'esperienza. Tutta la Dialettica trascendentale sarà proprio dedicata alla dimostrazione di questo errore che si protrae da secoli e che è innato nell'uomo: Kant addurrà diversi esempi di indebita applicazione meta-empirica delle categorie. Sempre nella Dialettica trascendentale, però, Kant tratta anche la questione dell' Io penso , quello che può essere considerato l'attore del processo di unificazione (unità qualitativa) dei dati sensibili. E' opportuno spendere due parole sul perchè Kant lo chiami 'io penso', ricorrendo ad un verbo, anzichè limitarsi a chiamarlo 'io', con un sostantivo, come aveva fatto Cartesio. Il motivo è molto semplice ed è strettamente connesso all'inapplicabilità delle categorie ad una sfera meta-empirica. L'io penso, quello che è l'attore dell'unificazione qualitativa e che rende legittima l'applicabilità delle categorie, per definizione non può essere anche oggetto di unificazione: dire che l'Io penso, infatti, è il soggetto di un'attività di pensiero e di unificazione e, proprio per questo motivo, non può anche essere oggetto di tale unificazione, proprio come l'occhio, che vede tutto ciò che gli sta attorno, non può vedere se stesso. L'Io penso unifica tutto, ma non può applicare la sua attività categoriale a se stesso; il che porta Kant a negare l'applicabilità delle categorie al soggetto pensante e, in particolare, della categoria di sostanza. Non siamo dunque autorizzati a parlare del soggetto come di una 'sostanza', come invece aveva fatto Cartesio trasformando la funzione del pensare in una cosa ('la cosa pensante'). Come si fa, del resto, a trasformare una funzione in una cosa? E' assolutamente illegittimo; ne consegue che la funzione del pensare non è una sostanza e che, dunque, il soggetto non è una 'cosa pensante'. Siamo di fronte ad una situazione paradossale, in cui al dualismo noumeno-fenomeno si aggiunge un nuovo elemento, l'Io penso. Infatti, potrò parlare di me stesso come fenomeno: Locke ci ha insegnato che esistono un senso esterno (lo spazio) e uno interno (il tempo) e che nel tempo percepiamo una serie di fenomeni interni, quelli che Cartesio attribuiva alla 'cosa pensante' (pensieri, volizioni, ecc) e come dati della sensibilità possono essere oggetti delle categorie, anche di quella di sostanza. Però questo processo è valido solo ed esclusivamente a livello fenomenico: è dunque legittimo parlare di una 'cosa pensante' che fa una serie di cose (pensa, percepisce, ecc) nell'ambito di un'unità, l'io fenomenico. Ed ecco che quindi noi siamo fenomeni di noi stessi, non ci vediamo come siamo realmente, ma come appariamo a noi stessi , come insieme di percezioni, pensieri, ecc unificati in un io. Non può dunque essere vero che quando ci rivolgiamo a noi stessi operiamo in un campo sicuro ed assolutamente certo, come credeva Agostino e la tradizione cristiana a lui successiva. Non conosciamo la nostra essenza, non ci conosciamo noumenicamente, ma solo come appariamo a noi stessi, ovvero fenomenicamente: ci arrivano i dati sensibili dall'esterno, li unifichiamo ed elaboriamo l'idea di spirito e di anima come unione di queste percezioni. Certo, a monte c'è la cosa in sè, il noumeno, ed abbiamo una nostra essenza ben definita che, paradossalmente, ci resta oscura, ma da cui deriva, in qualche misura, ciò che di noi conosciamo. All'io noumenico e all'io fenomenico si aggiunge poi l' Io penso , qualcosa di molto diverso dagli altri due. Non è fenomenico perchè l'io fenomenico è il risultato dell'unificazione di percezioni e l'Io penso è soggetto della funzione del pensare, ma non oggetto, unifica senza essere unificato; e non è noumenico perchè non è la cosa in sè. Anzi, a rigore, sia l'io fenomenico sia l'io noumenico sono due cose (cosa in sè e cosa come appare), mentre l'Io penso no, è una funzione, è la funzione dell'unificare le percezioni sensibili che riceviamo, e ridurlo a 'cosa' vorrebbe dire incappare nell'errore commesso da Cartesio. Detto questo, è bene specificare che le singole categorie sono anch'esse funzioni, sono attive, sono i diversi modi di unificazione di cui dispone l'intelletto: più precisamente, l'Io penso non è altro che l'insieme delle funzioni categoriali . Ciascuna delle diverse maniere di unificazione dell'Io penso è una categoria. Ma, fa notare Kant, una cosa per essere conosciuta deve essere pensata e percepita; l'Io penso in sè è pensabile, sì, ma non percepibile, perchè non è materiale sensibile; ne consegue, dunque, che esso non è conoscibile. Riprendendo la tradizione leibniziana, Kant chiama anche l'Io penso ' appercezione trascendentale ' in quanto esso trasforma le percezioni passive in appercezioni, ovvero percezioni dotate di autocoscienza, percezioni che sappiamo essere nostre. La Logica trascendentale (in cui rientra tutto il discorso sulle categorie finora condotto) si divide in Analitica dei concetti (categorie) e dei princìpi (i giudizi sul mondo derivati dall'applicazione delle categorie, ovvero la fisica pura). Illustrata l'analitica dei concetti, Kant, prima di passare a quella dei princìpi, introduce lo schematismo trascendentale in cui si descrivono gli schemi trascendentali puri. Esso riguarda non l'applicabilità delle categorie, ma la loro concreta applicazione. Essendo le categorie differenti dai dati sensibili, come è possibile che concretamente si possano applicare le singole categorie ai dati della sensibilità? Cosa è che mi permette di applicare la categoria di causalità ad una determinata situazione empirica? Occorre trovare un qualcosa che faccia fronte all'eterogeneità tra categorie e sensibilità e Kant lo trova ipotizzando l'esistenza di una facoltà intermedia, un terreno comune a categorie e sensibilità, e la chiama immaginazione , intesa come la facoltà di produrre 'immagini', schemi intermedi tra categorie e sensibilità (cioè trascendentali appunto) . Gli 'schemi trascendentali', frutto dell'immaginazione, sono determinazioni del tempo secondo regole: ecco che Kant, quel qualcosa di intermedio che stava cercando, l'ha trovato nell'individuazione delle condizioni temporali di una determinata situazione empirica che consentano l'applicabilità di una categoria anzichè un'altra. ' Lo schema della categoria di causalità è la successione nel tempo ', dice Kant: applico concretamente la categoria di causalità quando mi trovo davanti ad una successione nel tempo di determinati fenomeni. Quando, nel tempo, ho messo la mano sul fuoco e mi sono bruciato ogni volta che la mettevo, ecco che ho applicato la categoria di causalità. Allo stesso modo, ' lo schema della categoria di sostanza è la permanenza nel tempo '. Kant trova dunque qualcosa di omogeneo, che vada bene sia alle categorie sia alla sensibilità, proprio perchè lo schema è una regola di applicazione delle specifiche categorie (e in quanto regola è omogeneo all'intelletto, poichè la regola sussume sotto di sè i casi particolari) e il criterio di tale regola sono le situazioni temporali (e il tempo è omogeneo alla sensibilità, ne è una forma), la successione per la causa e la permanenza per la sostanza. Si tratta dunque di una 'regola' che sussume sotto di sè i casi particolari e che costruisco in base alle situazioni temporali. E' da notare che torna anche qui a manifestarsi la superiorità del tempo sullo spazio, sulla quale peraltro Kant aveva già insistito: è nel tempo che si costruisce la regola. A ben pensarci, però, questo discorso sembra del tutto analogo a quello di Hume: in effetti, per molti aspetti è simile, ma si differenzia per molti altri. Mentre per Hume la sostanza era la permanenza nel tempo, per Kant la permanenza è la condizione temporale per l'applicabilità della categoria di sostanza; lo stesso per la successione nel tempo. Causalità e sostanza, per Kant, restano concetti a priori, nei quali inquadriamo i dati dell'esperienza. Per Hume la causalità e la sostanza erano a posteriori, derivabili solo dall'esperienza, e, in quanto tali, non erano oggettive, ma sempre smentibili da una nuova esperienza. Per Kant causalità e sostanza sono concetti puri, a priori; non c'è solo la successione e la permanenza nel tempo, è una categoria a priori. La causalità la applicherò non a qualsiasi situazione empirica, ma solo in presenza di regolare successione temporale. L'oggettività garantita dall'a-priorità, è bene ricordarlo, è meramente fenomenica, sganciata dall'ambito noumenico. Passiamo ora ad esaminare l' Analitica trascendentale dei princìpi : essa rappresenta la conclusione della prima parte della Critica della ragion pura , quella che è solitamente definita 'parte costruttiva', incentrata sulla spiegazione di come l'intelletto conosca legittimamente la realtà fenomenica. La seconda parte ruota invece attorno alla Dialettica trascendentale ed è generalmente nota come 'parte distruttiva', in quanto in essa Kant indica cosa non si deve fare. La soluzione cui Kant perviene nell'Analitica dei princìpi è la celebre rivoluzione copernicana, di cui già abbiamo parlato: le leggi della natura altro non sono che le leggi del nostro pensier, dal momento che è esso stesso a costruire la realtà fenomenica secondo le sue leggi. Non è dunque l'oggetto che modifica il soggetto, ma viceversa. E' il pensiero che costruisce con l' Io penso , unificando la realtà. Le verità a priori che l'intelletto rinviene nella natura sono sempre e solo, dunque, quelle che lui stesso ha messo in essa: l'intelletto assurge così a vero e proprio legislatore della natura. E i princìpi che danno il nome all'Analitica altro non sono che le leggi generalissime della natura: non già le leggi empiriche (traibili dall'esperienza) come le leggi dei gas, bensì le leggi generali a priori che il nostro intelletto pone alla realtà. Tali leggi generali, proprio perchè a priori, stanno a monte dell'esperienza: ad esempio, ancor prima di effettuare esperienze concrete, saprò già che avrò dei rapporti di causa-effetto (legge generalissima) e sarà l'esperienza a dirmi effettivamente a quella data causa quale effetto seguirà. E la fisica pura sulla quale Kant indaga è proprio l'insieme di questi princìpi puri, o leggi generalissime che dir si voglia. Come già accennavamo, Kant ammette la possibilità di una metafisica, se per metafisica intendiamo un'ontologia generale delle leggi che reggono la realtà: la metafisica in questa accezione è possibile e si identifica con lo studio di questi princìpi generalissimi che presiedono all'andamento della realtà. Kant distribuisce questi princìpi in 4 gruppi, proprio perchè 4 sono i gruppi delle categorie: i princìpi, infatti, spiega Kant, derivano in qualche modo dalle categorie. Il primo gruppo dei princìpi è dato dagli assiomi dell'intuizione : hanno come princìpio che ' tutte le intuizioni sono quantità estensive '. Sono 'assiomi' nel senso che sono dati a priori e riguardano le intuizioni, ovvero le percezioni sensibili. Qualsiasi intuizione noi abbiamo, nota Kant, avrà sempre una quantità, una grandezza. Questo gruppo di princìpi, quindi, deriva direttamente dalla 1° categoria, quella di quantità. Tali assiomi, in poche parole, ci dicono questo: pur non sapendo esattamente a quali grandezze ci troveremo di fronte, noi sappiamo già a-prioristicamente che nel fare esperienze nel mondo ci imbatteremo in grandezze; sarà poi l'esperienza a dirci quali saranno di preciso tali grandezze. Il secondo gruppo di princìpi è dato dalle anticipazioni della percezione , che poggiano sul presupposto che ' in tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una qualità intensiva, cioè un grado '. Queste 'anticipazioni' ci dicono anticipatamente cose sulle percezioni prima ancora di avere tali percezioni. So già in anticipo, dunque, che tutti i fenomeni (oltre alla 'quantità estensiva' degli assiomi dell'intuizione) avranno, paradossalmente, una quantità relativa alla qualità: una sensazione di colore, infatti, pur essendo una qualità, sarà più o meno intensa, ovvero la sua qualità sarà suscettibile di una 'quantità', di un grado più o meno intenso. Pur non sapendo di preciso quali intensità avrò nelle esperienze, saprò già a-prioristicamente che qualche grado ce l'avrò: sarà poi l'esperienza concreta a dirmi esattamente come saranno tali 'gradi'. Il terzo gruppo è dato dalle analogie dell'esperienza , il cui principio generale è ' l'esperienza è possibile solo mediante una rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni . Sappiamo a priori che vi sono leggi rigorose della natura, poichè essa non è che l'insieme delle leggi del nostro pensiero, le quali (in quanto a priori) sono oggettive e necessarie, dunque rigorose. Le leggi specifiche, poi, sarà l'esperienza a darcele, andando a riempire coi dati sensibili gli schemi a priori. In altri termini, l'esperienza del mondo è possibile solo in quanto esso si configura come un insieme di leggi necessarie. A questo punto, Kant risponde ad una domanda fondamentale, sulla quale il mondo filosofico si era sempre interrogato: dai Presocratici in poi si era data per scontata l'esistenza di un principio della realtà, sebbene nessuno fosse stato in grado di dimostrarlo razionalmente. Kant dice che non c'è bisogno alcuno di dare una dimostrazione empirica di tale principio proprio perchè esso non deriva dall'esperienza, ma dalle leggi del pensiero da noi imposte alla natura. Il 'principio' (che si basava poi sull'idea che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma) è semplicemente una legge di funzionamento del nostro pensiero, non esiste nella realtà noumenica, nel mondo come è in sè. Il quarto gruppo, infine, è dato dai postulati del pensiero empirico in generale : so a priori che qualunque cosa troverò nel mondo sarà o possibile (è possibile se inquadrabile negli schemi della nostra conoscenza) o reale (quando non solo è coerente con le leggi del nostro pensiero, ma è anche presente effettivamente nella realtà empirica, e non solo nel pensiero) o necessaria (se le condizioni dell'esperienza implicano quel determinato dato di fatto: se qualunque esperienza implica quel dato di fatto, allora esso è necessario). Sarà in altri termini necessaria se dimostrabile in base ad una legge universale della natura. A questo punto Kant distingue tra ' natura guardata da un punto di vista materiale ' ( natura materialiter spectata ), ovvero l'insieme delle cose che ci circondano, in ultima istanza l'intera realtà fenomenica, e ' natura guardata da un punto di vista formale ' ( natura formaliter spectata ): la natura vista 'formalmente' sta a monte di quella vista 'materialmente' (empiricamente) ed è la natura vista con le leggi generalissime del nostro pensiero . Queste leggi generalissime, spiega Kant, saranno giudizi sintetici a priori: ad esempio, il giudizio di causalità è a priori perchè assolutamente necessario e sintetico perchè il concetto di effetto non è già presente implicitamente nel concetto di causa, ma devo 'costruirlo'. Per avere una fisica pura sono dunque necessari i giudizi sintetici a priori, dotati di assoluta rigorosità (sono a priori) e capaci di dare conoscenze nuove, non tautologiche (sono sintetici). Ed essi ci sono nella natura (fenomenica), poichè è il nostro stesso intelletto ad attribuirglieli: le leggi rigorose che governano il nostro pensiero le ritroviamo anche nella natura, il che rende possibile una fisica pura, assolutamente rigorosa. Dunque la natura guardata da un punto di vista formale, ovvero attraverso le leggi generalissime che regolano il mondo, non è altro che la fisica pura, che Kant ha dimostrato possibile. La natura guardata da un punto di vista materiale, invece, comprenderà sì le forme generalissime della realtà, ma, accanto ad esse, vi saranno anche i dati sensibili. Detto questo, possiamo passare all'analisi della Dialettica trascendentale : se l'Analitica trattava l'uso legittimo dell'intelletto nel mondo empirico, la Dialettica si occupa invece del suo uso illegittimo meta-empirico. 'Dialettica' è per Kant questo uso indebito dell'intelletto, mentre invece 'dialettica trascendentale' é l'analisi critica che egli fa della dialettica. L'intelletto come facoltà che mira a conoscere il finito Kant lo chiama 'intelletto' appunto, mentre la facolta dell'intelletto che punta a conoscere l'infinito, la totalità, la chiama 'ragione': si tratta dunque di usi diversi della stessa facoltà. L'intelletto riguarda una conoscenza finita e limitata all'esperienza (come ad esempio: da che causa deriva questo specifico effetto?), mentre la ragione è una vana pretesa di raggiungere l'infinito. Kant aveva costruito la deduzione metafisica delle categorie partendo dai giudizi, poichè ogni giudizio è dato dall'unione del predicato e del soggetto; ora, egli si pone il problema di tirar fuori le forme della conoscenza razionale, della ragione: accanto alle intuizioni pure (forme della sensibilità) e ai concetti puri (forme dell'intelletto) avremo ora anche le idee (forme della ragione). Le idee sono, in altri termini, i concetti puri della ragione e Kant dà loro il nome di idee ispirandosi a Platone. Come per Platone le idee erano per le cose sensibili modelli da imitare senza mai poter essere raggiunti, anche per Kant esse sono concetti di assoluta perfezione gnoseologica, proprio perchè implicano totalità (l'infinito). Tali concetti, spiega Kant, sono irraggiungibili dall'esperienza perchè essa non potrà mai 'riempirli' con i dati sensibili (come invece faceva con i concetti puri dell'intelletto) proprio perchè si tratta di concetti infiniti (ciò che è infinito non può essere 'riempito'). L'esperienza, infatti, è sempre finita e non potrà dunque mai riempire concetti infiniti quali sono quelli della ragione. Tuttavia, se per Platone le idee erano concetti esistenti di per sè e legittimi, per Kant, al contrario, esse sono elaborazioni della mente umane alle quali non corrisponde mai pienamente l'esperienza sensibile. In definitiva, le idee sono il risultato dell'applicazione illegittima delle categorie al di là del mondo empirico . La conoscenza, infatti, è 'percepire e pensare', ma qui vado al di là, penso senza percepire, quindi non ho conoscenza. Come si tirano fuori queste idee? Come è la loro 'deduzione metafisica'? Le idee saranno non 12 (come le categorie), ma 3, e Kant le tira fuori dalle tipologie dei sillogismi (e non dai giudizi, come aveva fatto per le categorie). Aristotele si era dedicato allo studio dei sillogismi categorici, quelli in cui le premesse erano categoriche ('Socrate è uomo': la premessa mi dice che una determinata cosa è così); gli Stoici avevano invece studiato i sillogismi ipotetici (se A, allora B) e disgiuntivi (o è A o è B); i giudizi ipotetici sono dunque quelli in cui la premessa è un giudizio ipotetico (se nevica, fa freddo; nevica, dunque fa freddo), i sillogismi disgiuntivi quelli in cui essa è un giudizio disgiuntivo. Kant li applica per tirar fuori le idee , muovendo dalla constatazione che mentre i giudizi si limitano a constatare il legame tra 2 fatti nella realtà e hanno carattere finito (se accendo il fuoco sotto la pentola, l'acqua in essa bolle), i sillogismi invece non danno nuova conoscenza, ma organizzano sistematicamente conoscenze già acquisite con i giudizi. Così, se i giudizi legano tra loro 2 fatti (predicato + soggetto), i sillogismi uniscono invece a 3 a 3 i giudizi: ogni sillogismo è infatti costituito da 2 giudizi (premesse) + 1 giudizio (conclusione). E ogni premessa di un sillogismo è considerabile come conclusione di un sillogismo: fin qui siamo di fronte ad un lavoro legittimo, fin tanto che i sillogismi si limitano a costruire una rete sempre più sistematica di giudizi. I sillogismi diventano invece illegittimi nel momento in cui vengono presi come strumenti di conoscenza: se ad esempio seguo la concatenazione causale nel mondo empirico e poi salto oltre (convinto che tutto sia effetto di una causa) e risalgo ad una causa incausata che causa tutto (Dio) sto effettuando un passaggio illegittimo; infatti non riorganizzo più conoscenze acquisite coi giudizi, ma ne costruisco di nuove. Questa pretesa illusoria della mente umana nasce dal fatto che le categorie sono trascendentali (non derivate dall'esperienza, ma applicabili solo e soltanto ad essa): la ragione sente che le categorie non nascono dall'esperienza e si illude pertanto di poterle applicare anche ad un terreno che non sia l'esperienza. Kant parla dunque di idee trascendentali, anche se forse è più corretto definirle trascendenti, perchè vanno oltre l'esperienza, nel vero senso della parola; Kant preferisce però chiamarle 'trascendenti' perchè in fondo, pur essendo concetti che vanno oltre il mondo fisico, sono pur sempre una forma di conoscenza: accanto ad un uso illegittimo, Kant ammetterà anche un uso legittimo delle idee. Dalle 3 tipologie di sillogismi, ciascuna delle quali rappresenta la pretesa di spingersi oltre unificando ulteriormente, deriveranno 3 idee trascendentali (anima, mondo e Dio) dalle quali, a sua volta, derivano le 3 pretese scienze su cui si era concentrato Wolff (psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale). Con la ragione, dunque, creiamo concetti infiniti (le idee) in modo del tutto illegittimo, perchè applichiamo le categorie metafisicamente, cercando di raggiungere la totalità infinita. Ci troviamo di fronte alla fallace pretesa di conoscere la totalità dei fenomeni: ma tale totalità, paradossalmente, non è più un fenomeno, poichè va al di là di quel che può essere frutto dell'esperienza; non essendo mai data la totalità dei fenomeni nell'esperienza, essa si colloca in un ambito meta-empirico, e non è più un fenomeno, bensì un noumeno. Così, per quanto strano possa sembrare, la totalità dei fenomeni è un noumeno. Ritornando ai sillogismi, quello categorico dà il concetto infinito di anima, quello ipotetico dà il concetto infinito del mondo e, infine, quello disgiuntivo dà il concetto infinito di Dio. Se applicassimo correttamente i sillogismi, non arriveremmo mai a tali concetti infiniti e la nostra conoscenza non ne ricaverebbe nulla di veramente nuovo, verrebbe solamente riorganizzata in modo sistematico; tuttavia siamo spinti per inclinazione naturale e per il fatto che le categorie sono trascendenti, a volerle applicare anche in una sfera metafisica, avvalendoci dell'apporto dei sillogismi come veri e propri mezzi per ampliare la nostra conoscenza, facendo con essi non più passaggi meramente logici, bensì passaggi illegittimi che esulano dall'esperienza. Esaminiamo a fondo ciascuno dei sillogismi: il primo è il sillogismo categorico , dato dall'unione di 3 giudizi categorici (e A e B) . Ogni giudizio categorico è costruito attraverso la predicazione di un attributo rispetto ad una sostanza: 'Socrate è uomo', 'l'uomo è un animale', ecc. In ciascun giudizio categorico, come abbiamo detto, c'è un termine che funge da soggetto e uno che funge da predicato, ma il predicato di quel dato giudizio può essere soggetto di un altro: ad esempio, nei due giudizi 'l'uomo è un animale (predicato)' e 'ogni animale (soggetto) è un essere vivente', la parola animale fa da predicato prima e da soggetto poi. C'è solo un caso in cui la cosa in questione può solo fungere da soggetto ed è il caso di quella che Aristotele chiamava 'sostanza individuale': Socrate, Gorgia, Anassagora, ecc. potranno sempre e soltanto essere soggetti di un giudizio, mai predicati. Potrò dire che 'Socrate è uomo', ma non potrò mai dire che 'l'uomo (o qualsiasi altra cosa) è Socrate'. Tramite i sillogismi categorici risalgo la scala dei giudizi categorici e dovrei poter arrivare ad un soggetto che faccia, per così dire, da punto di partenza e che non possa essere predicato in nessuna proposizione: si arriva dunque, spiega Kant, ad un'idea (concetto puro della ragione) che sia soggetto senza essere predicabile di nessun altro giudizio. Tale idea è l'anima; e da essa deriva la presunta psicologia razionale, ovvero la pretesa di dire cose sull'anima. Stesso discorso vale per il sillogismo ipotetico , costruito con l'unione di 3 giudizi ipotetici: anche qui risalgo una scala (se A, allora B; se B, allora C; se C, allora D, ecc). Nella nostra esperienza creeremo effettivamente delle catene, magari anche parecchie, ma saranno pur sempre finite. Il salto meta-empirico lo si effettua invece passando ad esaminare la totalità della serie di cause ed effetti, pensando di poterla completare. E la totalità infinita dei rapporti di causa-effetto è proprio l'idea del mondo. Questa totalità infinita, però, non ci è mai data empiricamente, è il sillogismo che viene applicato in maniera meta-empirica e crea l'idea di mondo; da essa deriva la cosmologia razionale, ovvero la pretesa di dire cose sul mondo. Infine, abbiamo il sillogismo disgiuntivo , costruito coi giudizi disgiuntivi (o A o B): con tale sillogismo, scavalcando l'esperienza, potrei costruire il concetto di un qualcosa che abbia in sè tutte le possibilità positive. Ed è appunto in questo modo che nasce, secondo Kant (il quale qui riprende l'idea di coincidentia oppositorum ), l'idea di Dio, cioè ciò in cui tutte le alternative possibili possono stare insieme. Tale idea, però, è nettamente superiore rispetto alle due precedenti ed è per questo che Kant le attribuisce anche il titolo di ideale della ragion pura . A questo punto, Kant si sente in grado di affermare il teismo, ovvero il carattere di unitarietà e personalità di Dio (è uno ed è un Dio-persona): si tratta di un concetto a priori della mente umana. A livello logico, è evidente che nei concetti intensità ed estensione sono inversamente proporzionali: tanto più un concetto sarà 'intenso', ovvero ricco di dettagli, e tanto minore sarà l' estensione, ovvero le cose sussunte da quel concetto. Il concetto di 'vivente' sussumerà sotto di sè un sacco di casi (uomini, animali, piante, ecc); se però aumento l'intensità dicendo 'vivente razionale', l'estensione dimuisce perchè non saranno più sussunti nel concetto di 'animale razionale' gli animali e le piante, ad esempio. Se accettiamo questo ragionamento, essendo Dio la sommatoria di tutte le alternative possibili, allora trattasi di un concetto infinitamente intenso; ma se un concetto più è intenso e meno è esteso, allora il concetto puro di Dio (che è intenso all'infinito) non può che sussumere un unico esemplare; dunque Dio è unitario. Dal momento che sussume sotto di sè anche intelligenza e pensiero, oltre all'infinità di altre qualità positive (essendo un concetto infinitamente intenso), allora Dio è un Dio-persona, perchè intelligenza e volontà sono caratteristiche che ineriscono ad una persona. Kant con questo ragionamento non ha dimostrato l'esistenza di Dio, ha solo lavorato intellettualmente sull'essenza. Illustrati i sillogismi, esaminiamo ora a fondo le tre idee che derivano dall'illegittimo uso che facciamo di essi. L' idea di anima è data dalla presunta somma della totalità delle esperienze interne. Partendo dal fatto che abbiamo fenomeni interni ed essi sono attribuibili ad un'unica sostanza, perveniamo all'idea di anima. Si tratta di un'idea, perchè sta al di là dell'esperienza, non è quel che effettivamente percepiamo fenomenicamente, è in termini noumenici. Allo stesso modo, la somma della totalità dei fenomeni esterni è l'idea di mondo (idea perchè tale totalità non la cogliamo mai empiricamente, ma con uno slancio illegittimo dell'intelletto). L'idea di Dio, invece, è data dalla somma della totalità dei possibili oggetti immaginabili (fenomeni + noumeni). Tutte e 3 sono idee trascendentali, però Dio è anche ideale della ragion pura perchè è il punto di fuga di noumeni e fenomeni, è l'idea di un qualcosa cui tutta la realtà fa riferimento. E' 'ideale della ragion pura' proprio perchè è ciò che si propone di studiare la ragione pura, sebbene esso giaccia al di là dell'esperienza. Ma, nel dettaglio, come nascono queste 3 idee? L' idea di anima (ovvero l'idea di un io come sostanza) nasce, secondo Kant, da un paralogismo , ovvero da un sillogismo sbagliato. L'errore in questione è quello che Kant chiama, con un'espressione di forte sapore scolastico, quaternio terminorum (quaterna di termini). Il sillogismo è dotato di una premessa maggiore (con estremo + termine medio), di una premessa minore (con un altro estremo + termine medio) e una conclusione (1° estremo + 2° estremo). L'errore di cui parla Kant nasce quando si crede che il termine medio esista, ma in realtà non esiste, quando ad esempio chiamiamo con una stessa parola due cose diverse (per esempio la parola 'pianta'). Nel caso dell'anima, la quaterna di termini sta nel fatto che la nostra mente inavvertitamente confonde il soggetto in senso gnoseologico con il soggetto in senso logico. L'espressione prima esaminata 'Socrate è uomo' presenta la sostanza individuale 'Socrate' che può essere solo soggetto. Kant riprende ora l' Io penso : l'Io penso può essere solo soggetto (unifica senza essere unificato). L'errore che commettiamo sta in questo falso sillogismo (paralogismo): tutto ciò che è solo soggetto è sostanza, l'Io penso è solo soggetto, dunque l'Io penso è sostanza. L'origine dell'idea di anima, ovvero di 'io come sostanza', di sostanza cui ineriscono tutti i fenomeni interni, va ricercata in questa ipostatizzazione, cioè nella trasformazione in sostanza dell' Io penso , che è in realtà solo una funzione (la funzione del pensare, appunto). Ecco dunque che, nel trasformare un'attività (il pensare) in una cosa (l'anima) commetto il paralogismo, ovvero il sillogismo illegittimo e sbagliato. L'errore nasce appunto dalla quaternio terminorum : ho usato la parola 'soggetto' in due diversi significati. Tutto ciò che è solo soggetto (grammaticalmente, cioè ciò che non è 'predicato') è sostanza, l'Io penso è soggetto (gnoseologicamente, cioè non 'oggetto': unifica come soggetto e non è oggetto dell'unificazione), dunque l'Io penso è sostanza. Così nasce l'idea di anima, dell'io come noumeno. Ammettere l'esistenza dell'anima come sostanza è premessa per una cosa importantissima: l'immortalità dell'anima. Essendo illegittimo parlare dell'anima come sostanza, allora sarà altrettanto illegittimo parlare razionalmente di immortalità di tale sostanza. Ciò non toglie che Kant fosse credente e che fosse convinto dell'immortalità dell'anima: dice solo che non la si può dimostrare. L'altra idea è l' idea di mondo : a questo proposito, Kant imbandisce un discorso sulle antinomie della ragion pura. Le antinomie, egli spiega, sono 4 gruppi di affermazioni antitetiche, contradditorie fra loro, ma paradossalmente dimostrabili. Dunque, sia la tesi sia l'antitesi, sebbene siano contradditorie e tendano ad escludersi a vicenda, sembrano essere dimostrabili. La ragione cade dunque in una antinomia, poichè sembra poter dimostrare una cosa e anche il suo contrario. Le 4 coppie di affermazioni opposte (antinomie) sono le seguenti: 1)che il mondo sia finito oppure infinito nello spazio e nel tempo; 2) che esso consti di elementi ultimi oppure sia divisibile all'infinito; 3) che vi sia in esso una causalità libera oppure che tutto sia determinato in base a leggi naturali; 4) che esso dipenda da un essere necessario o che in esso tutto sia contingente. Va subito notato che le prime due antinomie sono diverse rispetto alle altre due, in quanto fanno riferimento a quantità (infinitezza/finitiezza e divisibilità all'infinito/divisibilità limitata), ovvero sono antinomie matematiche . Le ultime due, invece, illustrano il funzionamento del mondo (libertà/determinismo e necessità/contingenza) e prendono dunque il nome di antinomie dinamiche . Tale distinzione, tra matematiche e dinamiche, riguarda anche la soluzione del problema aperto dalle antinomie, ovvero la possibilità di dimostrare allo stesso tempo tesi e antitesi: nel caso delle matematiche, sia la tesi sia l'antitesi sono false, nelle dinamiche sono entrambe vere. Prendiamo il caso delle antinomie matematiche: nell'esperienza concreta, da un lato, possiamo allargare spazialmente e temporalmente la nostra conoscenza, per cui arriviamo a conoscere una parte del mondo, una quantità finita di fenomeni, e nulla ci impedisce di andare oltre questa quantità. Lo stesso vale per la divisibilità: quando dividiamo qualcosa, procediamo alla ricerca di componenti sempre più piccole della realtà fisica, così come i fisici dopo essere pervenuti al concetto di atomo come porzione ultima ed indivisibile della materia, hanno ulteriormente diviso scoprendo le particelle subatomiche. Ma fino a quando posso continuare a dividere? Ogni divisione sarà sempre finita, ma ciononostante potrò sempre farne una nuova. Nell'esperienza, dunque, ogni divisione effettiva o ogni effettiva estensione nello spazio e nel tempo è sempre finita, ma non c'è nulla che mi impedisca di poter ulteriormente dividere o estendere. Ed è proprio questo che è accaduto con la grande disputa sull'infinitezza o sulla finitezza del mondo: ci sono stati grandi pensatori che hanno dimostrato razionalmente la finitezza del mondo, e altri che ne hanno dimostrato altrettanto razionalmente l'infinitezza. Sembra dunque che la ragione sia scivolata in un paradosso, in un vicolo cieco: essa pare in grando di dimostrare al tempo stesso due cose contradditorie, che il mondo è finito e che è infinito. La soluzione che Kant dà a questa aporia, o 'antinomia', è molto semplice: sia la tesi (il mondo è finito) sia l'antitesi (il mondo è infinito) sono false, poichè muovono da un presupposto falso, cioè dall'idea di mondo. Tali antinomie della ragione dicono al tempo stesso che il mondo è finito e infinito nel tempo, nello spazio e nella divisibilità, ma il concetto (idea) di mondo è inaccettabile, poichè esso non è che la totalità di tutte le esperienze possibili e la totalità di tutte le esperienze, paradossalmente, non è un'esperienza, non può essere esperita. Ecco che il mondo, l'insieme dei fenomeni, è allora un noumeno, sta al di là dell'esperienza. E' pensabile (come insieme di tutti i fenomeni), ma non conoscibile, poichè conoscere per Kant vuol dire pensare e percepire, e nel caso del mondo, lo penso nella sua totalità ma non lo percepisco (dunque non lo conosco). Infatti, il mondo come totalità infinita delle esperienze non posso riempirlo di materiale sensibile, proprio perchè il materiale sensibile sarà sempre finito e non potrà mai colmare un qualcosa di infinito come il mondo. Quindi, potrò sempre allargare la mia conoscenza, ma si tratterà sempre e solo di una serie di fenomeni legati in una certa maniera. L'errore delle antinomie matematiche sta nel credere di poter acquisire la totalità delle esperienze ; se potessi davvero conoscere effettivamente il mondo nella sua totalità e calcolare tutte le divisioni di cui è suscettibile, allora potrei dire che è infinito o finito, divisibile all'infinito o no. Ma non potendo esperire tale totalità (e quindi non potendo conoscere il mondo) non potrò mai predicarne con certezza nè l'infinitezza nè la finitezza. E' dunque allo stesso modo sbagliato dire che il mondo sia infinito o che sia finito. Potrò solo legittimamente affermare il carattere indefinito del mondo nel tempo, nello spazio e nella divisibilità . Ogni divisione che farò sarà sempre finita, ma potrò fare sempre nuove divisioni, senza poter mai dire se ne posso fare in seguito di nuove o no, poichè non conosco il mondo nella sua totalità. Del resto, dire che è 'indefinito' vuol dire eliminare il concetto di mondo, poichè esso implicherebbe di avere la totalità delle esperienze, un numero ben definito, infinito o finito. Dunque, le antinomie matematiche si risolvono molto semplicemente nel dichiarare inconsistente il soggetto di tali affermazioni, ovvero l'idea di mondo. Tale idea non la possiamo usare per esprimere un'esperienza proprio perchè si pone al di là dell'esperienza; per questo, possiamo dire che ogni esperienza effettivamente realizzabile è sempre finita e che una volta date le esperienze finite, nulla ci vieta di fare un passo in più, di andare oltre. L'esperienza ha quindi carattere indefinito, è finita ma non è mai l'ultima. Le antinomie dinamiche non riguardano più la finitezza e l'infinitezza, ma la causalità. Esiste una causa deterministica o una 'causa libera' nel mondo? Il concetto di 'causalità libera' di cui parla Kant è, in poche parole, la possibilità di dare origine ex novo ad una nuova serie causale; se deterministicamente non c'è cosa che non sia causata e che a sua volta non causi nuove cose, la causalità libera prevede invece che per una decisione arbitraria possa nascere dal nulla una nuova serie causale. Prendo la penna e la sposto: deterministicamente, la mia mano si è mossa in seguito a meccanismi innescati nel mio cervello a causa del fatto che ho visto la penna; secondo la causalità libera, invece, si tratta di un gesto libero, incausato, con cui ho preso la penna, l'ho spostata, e ho dato il via ad una nuova serie causale. Ma questa causalità esiste, o vi è solo quella deterministica alla Cartesio? In definitiva, così come non conosco la totalità dei fenomeni del mondo, allo stesso modo non ne conosco la totalità delle cause/effetti. Se però nel caso delle antinomie matematiche sia tesi sia antitesi erano false, ovvero il mondo non era nè finito nè infinito, qui sia la tesi sia l'antitesi possono essere vere. Sembra molto strana la cosa, perchè più cose possono essere false (non è nè questo nè quest'altro: sarà qualcos'altro), ma pare molto più difficile che più cose possano, al tempo stesso, essere vere (è questo ed è quest'altro). Ci possono dunque essere al tempo stesso sia la causalità libera sia quella deterministica? Sembra che la ragione si sia nuovamente avventurata in un vicolo cieco, ma non è così. Noi conosciamo solo il mondo fenomenico, inquadrato nella categoria di causalità (ovvero conosciamo il mondo come insieme di cause ed effetti), e in esso possiamo constatare solo la causalità deterministica (dato A, si verifica per forza B) : questo perchè la categoria di causalità fa riferimento alla causalità deterministica (e non a quella libera) e, in virtù della rivoluzione copernicana, applichiamo le leggi del pensiero alla realtà, quindi la realtà fenomenica è retta dalla causalità deterministica. Come è dunque possibile che esista anche la causalità libera? Dobbiamo tenere presente che, accanto al mondo fenomenico in cui vi è solo la causalità deterministica, c'è anche il mondo noumenico, di cui non sappiamo nulla: che cosa mi vieta di pensare che lì viga la causalità libera? Lo stesso vale per la 4° antinomia (il mondo dipende da un ente necessario o in esso tutto è contingente?): nel mondo fenomenico tutto è contingente, cioè non c'è nulla che trovi in sè il motivo della propria esistenza (tutto c'è, ma potrebbe benissimo non esserci): un ente necessario non sarà mai dato nell'esperienza. Che cosa mi vieta, però, di ammettere l'esistenza di un ente necessario nel mondo noumenico? In questo modo Kant si riallaccia al grande problema seicentesco (sollevato da Cartesio) del rapporto tra necessità e libertà, tra anima e corpo, tra spiritualità e materialità. Come possono essere tra loro a contatto due realtà tanto diverse? L'unica soluzione era ridurre una realtà all'altra, e così Hobbes diceva che tutto era materia (negando l'esistenza autonoma della spiritualità), Leibniz che tutto era spirito (negando la materialità). Kant si chiede perchè mai ci si debba per forza porre il problema di incastrare tra di loro le due realtà ed è convinto che risulti molto più semplice asserire che a funzionare deterministicamente sia il mondo fenomenico, mentre a funzionare secondo la causalità libera sia il mondo noumenico. E in questo modo, riconoscendo l'esistenza di entrambe le realtà (cosa che Leibniz e Hobbes non avevano saputo fare) ed evitando un inquinamento reciproco (come invece aveva fatto Cartesio con la ghiandola pineale), Kant riconosce l'esistenza autonoma e distinta delle due realtà, libera e necessaria, ciascuna in un mondo distinto. E così il soggetto dell'antitesi (causalità necessaria/contingenza) è il mondo fenomenico, i cui enti non sono liberi, mentre il soggetto della tesi (la causalità libera/l'ente necessario) è il mondo noumenico, i cui enti sono liberi . Non posso sapere se per il mondo noumenico valga quel che vale per il fenomenico, ma posso benissimo ipotizzare che viga la libertà. Kant ha così risolto la questione delle antinomie e, inoltre, ha messo in luce che se in seguito per una via non conoscitiva saremo in grado di sostenere l'esistenza di un ente necessario e di una 'causalità per libertà' non saremo affatto in contraddizione, poichè sebbene il mondo fenomenico ci dica che le cose vanno diversamente, questo non ci vieta di applicare l'ente necessario e la causalità libera al mondo noumenico. Ed è proprio ciò che Kant farà nella Dialettica della Critica della ragion pratica , in virtù del terreno di non contradditorietà creato con la 3° e la 4° antinomia. Dopo aver trattato l'idea di anima e di mondo, esaminiamo ora meglio l' idea di Dio . In L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , Kant aveva già smascherato la prova dell'esistenza di Dio data da Anselmo, la 'prova ontologica', sostenendo che in realtà l'unico argomento valido per dimostrare l'esistenza di Dio era quello che si basava sul presupposto che non vi è nulla che avvenga senza un motivo, con la conseguenza che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sè tutto il resto. Ora Kant, pur continuando a non accettare la prova ontologica, non accetta neanche più quella da lui stesso formulata in L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , poichè implica l'illegittima applicazione della categoria di causalità alla sfera metafisica. L'esistenza di Dio, dice il Kant della Ragion pura, è indimostrabile. Così come la ragione si illude di poter dimostrare l'esistenza della 'sostanza anima' cui ineriscono tutti i fenomeni psichici, e la 'sostanza mondo', come totalità infinita dei fenomeni, allo stesso modo essa si illude di poter dimostrare l'esistenza di Dio, essenzialmente attraverso 3 prove, dice Kant. La 1° prova, che è poi la più antica e più umana (nonchè quella verso la quale Kant nutre maggiore simpatia) è quella fisico-teologica di Platone: dalla constatazione di un ordine e di un'armonia nel mondo ne deduco che vi deve essere un ordinatore (Dio). Di per sè, però, non dimostra l'esistenza di un Dio-creatore, ma solo di un Dio-ordinatore, e pertanto questa prova poggia su un'altra, quella cosmologica di Aristotele: ogni cosa mossa è per forza mossa da un'altra cosa, ne consegue che ci deve essere qualcosa che muove senza essere mosso (Dio). Questa prova, inaccettabile in quanto implicante un'applicazione metafisica della categoria di causalità, è secondo Kant del tutto uguale a quella ontologica , poichè vuole dimostrare che si deve per forza arrivare ad una causa incausata, ad un ente la cui essenza implica l'esistenza. L'essere incausato implica proprio che nulla (fuorchè la sua essenza) ne sia causa: ma dire che l'essenza è causa dell'esistenza vuol dire ricadere nella prova ontologica. Il succo del discorso è che tutte le prove dell'esistenza di Dio derivano da quella ontologica e sono inaccettabili proprio perchè inaccettabile è quella ontologica. E così si conclude la Dialettica trascendentale: risultano indimostrabili tutte le fondamentali affermazioni della metafisica (Dio, anima, libertà, ecc), anche se questo non toglie che ciò che non può essere nel mondo fenomenico, possa invece essere in quello noumenico. Con questo discorso sull'anima, su Dio e sul mondo, Kant ha dimostrato l'illegittimità dell' uso costitutivo delle idee , ovvero di quell'uso volto a costituire la conoscenza. L'uso costitutivo delle categorie era legittimo, quello delle idee no. Oltre ad essere inutili nell'uso costitutivo, le idee sono addirittura pericolose, poichè pretendono di dimostrare l'esistenza di Dio e della libertà. E tuttavia Kant si accorge che è assurdo che la ragione sia dotata di una facoltà tanto ostile, addirittura pericolosa, e finisce per riconoscere un uso legittimo delle idee (ecco perchè son trascendentali e non trascendenti): anzi, esse ci son state date proprio affinchè ne facciamo tale uso. Quest'uso legittimo e importante delle idee Kant lo chiama uso regolativo delle idee . Kant ha spiegato che riceviamo passivamente nello spazio e nel tempo i dati sensibili e che li unifichiamo con l'attività categoriale dell' Io penso ; dopo di che, le categorie ci permettono di formulare giudizi e concatenazioni di giudizi. Ecco allora che la nostra conoscenza è come un puzzle , i cui tasselli sono i dati sensibili e la cui attività (finita) di unificazione è data dall'intelletto unificatore; il puzzle però è infinito, mentre la nostra conoscenza è sempre finita. Abbiamo i tasselli sparsi qua e là e non sappiamo bene dove collocarli, senonchè nei puzzle c'è anche l'immagine generale del puzzle come dovrebbe essere una volta costruito. La funzione regolativa delle idee è analoga a quel disegno generale del puzzle che ci dà il quadro generale della situazione e in base al quale possiamo collocare le unificazioni parziali di pezzi (le conoscenze, sempre finite) al posto giusto. In altri termini, la funzione regolativa delle idee consiste nel dare il massimo di unità e di estensione possibile alla nostra conoscenza: l'idea di mondo non sarà mai completa, riempibile di dati dell'esperienza, però mi servirà a dire che qualsiasi singolo raggruppamento (finito) di fenomeni, io so già a priori (perchè l'idea è un concetto puro) che si colloca in unico sistema e quindi il mio obiettivo è di cercare di attaccare il più possibile all'infinito i vari pezzi già attaccati tra di loro gli uni agli altri (ed è proprio quel che fa la scienza); tenderò dunque a sistematicizzare all'infinito il mio sapere, a organizzare le mie conoscenze interne come se potessero essere attribuite ad un'unica sostanza (l'anima), oppure ad organizzare tutte le mie esperienze esterne come se appartnessero ad un unico mondo, o ancora ad organizzare tutte le mie conoscenze (interne + esterne) come se fossero effetti di un'unica causa (Dio). E' ben diverso dire che bisogna agire come se appartenessero ad un unico orizzonte o ad un'unica sostanza (anima, mondo, Dio) dal predicare che effettivamente esistano tali cose. Le idee hanno dunque in Kant una funzione euristica, servono cioè a guidare l'indagine verso sempre maggiore unitarietà e sistematicità, come se si potessero attribuire tutti i fenomeni interni ad una sostanza (anima) e quelli esterni ad un'altra sostanza (mondo). Non è detto che io possa dire qualcosa dell'anima, ma essa mi serve per poter strutturare attorno a tale concetto i fenomeni interni. Ecco allora che le idee 'regolano', guidano verso l'unità e l'estensione, poichè il concetto di mondo, ad esempio, ci ricorda continuamente che i singoli aggregati di conoscenze sono pezzi finiti di conoscenza indefinitamente estensibili. Il concetto di mondo mi dice quindi che devo collegare tra loro tutti i fenomeni (unità), ma anche che tutti i fenomeni devono farmi allargare la conoscenza, collegandoli tra loro. Non posso conoscere l'idea di mondo, dunque, ma essa mi serve per conoscere, per estendere la conoscenza e per darle unità: ecco allora che le idee servono per conoscere ma non possono essere conosciute . E' una sorta di punto di fuga ideale l'idea: convergo verso un punto, ma mi porta ad un processo di arricchimento infinito. Come per i medioevali, anche per Kant Dio resta il grande punto di riferimento della conoscenza, dunque, ma non Dio come ente, bensì Dio come idea presente nella mente umana: devo organizzare la mia conoscenza come se fosse stata prodotta da un unico ente (Dio), che garantisce l'unità del mondo e, con essa, quella della nostra conoscenza. Accanto alla valenza teoretica (conoscere la realtà), Kant dà alla ragione anche una valenza pratica: la ragione ci dà leggi di comportamento. E dell'uso pratico della ragione si occupa la Critica della ragion pratica .
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Da: il corsista filosofo17/10/2011 16:06:56
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

La Critica della ragion pratica (1788) vuole trovare una soluzione ad un problema per molti versi analogo a quello della Critica della ragion pura ; tuttavia, invece di essere orientata ad una critica dell'uso 'puro' (teoretico) della ragione, la Critica della ragion pratica conduce una critica, ovvero un giudizio, sull'uso 'pratico' (morale ed etico) della ragione. Anche in ambito etico sullo sfondo c'è sempre Hume: il pensatore scozzese aveva sostenuto, da un lato, che i fondamenti della conoscenza (l'idea di dostanza, di causalità, ecc) non fossero fondati razionalmente, e, dall'altro lato, che la morale stessa non affondasse le sue radici nella razionalità. La scelta etica dell'adozione di un comportamento, spiegava Hume, non è dettata dalla ragione, ma è il frutto, per così dire, di un sentimento morale, di una passione, con il risultato che la ragione è e deve essere schiava delle passioni. Ad indicarmi il fine del mio comportamento non è la ragione, ma la passione: la ragione non é in grado di dirci che cosa vogliamo e ci dice sempre e soltanto che cosa dobbiamo fare per ottenere quello che vogliamo: quello che vogliamo, tuttavia, esula dai dettami della ragione. Se uno vuole andare in vacanza ai tropici, la ragione gli indicherà la via per ottenere quel fine, suggerendogli di lavorare e di risparmiare denaro; ma quando gli si chiederà "perchè vuoi andare ai tropici", lui risponderà "perchè mi piace": non vi é una risposta razionale, é una passione. Questo è quel che credeva Hume. Da queste considerazioni, con un ragionamento piuttosto simile a quello della Ragion pura, muove Kant: così come Hume non era stato in grado di fondare l'oggettività della conoscenza poichè nell'ambito empirico una nuova esperienza potrà sempre confutarmi conoscenze ritenute certe, allo stesso modo il pensatore scozzese non era neanche stato in grado di conferire oggettività alla morale, poichè essa si basava sulle passioni, meramente empiriche, e variava da persona a persona. La questione gnoseologica Kant l'ha risolta compiendo la rivoluzione copernicana del pensiero, ovvero spiegando come l'oggettività della conoscenza non provenga dai sensi ma dal nostro intelletto; ora egli deve fare qualcosa di simile in campo morale. Kant (in disaccordo con Hume) è pienamente convinto dell'esistenza di una morale assoluta: e una morale, per essere assoluta, non va fondata sull'esperienza (come aveva fatto Hume con il 'senso morale'), perchè altrimenti si scivolerebbe nel relativismo morale: infatti, essendo i gusti e le passioni diverse da persona a persona, ciascuno finirebbe per avere la sua morale, la quale non potrebbe dunque essere assoluta. E del resto se fondassimo la morale sull'esperienza, sulle orme di Hume, una stessa persona, con la propria morale diversa da tutti gli altri, potrebbe finire per cambiarla di giorno in giorno poichè i sensi possono dirmi cose sempre diverse, di giorno in giorno. Non è dunque questa la via corretta. La ragione, spiega Kant, non deve svolgere le funzioni di puro strumento volto al soddisfacimento delle passioni, ma deve essere lei stessa, uguale in tutti gli uomini, a fondare la morale e a garantirle universalità. Sullo sfondo di queste affermazioni troviamo il pietismo kantiano, in cui il rigore morale è particolarmente marcato. Ecco allora che il filosofo tedesco sente l'esigenza di appellarsi a qualcosa che non sia la sensibilità e che possa garantire una morale valida per tutti. Kant formula il problema con una terminologia piuttosto complessa, chiedendosi ' quali moventi soggettivi dell'azione umana possono aspirare a valere universalmente, ossia a divenire motivi oggettivi dell'azione? 'Movente per Kant è ciò che ci spinge a compiere un'azione; resta ora da chiarire quale, tra tutti i possibili moventi, può essere motivo , ovvero movente universale, valido per tutti. Kant, dopo aver radicalmente escluso la sensibilità, afferma che spetterà alla ragione la fondazione della morale. Anche la ragione nel suo uso 'pratico' avrà delle forme, proprio come la ragione nel suo uso 'puro', ma si tratterà di forme non per conoscere gli oggetti, bensì per istituirli, per agire nella realtà e cambiarla: il movente, perchè ci sia oggettività, deve diventare motivo, cioè movente universale, e perchè questo avvenga dovrà essere fondato nelle forme, uguali in tutti gli uomini, della ragione pratica. A questo punto Kant introduce il concetto di volontà buona , già espresso in un'epistola in cui spiegava che, di tutte le cose al mondo, solo una è assolutamente buona: ed è proprio la volontà buona. Si comincia dunque a capire come Kant al 'genio', ovvero al frutto estremo della ragion pura, preferisca il 'santo', cioè il frutto estremo della ragion pratica. In altri termini, per Kant la morale conta più dell'intelligenza, poichè quest'ultima può anche non essere buona, se rivolta al male. L'intelligenza è positiva solo nella misura in cui viene orientata dalla volontà buona, la quale assurge dunque al vertice per importanza: ecco dove risiede il primato della ragione pratica di cui parla Kant con insistenza. Il fatto che si tratti di una volontà buona suggerisce l'idea che la morale kantiana, in fondo, sia una morale dell'intenzione , dove cioè quel che effettivamente deve essere giudicato nel comportamento non è l'esito dell'azione, ma l'intenzione (la volontà) con cui la si è compiuta. Per agire bene non conta cosa faccio e come lo faccio, ma che lo faccia con buone intenzioni. Se agisco con delle buone intenzioni ma con esiti catastrofici, significa che c'era la volontà buona ma mancava l'intelligenza, che peraltro non può essere giudicata moralmente. Per Kant è dunque molto meglio un'azione compiuta con buone intenzioni, ma con pessimi risultati, che non un'azione compiuta con pessime intenzioni ma ottimi risultati. Vi è quasi una sorta di interiorizzazione della morale, per cui ad essere giudicato buono o cattivo non è l'azione esterna con le sue conseguenze, ma è l'intenzione interna, il sentimento che mi ha mosso ad agire: il mito di Edipo esprime bene la conflittualità tra interiorizzazione ed esteriorizzazione della morale, tra mondo moderno e mondo arcaico. Edipo si trova a dover pagare per il suo comportamento malvagio, per aver ucciso il padre e sposato la madre, pur avendo agito con le migliori intenzioni possibili, dentro di sè. Egli ha compiuto azioni moralmente giuste, ma dagli esiti dannosi, e la morale kantiana, senz'ombra di dubbio, lo assolverebbe, mentre invece il mondo greco, concependo la colpa come un qualcosa di quasi tangibile, lo condanna: la peste stessa che si scatena su Tebe è il riflesso oggettivo della presenza della colpa, intesa come inevitabilmente legata a quel che viene fatto (e non alle intenzioni). Con il Cristianesimo, invece, vi è un'interiorizzazione sempre maggiore, che raggiunge l'apice in Kant; per lui, infatti, non esistono buone o cattive azioni, ma solo buone o cattive intenzioni. Si tratta però di capire che cosa determini la volontà buona e in che modo la determini: Kant spiega che essa è determinata solo e soltanto dalla ragione (dunque è una morale universale) attraverso gli imperativi. A questo punto, il filosofo distingue tra imperativi ipotetici e imperativo categorico: quest'ultimo è la forma che assume la ragione pratica ed è uno solo, sebbene si articoli in 3 diverse formulazioni. Gli imperativi ipotetici comandano un'azione in vista di un fine particolare, che non deve essere necessariamente condiviso da tutti e non possono avere dunque validità universale. Se ad esempio dico: 'se vuoi permetterti le vacanze nei paesi esotici, allora devi guadagnare parecchio' mi trovo di fronte ad un imperativo ipotetico, caratterizzato dalla formulazione nei termini 'se..., allora...'. La distinzione degli imperativi ipotetici (che richiamano alla mente i giudizi e i sillogismi) dall'imperativo categorico risiede nel fatto che essi non hanno valenza assoluta, mentre l'imperativo categorico ce l'ha (mi dice incondizionatamente 'fai così' senza pormi alternative). Gli imperativi ipotetici mi dicono che se voglio x, allora devo fare y, ma se non voglio x posso anche non fare y, senza che nulla me lo impedisca. Gli imperativi ipotetici sono esattamente quelli cui faceva riferimento Hume, in cui la ragione è soggiogata alle passioni: gli obiettivi da raggiungere non vengono discussi, ma sono dati per scontati. Dicendo 'se vuoi fare le vacanze ai tropici, allora devi guadagnare parecchio' la ragione è solo lo strumento che mi indica come fare ('guadagnare parecchio') per conseguire il fine ('andare in vacanza ai tropici') che mi sono proposto. Ora, però, il fine è dettato dalla passione, non c'è una spiegazione razionale al fatto che io voglia andare in vacanza ai tropici: lo voglio perchè mi piace, si tratta dunque di una passione. E del resto non mi trovo di fronte ad un obbligo: puoi andare in vacanza come non andarci, se però vuoi andarci allora devi guadagnare. Saranno i tuoi gusti, le tue passioni a dirti cosa fare. Negli imperativi ipotetici, dunque, il se è dato da una passione, mentre l' allora è dato dalla ragione: se vuoi quello (passione), allora devi fare questo (la ragione mi dice come fare per soddisfare la passione). In questi imperativi, a rigore, la ragione non entra in ambito pratico poichè non mi dice qualcosa sugli obiettivi ultimi: essa rimane salda all'ambito teoretico, in quanto si limita a darmi una verità sul funzionamento del mondo (senza soldi non si fanno le vacanze); l'obiettivo (andare in vacanza) è la passione a dirmelo. Dopo aver spiegato che è 'ipotetico' perchè presente il 'se..., allora...', occorre spiegare perchè si chiama 'imperativo': si chiama imperativo perchè mi comanda (' impero ' in latino significa comandare ) come agire per ottenere un obiettivo imposto dalla passione. Si tratta dunque di un'espressione che assume la forma di una legge, di una legge della passione nel caso degli ipotetici. Per esseri perfettamente razionali che non devono combattere con le passioni, quali sono Dio e gli angeli, ad esempio, quelli che chiamiamo imperativi sono pure e semplici leggi; saranno invece imperativi, cioè comandi, per coloro i quali non si conformano in modo del tutto spontaneo alla legge che viene imposta, per così dire, dall'esterno: esseri di questo genere sono gli uomini, in continuo conflitto con le passioni. Per Leibniz Dio era del tutto libero, ma al tempo stesso costretto moralmente a scegliere di creare il migliore dei mondi possibili poichè fa parte della sua perfezione razionale il seguire la legge morale: ecco dunque che la creazione del miglior mondo possibile per Dio era una legge e non un imperativo, non un comando. E questo è esattamente ciò che intende Kant. L'imperativo, dunque, non vale per Dio, ma neanche per gli animali, i quali, sprovvisti di ragione, sentono solo e soltanto leggi fisiologiche e passioni, mai leggi morali. Gli imperativi, dunque, valgono solo per quello strano essere intermedio che è l'uomo, quell'essere mostruoso, agli occhi di Pascal, ibrido di grandezza e di bassezza. Nell'uomo convivono la sfera razionale e quella passionale, per cui, per conformarsi a tali leggi, egli deve sforzarsi e soffrire; tali leggi, in altri termini, per l'uomo non sono più leggi, ma imperativi, comandi da seguire con sforzo immane, per far dominare la morale razionale su quella passionale. Si tratta dunque di un imperativo poichè è la legge morale che si deve imporre; da un lato, l'uomo risente, come tutti gli altri animali, della legge fisica, ma, dall'altro lato, risente di quella morale, che è tipica degli esseri razionali; essa entra in contrasto con la legge fisica e gli enti allo stesso tempo empirici e razionali, quali l'uomo, devono obbedire ad entrambe, sebbene ciò a cui si obbedisce con la legge fisica sia una vera e propria legge (ad esempio, un sasso lasciato dalla mano cade e non può fare diversamente), mentre ciò a cui si obbedisce con la legge morale è la rappresentazione della legge : se la legge è necessaria (il sasso cade e non può fare diversamente), la rappresentazione della legge è un obbligo, ma non una necessità: so cosa è giusto e cosa è sbagliato, e sento l'obbligo morale di agire nel giusto. Nella lingua tedesca, poi, c'è una netta distinzione, assente nella lingua italiana, tra 'dovere' inteso come obbligo morale e 'dovere' inteso come necessità. Per l'uomo, dunque, la legge si configura come un imperativo, cioè come qualcosa che lo costringe; sembra che si tratti di un obbligo imposto dall'esterno, ed effettivamente lo è se guardiamo all'uomo come animale spinto dalla legge della natura ad agire in un modo, ma esortato dalla legge morale, imposta come obbligo dall'esterno, a fare qualcos'altro; in realtà, però, se guardiamo all'uomo come essere razionale ci accorgiamo che la legge morale è intrinseca alla sua natura: quando cioè l'uomo obbedisce alla legge morale, egli obbedisce a se stesso e non a qualcosa di esterno. Ecco allora che affiora il concetto tipicamente kantiano dell' autonomia della morale , è cioè l'uomo a dar le leggi a se stesso poichè, obbedendo alla ragione che gli detta la legge morale, egli obbedisce a se stesso. Certo, l'uomo fisico, non razionale, soffre per obbedire a tale legge poichè i suoi impulsi lo spingono in un'altra direzione, ed è proprio per questo motivo che la legge morale è al tempo stesso piacevole e dolorosa : piacevole poichè coerente con la natura razionale dell'uomo, ma dolorosa poichè in contrasto con la natura fisica dell'uomo. Ricapitolando: negli imperativi ipotetici agisce la ragione nella sua veste teoretica, nell'imperativo categorico, invece, ritroviamo la ragione pratica: esso mi dice categoricamente di agire in quel dato modo, ed è la ragion pratica a determinare la volontà. Ci troviamo così di fronte ad una volontà autonoma, che obbedisce alla natura dell'uomo. E' interessante che Kant insista a lungo sul concetto di autonomia: nell'ambito dei moventi (cioè ciò che ci spinge ad un'azione), distingue quelli che lui chiama moventi eteronomi dall'unico movente autonomo , dettato dalla morale: la legge morale è movente autonomo poichè è la ragione stessa a darcelo, moventi eteronomi saranno invece tutti quelli che esulano dalla ragione, e Kant ne cita tantissimi; due meritano di essere ricordati. Nell'ambito dei moventi eteronomi Kant cita la morale epicurea, consistente nel seguire il piacere: obbedire al piacere significa obbedire non alla parte razionale dell'uomo, bensì a quella meramente fisica; si tratta di un'evidente eteronomia rispetto alla natura razionale dell'uomo, tanto più che la morale, per essere oggettiva e universale come Kant la vuole, non può basarsi sul piacere, poichè esso varia di persona in persona (a me piace questo, a te quest'altro, a lui nessuna delle due cose...). Nel rifiuto kantiano della morale epicurea possiamo scorgere qualche elemento del rigore del pietismo, che ha indotto molti studiosi a parlare di un vero e proprio 'rigorismo kantiano'. L'altro movente eteronomio che cita è quello che invita ad obbedire alla volontà di Dio: obbedendo alla volontà di Dio si ricade inevitabilmente nella morale edonistica di stampo epicureo poichè si agisce per fare la volontà di Dio e, in ultima istanza, per guadagnarsi un posto in paradiso, ovvero per ottenere la felicità, il piacere. Da notare, che quanto detto da Kant non implica un rifiuto della morale epicurea o della volontà di Dio: Kant dice solo che esse non garantiscono oggettività alla morale, sono cioè moventi che non potranno mai diventare motivi. Rimane dunque valida esclusivamente la morale fondata sulla ragione, l'unica ad essere dotata di oggettività: a darcela è l' imperativo categorico , il quale si distingue da tutte le morali eteronome per il fatto che mentre esse danno sempre un contenuto (vuoi che mi dicano che il bene è il piacere o la volontà di Dio), l'imperativo categorico dà una forma: mi dice 'comportati in maniera tale che...' . Non dà obiettivi e contenuti, bensì è formulato in termini formali, mi dà i criteri formali per giudicare di volta in volta ciò che è giusto e ciò che non lo è. Kant, nella Critica della ragion pura , aveva spiegato che l'unica cosa che possa rendere oggettiva la conoscenza è l'essere inquadrata in forme trascendentali, poichè il contenuto empirico non mi darà mai oggettività; e ora, con un ragionamento affine, spiega che solo la forma potrà conferire oggettività alla morale; si tratta dunque di trovare un criterio formale dettato dalla ragione, che, di fronte a specifici contenuti, mi dica che x, y oppure z è giusto, e non solo per me, ma per tutti, non solo adesso, ma sempre, non solo qui, ma ovunque. In altri scritti, Kant precisa che questo è il fondamento stesso della morale cristiana, la quale cerca di conferire oggettività alla propria morale con la massima 'non fare ad altri ciò che non faresti a te stesso'. Anche il categorico è un imperativo, un obbligo, in quanto mi impone di agire in un determinato modo, senza tener conto del mio interesse, del mio piacere e, in fin dei conti, della mia natura fisica. A rigore, l'imperativo categorico è più imperativo di quanto non possano sembrare gli ipotetici, in quanto essi sono basati sulle passioni, quasi come se si seguisse la natura fisica anzichè quella razionale: 'voglio andare in vacanza' è una passione, un'esigenza fisica. Però Kant fa notare una cosa: in 'se voglio andare in vacanza, allora devo guadagnare soldi' la ragione (teoretica) mi dice che per soddisfare la passione (andare in vacanza) devo agire in quel modo (guadagnare) e mi dirà, inoltre, come fare per guadagnare: potrà suggerirmi di lavorare, di tentare con la lotteria, o quant'altro, ma si tratterà sempre, e qui sta il passo fondamentale, di un sacrificio, di una costrizione che ci imponiamo. Se mi metto a lavorare compio un grande sacrificio con una grande possibilità di guadagnare, se invece tento con la lotteria compio un piccolo sacrificio ma ho una piccola possibilità di guadagnare. Fatto sta che la ragione, come nel categorico, si impone come costrizione, come forzatura alla nostra natura fisica, in quanto ci fa andare in una direzione diversa da quella in cui andremmo spontaneamente, seguendo la legge fisica. Posso usare i soldi di cui dispongo per comprarmi un gelato o per far qualsiasi altra cosa, ma la ragione mi impone di usarli per comprare il biglietto della lotteria, rinuncio cioè ad un desiderio (comprare il gelato) a favore di un altro desiderio (comprare il biglietto, e magari vincere), facendo cioè quello che Epicuro chiamava 'calcolo dei piaceri'. La problematica può però diventare sempre più sottile e Kant fa in merito l'esempio dell'elemosina, dell'elargizione di denaro ad un bisognoso. Perchè la faccio? Quale è l'intenzione con cui la faccio? Se decido di non farla perchè convinto che sia un incentivo a non cercarsi un lavoro, è moralmente positivo perchè l'intenzione è buona. Posso anche farla solo per motivi di interesse, per mettermi in mostra con tale azione agli occhi della gente: in questo caso la morale non c'entra nulla e l'azione è dettata dall'aspirazione ad avere una buona immagine. Posso anche fare l'elemosina non per mettermi in mostra ma solo per aiutare il prossimo: Hume diceva che in realtà anche in questo caso si agisce egoisticamente, perchè la sofferenza di chi fa l'elemosina ci 'contagia' e lo aiutiamo perchè non soffra e non possa contagiarci. Questa era del resto, propriamente, la morale humeana, che dal punto di vista kantiano è una morale eteronomica, che varia di persona in persona, scevra da oggettività: a me uno che soffre può far soffrire, a te magari no. E' quasi come se, di fronte alla sofferenza che travaglia il mondo, ciascuno di noi soffrisse e fosse disposto a fare sacrifici pur di migliorare le cose, per non soffrire più lui stesso: la ragione è del tutto fuori campo, però, ed è la sensibilità a farla da padrona (soffro a vedere il male). In conclusione, esiste l'imperativo categorico o no? Con i casi appena illustrati, sembra che la ragione sia tagliata fuori, così come tagliata fuori è la morale. Fino a che punto agisco per far piacere agli altri o a me stesso e non perchè lo ritengo moralmente giusto? E l'ho fatto perchè mi sembra moralmente giusto ma non perchè è giusto, bensì per ottenere autostima per aver fatto qualcosa di giusto? E' un problema complesso. Se fra tutti i comportamenti assunti ne trovo almeno uno di cui possa dire che l'ho assunto solo perchè moralmente giusto, perchè era un dovere farlo, non per trarne vantaggi personali o per far piacere ad altri, allora posso dire che l'impianto della morale kantiana è corretto, e che l'imperativo categorico esiste; se, viceversa, scavando dentro di me non riesco a trovare tutto questo, allora l'impianto della morale kantiana è sbagliato, e l'imperativo categorico non esiste. Se almeno una volta dentro di noi abbiamo avuto un conflitto tra un piacere e un dovere, tra un'azione piacevole e una assolutamente sentita come doverosa, allora l'imperativo categorico esiste, la legge morale c'è. Freud, però, ha un pò smascherato la morale kantiana, facendo notare che quello che possiamo trovare dentro di noi come dovere, come voce della coscienza, non è altro che l'interiorizzazione di obblighi che la società tende ad imporci: i genitori da bambino mi dicevano di far così, la polizia da grande di fare così, e ho finito per interiorizzare questa autorità e per vedere questa legge autoritaria come legge morale: la legge morale kantiana diventa così per Freud il risultato di un processo imposto dall'esterno. Esaminiamo ora le formulazioni dell'imperativo categorico: esso ha una formulazione generale e tre sottoformulazioni. Quella generale dice: ' Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che diventi una legge universale '. 'Massima' sta per regola di comportamento soggettiva, ognuno cioè si comporterà secondo una propria massima e, proprio per questo, le massime sono soggettive. Perchè esse possano diventare leggi, ovvero massime di valore universale, devono diventare oggettive. E l'imperativo categorico mi dice appunto di agire in modo che le massime che assumo possano essere leggi : se prendo come regola di comportamento una massima che valga per tutti, sempre e ovunque, allora sarà una massima universale, ovvero una legge, e dovrò dunque assumerla. Da notare che ancora una volta siamo di fronte ad un'espressione formale, non contenutistica: 'agisci in modo che...'. Delle tre formulazioni in cui si articola l'imperativo ipotetico, la prima dice: ' Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura '. Mi dice cioè di agire secondo quella massima (o 'regola') che potrei volere che diventasse legge di natura, ovvero legge che regola l'andamento della natura. Se desidero che la mia massima soggettiva diventi legge della natura, allora tale massima sarà investita di carattere universale, e da massima potrà diventare legge. Piuttosto simile alla prima formulazione è anche la terza, la quale dice: ' Agisci in modo che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice '. Con questa sottoformulazione Kant sottolinea nuovamente l'autonomia della volontà, ovvero il dar leggi a se stessa (in quanto razionale): quando la volontà obbedisce alla ragione, in realtà sta obbedendo a se stessa. A proposito del concetto di autonomia, Kant fa notare che apparteniamo ad un regno in cui siamo sudditi e legislatori: come esseri fisici obbediamo alle leggi di natura, ma con l'esperienza morale entriamo in un'altra dimensione, ovvero nel regno della libertà, che Kant chiama regno dei fini . Laddove tutto procede in maniera deterministica, non può esservi libertà e, di conseguenza, non può esserci il finalismo; ma, dove invece regna la libertà, ecco che lì troviamo anche il finalismo, la libertà di perseguire i propri fini. La nostra parte fisica è succube di un mondo deterministico (il mondo fisico), ma, nel momento in cui ho l'esperienza morale, entro in una nuova dimensione, nella quale posso scegliere liberamente secondo i fini a cui aspiro. Sento dunque di far parte del regno della natura, ma anche di quello dei fini, un regno in cui siamo legislatori (ci diamo le leggi) e sudditi (dobbiamo obbedire alle leggi che ci siamo dati). Con l'idea che siamo sudditi e legislatori Kant si riallaccia al discorso di Rousseau, il quale diceva che nella democrazia siamo sudditi perchè dobbiamo rispettare le leggi, ma siamo anche legislatori, perchè siamo noi a darci tali leggi. La seconda formulazione dell'imperativo categorico, in apparenza, è diversa rispetto alle altre due ed è di ispirazione hobbesiana e spinoziana; essa recita: ' Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo '. E' una formulazione un pò anomala perchè, mentre le altre due sono di carattere formale e, in sostanza, mi dicono di agire in modo che la mia massima sia universale, questa mi dà dei contenuti, dei fini dell'azione morale. Tuttavia il contenuto, a ben pensarci, è dato dalla stessa forma poichè, se le altre due insistevano sulla razionalità, qui la razionalità (che sta alla base della legge che ci diamo) non fa altro che riconoscere se stessa come fine e non come semplice mezzo. In altri termini, il nucleo del ragionamento è che, a ben pensarci, l'unica cosa che non può mai essere solo un mezzo, un puro strumento per ottenere altre cose, ma, al contrario, deve essere un 'fine', uno scopo in sè, un valore intrinseco, è l'umanità, l'insieme delle altre persone dotate di ragione. Potrò usare come semplice strumento, in qualsiasi modo io voglia, un pezzo di legno, una pietra, ma non potrò mai usare una persona come puro e semplice mezzo per realizzare i miei fini, poichè l'uomo è un fine in sè, non è una semplice cosa come tutte le altre. Ma in base a che criterio dico che l'uomo è un fine e tutto il resto non lo è? In base al criterio della razionalità, dice Kant (e qui si evince quanto egli sia illuminista): è la ragione che riconosce in se stessa (cioè negli altri esseri razionali) un fine, un valore in sè . Spesso questa affermazione kantiana è stata interpretata scorrettamente, facendo notare, ad esempio, che un imprenditore che assume degli operai e li fa lavorare, arricchendosi grazie al loro lavoro, li tratta come mezzi, quasi come se la ragione in questo caso non riconoscesse un fine in sè negli operai. In realtà, la formulazione di Kant dice di agire in modo da trattare le persone non solo come mezzo, ma anche come fine: secondo Kant trattare gli altri come mezzo va bene, purchè li si tratti anche come fine. Il comportamento dell'imprenditore che usa gli operai come mezzi per guadagnare non è immorale, se egli li tratta anche come fine in sè; sarebbe immorale se li trattasse solo come mezzi (e non come fini), senza porre limiti allo sfruttamento, trattando gli operai come semplici 'cose'. Ci sono dunque limiti all'uso che possiamo fare delle persone, limiti di rispetto che non possono essere travalicati, poichè le persone, in quanto esseri razionali, hanno un valore in sè, hanno fini loro che non sono miei. Kant ha dunque riconosciuto che nell'uso strumentale che facciamo delle persone non possiamo non tenere presente che esse hanno un valore intrinseco, e nell' Ottocento ci sarà chi, come Stirner, dirà che l'unico fine, l'unico valore per noi stessi, paradossalmente, siamo noi stessi e tutti gli altri sono semplici mezzi per realizzare i propri fini. Kant, da buon illuminista, stabilisce che cosa è un fine in sè e che cosa non lo è secondo il criterio della ragione: ad imporci la legge morale è la ragione, la quale riconosce se stessa come unico valore assoluto, con la conseguenza inevitabile che ciò che è razionale è un valore in sè, ciò che non è razionale è solo uno strumento . Nel Novecento, però, ci sarà chi adotterà la sensibilità come criterio, con la conseguenza che saranno fini in sè tutti gli esseri sensibili, cioè tutti gli esseri che provano piaceri e dolori (uomini, animali, piante). Perchè, in effetti, la razionalità è un qualcosa in più, che viene dopo rispetto alla sensibilità: la differenza più evidente che spacca in due il mondo non è che vi siano esseri razionali ed esseri privi di ragione, ma che vi siano esseri che provano sensazioni ed esseri che non le provano. La ragione è un qualcosa in più, grazie al quale si affina, per così dire, la sensibilità, nel senso che grazie alla ragione posso già soffrire fin da adesso al pensiero che un giorno dovrò morire o, viceversa, posso già gioire adesso all'idea che domani farò qualcosa di piacevole. Sempre nel Novecento, Heidegger si porrà il problema dei diritti dell'essere (l'essere in senso parmenideo), chiedendosi se l'uomo ha dei diritti nei confronti dell'essere, e giungerà alla conclusione che l'uomo deve mettersi 'in ascolto dell'essere'. Questa seconda formulazione dell'imperativo categorico risente in qualche misura del pensiero di Hobbes e di Spinoza: i due pensatori seicenteschi furono infatti i primi a capovolgere il concetto di bene e di male, facendo notare come lo scopo dell'etica non sia indicare un bene e poi invitare a perseguirlo: non si deve obbedire a ciò che è bene, bensì sarà 'bene' ciò che di fatto l'uomo persegue, mentre sarà 'male' ciò che l'uomo evita. Il discorso di Kant è diverso, poichè la sua è un'etica rigorosa, insegna che l'uomo deve reprimere le sue pulsioni per seguire il dovere morale, tuttavia è simile al discorso di Hobbes e di Spinoza poichè non vede il bene come un qualcosa di originario, bensì come un concetto derivato: si stabilisce ciò che l'uomo deve fare e ciò che farà sarà il bene. Kant ha infatti individuato la legge della ragione, ha trovato un motivo, una legge morale effettivamente universale, che recita 'comportati in modo tale da...', il che implicherà il venir fuori di un contenuto, perchè comportandomi nel modo indicatomi in termini formali dall'imperativo categorico dovrò pur fare qualcosa, e quel qualcosa sarà il bene, ovvero il comportamento dettato dalla legge morale. Kant rifiuta qualsiasi movente sensibile come movente morale, però riconosce l'esistenza di un sentimento morale, che non è il motivo dell'azione, ma il sentimento che ci coglie in presenza del dovere, in presenza della contemplazione del dovere, ovvero della rappresentazione della legge: gli enti fisici obbediscono alle leggi della natura, noi uomini alla rappresentazione della legge, è cioè la nostra ragione pratica che può scegliere. Un sentimento morale, è evidente, non potrà mai determinare il mio agire, poichè, in virtù della sua sensibilità, sarà sempre soggettivo; ma ciò non toglie che possa nascere un sentimento morale, che Kant chiama sentimento del rispetto della legge morale, quasi come se fossimo colti da profonda ammirazione verso la legge morale. E' un sentimento positivo e negativo al tempo stesso, poichè nel contemplare la legge morale sono insoddisfatto e soddisfatto di me, dal momento che essa tende a reprimere le mie pulsioni materiali (e ne soffro), ma rendendomi conto di poter obbedire, solo tra tutti gli esseri del creato, a tale legge provo un sentimento sconfinato di ammirazione per la maestà della legge, una sorta di ammirazione verso noi stessi, visto che la legge morale è espressione della nostra profonda razionalità. L'uomo stesso è un essere ambiguo, insiste Kant in sintonia con Pascal, un essere sensibile e razionale, e il dovere, nella misura in cui reprime la dimensione sensibile, lo fa soffrire, ma, nella misura in cui gli fa sentire di essere superiore a tutta la natura empirica, è per lui motivo di immensa soddisfazione. Kant usa due espressioni divenute celeberrime, aprendo quasi una parentesi lirica nella profonda razionalità del suo discorso e dice: ' Dovere! Nome sublime ' e ' Due cose riempono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me . Tali espressioni vanno viste insieme perchè, nella Critica del giudizio , accanto al bello e al brutto, Kant individuerà la categoria di sublime, un concetto che sarà tipicamente romantico e che designa un qualcosa di al tempo stesso piacevole e spiacevole: si proverà il sentimento del sublime di fronte ad alcuni spettacoli della natura caratterizzati da sterminata potenza (il mare in tempesta) e da sterminata grandezza (le catene montuose e il cielo stellato), ci si sentirà cioè presi da profondo piacere nel vedere tali meraviglie, ma anche da immenso sgomento nel rendersi conto della propria impotenza di fronte a tali spettacoli. Ora, a proposito del dovere Kant si avvale proprio dell'aggettivo di sublime, nella prima espressione, e lo accosta al cielo stellato, nella seconda: è come se vi fosse mescolanza del sentimento di potenza a quello di impotenza, la nostra natura sensibile è oppressa dal dovere, ma quella razionale si identifica con esso, cosicchè il dovere assume, alla pari del cielo stellato, un carattere sublime, positivo e negativo allo stesso tempo. Questo sentimento morale di rispetto verso il dovere che nasce in noi non toglie, però, che non vi sia alcun sentimento morale che sia motivo della legge morale: sarà motivo di rispetto per la legge morale, ma mai motivo stesso della legge morale. Infatti, l'azione morale, di per sè, è totalmente razionale, ma, come conseguenza della contemplazione di tale legge, deriva, a posteriori, il sentimento di rispetto verso tale legge: il sentimento di rispetto non potrebbe mai e poi mai essere a priori rispetto alla legge morale perchè esso è soggettivo, varia da persona a persona; la soddisfazione del sentimento morale, dunque, viene dopo l'azione morale, anche perchè se compissi l'azione morale solo per provare il 'sentimento di rispetto', ovvero solo per provare soddisfazione e appagamento, non sarebbe più un'azione morale. Ne consegue che il sentimento di rispetto non deve essere motivo dell'azione, ma effetto . Anche la Critica della ragion pratica , come la Critica della ragion pura , ha una sua partizione, sebbene sia meno rilevante. La parte finora analizzata va sotto il nome di Analitica , e, accanto ad essa, vi è anche una Dialettica , in cui Kant cerca di risolvere problemi lasciati in sospeso nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura , e, più precisamente, la questione relativa alle antinomie. Il senso della Dialettica della ragione pratica risiederà proprio nel riuscire a dare contenuto a quei concetti puri (idee) che nella Dialettica trascendentale erano rimasti vuoti: l'idea di Dio, di anima e di mondo. Delle 4 antinomie, a Kant interessa soprattutto quella riguardante il problema della libertà, e non tanto le 2 matematiche, poichè entrambe false. Più problematiche sono le antinomie dinamiche, perchè entrambe vere: una era vera a livello fenomenico (la necessità), l'altra poteva essere vera a livello noumenico (la libertà). Ora Kant dimostrerà reale, e non solo possibile, la libertà a livello noumenico, occupandosi anche delle 3 idee fondamentali: all'idea di anima corrisponderà l'affermazione dell'immortalità dell'anima, all'idea di mondo l'affermazione della libertà (a livello noumenico), all'idea di Dio l'affermazione della sua esistenza. Queste cose non possono essere dimostrate, ha detto Kant nella Critica della ragion pura , e come si fa dunque ad affermarle in ambito morale, come intende appunto fare il filosofo tedesco? Queste tre idee (immortalità dell'anima, libertà nel mondo, esistenza di Dio) vengono proclamate postulati della ragion pratica , devono cioè essere accettate per vere anche se indimostrabili, proprio come la geometria poggia su dei concetti non dimostrati ma accettati come validi. Si tratterà dunque di affermazioni teoretiche che devono essere ammesse a fronte della constatazione della legge morale e, pertanto, sono strettamente connesse ad essa. Sono dunque affermazioni di stampo teoretico (l'anima è immortale, Dio esiste, nel mondo noumenico vige la libertà), ma strettamente legate all'esperienza morale, tanto da essere inutilizzabili in campo teoretico. In concreto, l'esperienza morale mi può dare la convinzione incrollabile della libertà, dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio senza che su questo si possa costruire una scienza, una filosofia e una teologia, vale a dire che, fuori dall'ambito morale, i postulati della ragion pratica non servono a nulla . Esaminiamo ora tali postulati, nell'ordine in cui li esamina Kant: il primo è il postulato della libertà . Nella Critica della ragion pura essa era stata dichiarata possibile, ma solo in ambito noumenico. In ambito fenomenico siamo costretti ad ammettere che tutto proceda in modo deterministico con la concatenazione causale. Una eventuale obiezione è che, se tutto fosse deterministico, allora potremmo prevedere il comportamento altrui, poichè esso dovrebbe seguire rigide leggi causali: Kant controbatte che l'uomo è un essere complesso ed ambiguo, e proprio per questo non si può prevedere il suo comportamento, sebbene a livello fenomenico tutto (uomo compreso) sia deterministico. Se lascio cadere un sasso, esso non può che cadere, ma se dico qualcosa ad una persona non posso sapere come si comporterà, proprio in virtù della sua complessità. Nella Critica della ragion pratica Kant, riprendendo concezioni erasmiane, non dice più che la libertà a livello noumenico è possibile, bensì sostiene che essa esiste effettivamente, sempre e solo a livello noumenico. Erasmo dimostrava l'esistenza della libertà umana facendo notare che Dio non avrebbe dato delle leggi all'uomo se l'uomo non avesse la libertà di seguirle. Ora, Kant non può ancora far leva sulla credenza in Dio perchè non ha ancora trattato il postulato dell'esistenza di Dio, e del resto la morale, per essere autonoma e non eteronoma, non può fondarsi su Dio; tuttavia egli può far leva su una legge. Infatti, dentro di noi c'è una legge, dettata dall'imperativo categorico, e l'esistenza di tale legge implica l'esistenza della libertà di ottemperarla . Questo ragionamento con cui afferma l'esistenza della libertà a livello noumenico, Kant lo chiama deduzione della libertà , in analogia con le due deduzioni delle categorie. Si parte da un fatto indimostrabile (l'esistenza della legge dentro di noi), un fatto della ragione, e da esso si 'deduce', cioè si giustifica, l'esistenza della libertà umana. Kant sintetizza la deduzione della libertà in un'espressione famosa: devo, dunque posso ; se è un mio dovere fare qualcosa, allora posso necessariamente anche farlo. Tuttavia, va notato, si tratta di un dovere formale, dove non mi si dice in termini contenutistici che se devo fare x, allora posso farlo. Secondo Kant è sempre possibile fare la cosa che in quel momento è giusto fare . Se fosse una morale di contenuti, allora non reggerebbe, perchè non è vero che se devo studiare, allora posso farlo, perchè magari le condizioni materiali me lo impediscono. In ogni condizione è sempre possibile assumere un comportamento che risponda alla forma delle legge, posso cioè sempre trovare quel comportamento che mi sembra giusto che tutti, universalmente, assumano. E' dunque sempre possibile un comportamento che risponda al carattere formale della legge; ciò non vuol dire che posso materialmente fare qualsiasi cosa, ma in ogni determinata condizione sono sempre libero, ho la possibilità di fare la cosa giusta. Se c'è il dovere, se c'è una legge, quindi, c'è anche la libertà, la possibilità, che tale legge sia rispettata, ovvero c'è quello che Erasmo chiamava 'libero arbitrio'.Questo non toglie che ogni nostro comportamento, a livello fenomenico, avvenga in maniera causale, ovvero come effetto di una causa; a livello fenomenico non constatiamo mai la presenza della libertà, ma solo la presenza della legge, ma se ammettiamo la legge non possiamo fare a meno di postulare l'esistenza della libertà. E con questo Kant risolve anche un' apparente contraddizione nella quale viviamo costantemente: veniamo puniti o premiati per i nostri comportamenti, ma se tutto procede deterministicamente nessuno merita premi o punizioni, poichè si comporta come non potrebbe non comportarsi, non in base ad una libera scelta. Eppure nessuno di noi si lascia convincere da questa considerazione: è fatto così e non poteva comportarsi diversamente, dunque non merita punizioni. Viviamo dunque in questa contraddizione, consideriamo i comportamenti come effetti necessari del carattere di qualcuno, ma poi consideriamo tali comportamenti indipendentemente dal carattere della persona. Con il discorso kantiano la contraddizione si risolve con la distinzione tra livello fenomenico, in cui tutto avviene secondo concatenazione e in cui è legittimo dire che un delinquente non potrà che delinquere perchè il suo carattere è così, e livello noumenico, in cui è vige la libertà e in cui il delinquente è libero di scegliere se delinquere o no. Quando sceglie di delinquere lo fa per sua libera scelta e per questo è suscettibile di giudizio morale, di premi o di punizioni, cosa impossibile se tutto fosse deterministico. Per chiarire il rapporto tra libertà e legge morale Kant si serve di due espressioni desunte dalla filosofia scolastica: la libertà è condizione sostanziale ( ratio essendi ) della legge morale, poichè non sarebbe possibile una moralità priva di libertà, dal momento che verrebbe meno la capacità del soggetto di essere libero, artefice delle proprie azioni, e di conseguenza esse non potrebbero essere giudicate buone o cattive. La legge morale, dal canto suo, è la condizione cognitiva ( ratio cognoscendi ) della libertà, nel senso che riesco a postulare la libertà solo grazie all'esperienza morale, in virtù della quale, appunto, mi percepisco come libero: sento la legge morale come fatto della ragione e postulo l'esistenza della libertà perchè ho l'esperienza morale. Si tratta dunque di due cose connesse tra loro, poichè senza legge morale non potrei postulare l'esistenza della libertà, ma senza libertà non potrei avere l'esperienza morale. Del resto, la libertà è ciò con cui effettuiamo le scelte ed esse sono regolate dalla rappresentazione della legge morale dentro di noi; muovendo da queste considerazioni, Kant perviene al 2° postulato della ragion pratica, l' immortalità dell'anima : nella Critica della ragion pura Kant ha spiegato che l'idea di anima deriva da un paralogismo, ovvero da un sillogismo sbagliato che ci porta a considerare l'Io come sostanza; ora Kant sottolinea il carattere 'categorico' (assoluto) dell'imperativo, facendo notare che l'essere categorico implica il non essere sottoposto a condizioni; ne consegue che l'imperativo categorico comanda ed impone la perfezione morale, proprio perchè non invita ad agire secondo i limiti della natura umana, bensì impone categoricamente di agire in un modo, e tale modo è perfetto. Come gli stoici sostenevano che chi è con la testa sott'acqua, che ce l'abbia a 100 metri o a soli 5 centimetri, affoga allo stesso modo, così Kant spiega che, se sono prossimo alla morale o sono lontanissimo da essa, sono allo stesso modo malvagio: o faccio perfettamente ciò che mi comanda l'imperativo categorico, o è come se non lo facessi. Nel 1° postulato la libertà veniva dedotta con la forma devo, dunque posso , dove Kant mostrava come la presenza di una legge implicasse necessariamente la possibilità, la libertà di osservarla; tuttavia, ci si trova di fronte ad una sorta di antinomia della ragion pratica, in quanto so che la legge morale, proprio perchè è una legge, può essere osservata, ma so anche che nell'uomo la razionalità è in conflitto con la sensibilità, con la conseguenza inevitabile che non potrà mai adempiere pienamente i dettami della morale perchè soggetto a impulsi fisici che spingono in direzioni antitetiche. La questione si risolve molto semplicemente, postulando l'immortalità dell'anima: c'è la legge dell'imperativo categorico e posso adempierla ( devo, dunque posso ), ma la natura empirica dell'uomo non me lo permetterà mai, ne consegue che solo ammettendo l'immortalità dell'anima posso ammetere un perfezionamento all'infinito del mio comportamento, fin quando non riuscirò ad osservare la legge morale . Questa soluzione è per molti versi simile a quella data al problema delle antinomie matematiche, che consisteva nel riconoscere che il mondo non è nè infinito nè finito, ma indefinito: in ambito morale, il comportamento dell'uomo è sempre imperfetto, moralmente indefinito, ma questo non impedisce di pensare ad un adeguamento alla perfezione, nella prospettiva di una vita eterna (immortalità dell'anima). Sotto questo profilo, l'adeguamento alla legge morale si configura come idea, ovvero come un qualcosa di riempibile di contenuti empirici solo all'infinito. L'esperienza morale, dunque, mi obbliga a postulare l'immortalità dell'anima per superare l'appena citata antinomia della ragion pratica. Anche in questo Kant si mostra perfettamente allineato con le posizioni illuministiche, pur rivelando alcune suggestioni preromantiche: così come in ambito teoretico la ragione è centrale, ma ha dei limiti, anche in ambito pratico l'uomo non è perfetto, ma è in cammino verso un perfezionamento all'infinito; così come la ragione non ci può far conoscere tutto, anche la legge morale non ci rende perfetti, ma ci fa migliorare all'infinito. Da notare che l'illuminismo di Kant è molto moderato, lungi da ogni estremismo, tant'è che egli, con i postulati della ragion pratica, finisce coll'ammettere tutti i capisaldi della tradizione religiosa cristiana, giungendo a riconoscere l'esistenza di un Dio del tutto analogo a quello cristiano, e non a quello dei deisti, puro e semplice garante dell'ordine nell'universo. Prima ancora di arrivare a postularne l'esistenza, infatti, Kant ha già stabilito quali siano le caratteristiche di Dio (unità e personalità) nella Critica della ragion pura , prendendo nettamente le distanze dal deismo imperante all'epoca e accostandosi al teismo pascaliano, pur rifiutando, in un'ottica illuminista, tutti gli elementi di fanatismo e di superstizione. Con la formula devo, dunque posso l'imperativo categorico deve poter essere adempiuto: e così Kant ha già postulato la libertà del mondo e l'immortalità dell'anima. Tuttavia, a ben pensarci, ciò che ciascuno di noi può desiderare come perfetto adempimento della legge morale non è il puro e semplice adempimento della legge morale in sè, ma è l'adempimento della legge morale accompagnato da una felicità corrispondente: nessuno può desiderare di adempiere la legge morale e basta, ma vuole che accanto a tale adempimento vi sia anche una felicità che da esso deriva. Del resto, vedere un comportamento moralmente perfetto non accompagnato dalla felicità o, addirittura, accompagnato dall'infelicità ci porterebbe a credere che è un'ingiustizia e che il mondo, in fin dei conti, è privo di morale; ciascuno di noi concepirebbe infatti come immorale osservare la legge morale ed essere infelici, poichè convinto che al merito debba seguire un premio. Tutti noi, bene o male, ci attendiamo che dal comportarsi perfettamente derivi una certa felicità, quasi un premio al merito; questa tendenza ad attendersi la felicità dall'adempimento della legge morale deriva dalla nostra natura in parte empirica: se fossimo esseri puramente razionali, l'adempimento della legge morale ci darebbe una piena soddisfazione, ma dal momento che siamo esseri anche empirici, capaci di provare piaceri e dolori, viviamo nella convinzione che l'adempimento della legge morale debba essere accompagnato da una felicità da esso derivata, altrimenti resterebbe in noi un senso di presenza dell' ingiustizia permeata nel mondo. Il presupposto su cui si basa il ragionamento resta quello della possibilità di raggiungere la perfezione morale predicata dall'imperativo categorico; per chiarire il discorso Kant distingue tra bene sommo e bene supremo. Il bene, nell'ottica kantiana, è un concetto derivato, poichè è bene ciò che il dovere mi dice di fare, con la conseguenza che il bene non è un qualcosa verso cui muovere. Il bene supremo è il più alto tra tutti i beni possibili, mentre il bene sommo è il bene completo, perfetto e compiuto: Kant nota che il bene supremo non può essere nè il piacere nè la felicità, dal momento che l'unica cosa buona in assoluto è la volontà buona, mentre tutte le altre sono buone solo in riferimento ad altre cose, e non in sè (ad esempio, l'intelligenza è buona solo se governata dalla buona volontà); è forse un bene che la felicità si accompagni a persone moralmente cattive? Viene istintivo sperare che chi agisce moralmente male non goda di felicità. Ecco allora che il bene supremo è la virtù intesa come corrispondenza alla legge morale, è la 'santità', ovvero una virtù perfetta: adempiere al dovere è una virtù, adempiere perfettamente al dovere è una virtù perfetta. Il bene sommo, al contrario, non è la pura e semplice santità , non è una virtù perfetta e basta, proprio perchè senza felicità o piacere, come accennato, la virtù perfetta non la vivremmo come bene sommo. Dunque, in una persona che si comporta perfettamente, ma soffre moltissimo, senza avere felicità di sorta, riconosceremo il bene supremo, ma non il bene sommo . Pertanto il bene sommo è la virtù perfetta (santità) più la felicità corrispondente, ed esso deve poter essere realizzato altrimenti l'uomo, comportandosi moralmente bene senza essere ricompensato, finirebbe per provare un senso di ingiustizia nel mondo. L'immortalità dell'anima mi garantisce che, sul lungo termine, una virtù perfetta è acquisibile, ovvero mi garantisce la possibilità dell'acquisizione del bene supremo; ma cosa può garantismi l'acquisizione del bene sommo? Kant è pienamente consapevole di trovarsi di fronte ad un problema vecchio quanto il mondo e ritiene che due siano i tipi di soluzione, uno analitico e l'altro sintetico. La soluzione di tipo analitico è quella che sostiene che la felicità e la virtù sono la stessa cosa e che l'una deriva analiticamente dall'altra, come dal concetto di triangolo deriva il fatto che esso abbia tre lati. Di questo stampo sono la filosofia epicurea (la virtù come ricerca intelligente del piacere) e quella stoica (la felicità come coscienza della virtù), che si fondano sulla convinzione che è lo stesso perseguimento della virtù e del piacere a dare la felicità. Kant sa che questo è il frutto di un esasperato ottimismo tipicamente ellenistico, e sa altrettanto bene che virtù e felicità sono due cose diverse, spesso in conflitto tra loro: tra il perseguimento della felicità e il perseguimento del dovere intercorre spesso, per non dire sempre, un'aspra conflittualità. L'imperativo categorico ci dice che tra virtù e felicità c'è un collegamento che deve per forza essere di tipo sintetico: il perseguimento della felicità può comportare come conseguenza l'acquisizione della virtù, o viceversa; a chi si comporta moralmente bene tendono ad accadere cose che gli danno la felicità. Di tipo sintetico era la soluzione data da Socrate e da Platone, convinti entrambi che da un buon comportamente dovessero necessariamente derivare dei premi. Tuttavia quest'unione sintetica per cui dalla felicità deriva la virtù (o viceversa) non è garantita dalle leggi di natura, le quali non implicano che da un buon comportamento derivi la felicità, ne consegue che per rendere possibile tale collegamento sintetico si debba postulare l'esistenza di un ente onnipotente che garantisca corrispondenza tra virtù e felicità: così Kant postula l' esistenza di Dio . Quando mi comporto bene le leggi di natura non mi danno la felicità, ma è Dio a darmela, il quale garantisce l'esistenza del sommo bene (virtù + felicità). Perchè ci possa essere il sommo bene occorre postulare l'esistenza di Dio , ma non del Dio deistico (garante dell'ordine fisico nel mondo), bensì del Dio teistico (garante dell'ordine morale nel mondo): è la condizione senza la quale la legge morale cade. Pertanto la formulazione devo, dunque posso mi permette di postulare la libertà nel mondo, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, anche se queste tre cose restano indimostrabili: non è la ragione a garantirmele, ma è l'esperienza morale. Solo dopo aver avuto l'esperienza morale, infatti, posso avere la convinzione di queste cose. Del resto conoscere razionalmente l'esistenza di Dio prima dell'esperienza morale vorrebbe dire annullare il merito dell'universo, annullare ciò che ci rende degni di felicità: il dovere. Essendo razionalmente certi dell'esistenza di Dio, non agiremmo più in termini morali, ma solo per guadagnarci l'amore di Dio e la conseguente nostra salvezza, facendo così crollare la moralità e con essa la felicità che ne deriva. Questo è uno dei tanti aspetti dell'autonomia della morale kantiana: in campo morale l'uomo è indipendente da motivazioni empiriche, ma anche da motivazioni religiose. Dio lo intravedo come effetto dell'esperienza morale e la morale, per così dire, implica un comportamento come se Dio non esistesse, un comportamento dove io compia il bene come dovere e non come mezzo per garantirmi la salvezza. In La religione entro i limiti della sola ragione (1793) , il cui titolo è di forte sapore illuministico, Kant si propone di eliminare tutti gli elementi di superstizione che contaminano la religione. Kant si professa profondamente cristiano e la superiorità che egli riconosce nel cristianesimo rispetto alle altre religioni non sta nella rivelazione, ma nell'avere contenuti identici a quelli che ci impone la legge morale, la quale è però del tutto autonoma, sganciata dal cristianesimo. Il cristianesimo va dunque apprezzato, secondo Kant, per la sua grande coerenza con i dettami della ragione pratica, con il suo esasperato tentativo di rinvenire l'universalità: l'imperativo categorico ricerca l'universalità imponendomi di agire in modo che ogni mia massima diventi motivo, il cristianesimo imponendomi di non fare ad altri ciò che non vorrei fosse fatto a me. Proprio qui risiede la prova della verità del cristianesimo secondo Kant. La figura di Gesù, dunque, si configura agli occhi del pensatore tedesco come l'incarnazione dell'imperativo categorico.

LA CRITICA DEL GIUDIZIO

La terza grande opera filosofica di Kant è la Critica del Giudizio (1790). Nella traduzione italiana si trova quasi sempre la parola Giudizio con la 'g' maiuscola, per evidenziare che il giudizio in questione non è quello della Critica della ragion pura , sinonimo di proposizione ovvero di attività unificatrice. Il giudizio di cui parla ora Kant è la facoltà del giudicare, e non l'atto del giudicare, ovvero l'esprimere giudizi: all'inizio dell'opera, si attua un'ulteriore distinzione, spiegando che il giudizio in questione, oltre a non essere quello della prima Critica, non è nemmeno il giudizio determinante , bensì è quello riflettente . Giudizio determinante è quello in cui ci si inbatte predicando qualcosa in modo oggettivo, dicendo ad esempio che il libro è sul tavolo o che A è causa di B ; è definito giudizio determinante proprio perchè determina l'oggetto (il libro, A, ecc) dei giudizi. Al contrario, il giudizio riflettente , proprio della Critica del Giudizio , è la facoltà del giudicare che si estrinseca nei giudizi, senza determinare l'oggetto ma limitandosi ad interpretarlo: il giudizio riflettente non determina gli oggetti (come fa il giudizio determinante), ma li trova già determinati dall'applicazione delle categorie e non fa altro che riflettere su essi interpretandoli. Dunque, i giudizi con le categorie hanno funzione determinante, ma quando trovo l'oggetto già determinato dalle categorie mi limito ad interpretarlo, a riflettere sull'oggetto già costituito. La forma a priori in base alla quale si interpretano gli oggetti nel giudizio riflettente è il concetto di finalità, che, in sostanza, altro non è che una 4° idea di cui Kant non ha ancora parlato. Si tratta di un'idea in quanto è un concetto non dell'intelletto, ma della ragione, ovvero non può essere riempito di contenuto empirico. In base alle categorie, infatti, il mondo fenomenico può essere interpretato solo secondo il meccanicismo, e non riusciremo mai a trovare in esso il finalismo: ne consegue che il concetto puro di finalità è un'idea, che nel mondo fenomenico non potrà mai essere riempita di contenuti, ma in quello noumenico, definito anche da Kant regno dei fini , lo sarà. Un insieme di fenomeni non potrà mai pienamente soddisfare il concetto puro di finalità, ma, ciononostante, noi lo applichiamo a due ambiti distinti ma, secondo Kant, tra loro connessi: avremo dunque due tipologie di giudizio riflettente, il giudizio estetico e il giudizio teleologico . Il giudizio estetico è il giudizio sul bello, il giudizio teleologico (dal greco teloV , fine ) è il giudizio sull'esistenza di finalità nel mondo biologico e naturale. Quando asserisco che il paesaggio che ho di fronte è bello formulo un giudizio estetico , quando invece dico che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi formulo un giudizio teleologico. Da notare che qui Kant usa il termine 'estetico' nel senso comune, come 'ciò che ha a che fare con il bello', e non, come lo aveva usato nella Critica della ragion pura , con il significato di 'ciò che ha a che fare con la sensibilità'. Dire che il paesaggio che ho di fronte è bello è un giudizio riflettente estetico e non teleologico perchè con esso non fornisco informazioni oggettive, mi limito ad applicare il concetto di bellezza ad un qualcosa e, così facendo, non determino nulla: il paesaggio che dico essere bello è già determinato come oggetto di conoscenza dalla categoria di sostanza, con la conseguenza che interpreto un oggetto che ho e che non determino; ad esso applico un giudizio estetico, scevro da informazioni oggettive e scientifiche, una mera riflessione su un giudizio già determinato. Anche il giudizio teleologico è riflettente, poichè ha a che fare con la finalità. Infatti, predica la finalità al mondo biologico e naturale, sostenendo che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi o che piove perchè la vegetazione cresca . L'intera fisica aristotelica era di stampo teleologico, ma Kant è convinto che il giudizio teleologico non possa avere validità scientifica: la spiegazione del perchè il cavallo abbia gli zoccoli non potrà che risiedere nei fatti materiali e meccanici, cioè nei fatti che hanno portato il cavallo ad essere dotato di zoccoli, e non potrà essere trovata nella presunta finalità per cui li ha. Per Kant, dunque, l'unica via possibile resta quella della fisica meccanicistica di matrice newtoniana, dove, in parole povere, ogni fatto che sta dietro determina quel che sarà dopo e non, viceversa, dove è quello che verrà dopo a determinare quel che è prima, come nei giudizi teleologici: scientificamente sarà dunque scorretto dire che l'esigenza di poter camminare su terreni scoscesi ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli. Sarà invece corretto dire che, meccanicisticamente, determinati fatti hanno fatto sì che, con il processo causa-effetto, il cavallo avesse gli zoccoli. Resta ora da chiarire che tipo di rapporto vi sia tra i due giudizi riflettenti, estetico e teleologico: in primo luogo, sono entrambi riflettenti, interpretano cioè oggetti già determinati dalle categorie; in secondo luogo entrambi hanno a che fare con l'idea di finalità, sebbene nel giudizio teleologico si pretenda di coglierla nei rapporti che legano tra loro le varie parti di un ente biologico (gli zoccoli e il cavallo), mentre nel giudizio estetico si ha la pretesa di coglierla nel rapporto che si instaura tra il soggetto e l'oggetto. Infatti, secondo Kant, il giudizio estetico è un giudizio sul particolare tipo di relazioni che si instaurano tra il soggetto e l'oggetto, e non tra le sole parti dell'oggetto (come è invece nel teleologico). Di fronte ad un cavallo posso dire che ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi (giudizio teleologico) o posso dire che è un bell'animale (giudizio estetico) , senza giudicare se gli zoccoli sono fatti per realizzare dei fini. Kant fa l'esempio del fiore: un botanico, osservandololo, dirà che tutte le parti che lo compongono (i petali, lo stelo, ecc) servono a qualcosa, sono in vista di un fine, una persona qualunque invece dirà semplicemente che il fiore è bello. A ben pensarci, se è evidente che nel giudizio teleologico vi sia la finalità, meno evidente è che essa sia presente nel giudizio estetico: Kant spiega che l'estetico è un giudizio in cui si rileva una sorta di finalità senza però poterla determinare a fondo. Una cosa, infatti, ci appare bella quando dà l'impressione che in essa vi sia una specie di progetto, che non sia stata fatta a caso, che ci sia cioè un fine in essa, sebbene non si sia in grado di definirlo (a differenza del giudizio teleologico). La differenza tra i due giudizi sta proprio nel fatto che nel teleologico si definisce perfettamente la finalità, mentre nell'estetico la si avverte soltanto . E' interessante notare come Kant si accorga che i giudizi estetici siano formulabili tanto su cose naturali quanto su cose artificiali: fa notare che in entrambe i casi si avverte una sorta di finalità, tant'è che si è soliti dire, di fronte ad una cosa artificiale, che è talmente bella da sembrare vera e, di fronte ad una cosa naturale, che è talmente bella da non sembrare vera, quasi come se cogliessimo una sorta di progettualità in esse. Così, di fronte ad un bel paesaggio avremo l'impressione che esso sia il frutto del lavoro di un giardiniere e, di fronte ad un bel quadro, avremo l'impressione che si tratti di un qualcosa di reale. Di sfuggita, si può notare che Kant ha soprattutto in mente la bellezza naturale e poche volte fa riferimento a quella artificiale. Ricapitolando, una cosa è bella quando sembra manifestazione di un progetto, volta a realizzare un fine. Kant darà 4 definizioni del bello ed è interessante notare che in una di esse finirà per dire che è bello ciò che manifesta una finalità senza scopo: nel linguaggio kantiano, scopo è una finalità determinabile o già determinata, mentre finalità è una finalità vaga, non determinata nè determinabile. La finalità del giudizio estetico, del bello, è priva di scopo proprio perchè la si avverte ma non la si può determinare, mentre la finalità del giudizio teleologico è una finalità dotata di scopo , poichè riesco a determinarla, a dire effettivamente quali sono i fini delle cose che vedo. In origine Kant non aveva previsto la composizione della Critica del Giudizio in quanto restava esclusa dalla ragione e dai suoi due ambiti (teoretico e morale) la possibilità di fare una critica del gusto, del giudizio riflettente, poichè esso è fondato sul sentimento e non sulla ragione: una critica, diceva Kant, può essere costruita solo sulle facoltà razionali, tant'è che l'intero impianto delle prime due critiche si fonda sulla convinzione che le due esperienze, gnoseologica e morale, non si fondino sui sentimenti. Tuttavia Kant si rese conto che è senz'altro vero che il gusto ha a che fare con il sentimento e che il giudizio di bellezza non è nè teoretico nè pratico, ma fondato sul sentimento estetico; però si rese anche conto che il sentimento su cui si fonda il giudizio di bellezza deriva dal funzionamento delle nostre facoltà conoscitive . Partendo da questa considerazione, Kant riesce a spiegare una cosa molto particolare, ossia che i giudizi di bellezza non sono nè universali nè particolari . Che non siano universali è evidente, in quanto si fondano sui sensi e non sulla ragione: se dico che il libro è sul tavolo , si tratta di un'affermazione valida per tutti, perchè tutti hanno le categorie nelle loro strutture mentali; ma se dico che mi piace il gelato al cioccolato , si tratta di un'affermazione fondata sui sensi e quindi valida per me, magari per molti altri, ma non per tutti. Tuttavia i giudizi di bellezza, a ben pensarci, sono stranissimi: non mi sarà mai possibile dimostrare a qualcuno che una cosa è bella, ma, ciononostante, ho la convinzione, quasi la pretesa, dell'universalità della mia affermazione. Ecco dunque che affiora il carattere non universale ma neanche particolare di tali giudizi. Accanto ai giudizi puramente oggettivi (conoscitivi e morali) e soggettivi (di gusto: mi piace il gelato al cioccolato), vi saranno quelli estetici (giudizi di bellezza), che non sono nè soggettivi nè oggettivi. Del bello si può parlare, si può argomentare a favore della bellezza di una cosa, nutrendo sempre la pretesa che la nostra affermazione sia universale pur non potendolo dimostrare perchè si basa pur sempre su un sentimento. Questo sfumato carattere di ambiguità può essere spiegato in questo modo: i giudizi estetici si fondano sul sentimento (soggettività), ma derivano dall'applicabilità delle nostre categorie conoscitive (oggettività) . Ecco perchè Kant parlerà di universalità soggettiva . Come accennavamo, Kant dà 4 definizioni del bello, apparentemente in contrasto fra loro. Quattro erano i gruppi delle categorie e, se il giudizio estetico deriva in qualche misura dalle nostre facoltà conoscitive, non c'è nulla di strano se 4 sono anche le definizioni del bello. Kant compie un'argomentazione piuttosto complessa e, alla fine, ne desume la 1° definizione del bello: ' il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L'oggetto di un piacere simile si dice bello '. In sostanza con questa prima definizione Kant dice che il bello è ciò che è oggetto di un piacere disinteressato . La 2° definizione invece recita: ' è bello ciò che piace universalmente senza concetto ', ovvero è bello ciò che piace a tutti, universalmente . La 3° dice invece: ' la bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo ', ovvero è bello ciò che mostra una finalità non del tutto determinabile, priva di scopo. Infine, la 4° definizione dice che ' il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario ', ovvero che è bello ciò che è oggetto di un piacere necessario . Si possono analizzare insieme la 1°, la 2° e la 4° definizione: nella 2° e nella 4° tornano le nozioni di universalità e di oggettività, creando una sorta di contraddizione. Come fa una cosa a piacere a tutti (universalmente) e necessariamente? Ciò che piace, infatti, piace soggettivamente e accidentalmente, tant'è che sui gusti non si può discutere. In entrambe le formulazioni (la 2° e la 4°) Kant aggiunge la condizione senza concetto , facendo notare che nei giudizi di gusto non può nè deve essere in azione un concetto, altrimenti si tratterebbe di un giudizio oggettivo, di conoscenza, ovvero un giudizio determinante, e non riflettente. Il giudizio in questione è un sentimento e, come tale, non ha concetto, ma dato che tale sentimento di piacere deriva in qualche modo dall'applicazione delle facoltà conoscitive, allora sarà un piacere che, pur senza concetto, potrà aspirare ad avere una valenza universale e necessaria. Essendo un piacere sensibile e non un giudizio conoscitivo dovrà per forza essere senza concetto , non strettamente legato alle categorie. Nella 1° definizione Kant asserisce che è bello ciò che piace in modo disinteressato: anche qui ci troviamo di fronte ad un'aporia, poichè le cose non piacciono mai in modo disinteressato, ma sempre e solo nella misura in cui servono a qualcosa. Solo le cose a carattere morale o conoscitivo sono disinteressate: le cose sono così o è giusto fare così, senza che vi sia un 'interesse' affinchè lo siano. Ma per quel che riguarda il piacere, le cose mi piacciono nella misura in cui mi servono: un cibo, per esempio, mi piace nella misura in cui mi soddisfa l'appetito. I giudizi di gusto hanno dunque sempre a che fare con l'esistenza di qualcosa, fa notare Kant: mi piace il cibo nella misura in cui esiste o in cui potrebbe esistere, proprio perchè così posso usarlo. Però, a ben pensarci, i giudizi estetici sono disinteressati, dice Kant, poichè godono non dell'esistenza di qualcosa, ma della rappresentazione dell'esistenza di qualcosa: mi piace il cibo perchè posso mangiarlo, ma se mi trovo a pancia piena di fronte ad un bel piatto ben presentato, pur non usandolo per nutrirmi, posso darne un giudizio positivo, può piacermi e posso definirlo bello. Si tratta dunque di due giudizi diversi: mi piace il cibo per mangiarlo (interessato), mi piace il cibo perchè è bello, ben presentato (disinteressato). Quando dico che mi piace il formaggio, formulo un giudizio ben diverso rispetto a quando dico che mi piace il quadro dipinto del formaggio: nel primo caso ho l'esistenza e dunque il giudizio interessato, nel secondo caso ho la rappresentazione dell'esistenza e quindi il giudizio disinteressato. Nel caso del quadro del formaggio, il giudizio è slegato dall'esistenza ed è dunque disinteressato, non mi piace solo perchè mi serve. E proprio in quanto disinteressato, sganciato dall'esistenza effettiva della cosa in questione e dall'uso che posso farne, tale giudizio può aspirare ad essere universale e necessario. Ecco perchè la 1°, la 2° e la 4° definizione del bello sono tra loro connesse. Si può notare che i 4 gruppi delle categorie erano quantità, qualità, relazione e modalità; ora, ogni definizione del bello può essere confrontata, poichè in qualche misura ne deriva, alle categorie. La 1° definizione del bello, infatti, dice che esso è disinteressato (qualità), la 2° dice che è universale (quantità), la 4° dice che è necessario (modalità), e la relazione? Essa subentra con la 3° definizione del bello: la categoria di relazione più importante era quella di causalità ed ora entra in gioco una nuova causalità, quella di tipo finalistico. La 3° definizione, infatti, dice che una cosa è bella quando mostra una finalità senza scopo, ovvero una finalità non determinabile, che sfugge all'inquadramento in un concetto (il concetto di finalità). Proprio come nella 2° e nella 3° definizione si poneva la condizione di essere senza concetto , così adesso Kant impone pure nella 3° definizione l'assenza di concetto, in particolare del concetto di finalità. Con queste affermazioni Kant sottolinea il carattere di autonomia del giudizio estetico, il suo esulare sia dall'ambito teoretico sia dal morale: esso infatti non è nè un giudizio di verità, nè di moralità, nè teoretico nè pratico, poichè dire che una cosa è vera o è giusta è altra cosa rispetto al dire che è bella o brutta. I giudizi estetici, poi, emergono in altro modo rispetto a quelli morali e a quelli teoretici, anche se sono presentati da Kant come ponti tra il mondo fenomenico e quello noumenico. Questo aspetto è particolarmente importante e spiega perchè la Critica del Giudizio è l'opera kantiana che offre più aperture al Romanticismo. Se la Critica della ragion pura è dedicata al mondo fenomenico (poichè la conoscenza legittima ha a che fare solo con il mondo fenomenico) e la Critica della ragion pura è dedicata al mondo noumenico (poichè la morale si fonda sul mondo noumenico, mettendomi in contatto con esso, di cui è ratio cognoscendi ), la Critica del Giudizio , invece, può assurgere, a pieno titolo, a vero e proprio ponte tra i due mondi, noumenico e fenomenico . Nell'esperienza estetica e in quella teleologica, infatti, è come se avessimo l'impressione che elementi del mondo noumenico filtrassero in quello fenomenico, con percorsi di remota ascendenza platonica. L'idea del bello, diceva Platone, si trova in una posizione privilegiata, poichè è più evidente a livello sensibile: è l'unica cosa in sè che riesce a filtrare nel mondo fenomenico. Pertanto l'esperienza estetica e quella teleologica sembrano farmi cogliere nel mondo empirico elementi di quello noumenico, come se filtrasse ciò che soggiace alla realtà fenomenica: una cosa, infatti, è bella nella misura in cui mostra finalità, poichè mi dà l'impressione di cogliere elementi di quella finalità che in termini conoscitivi non posso mai legittimamente predicare, in quanto esula dalle categorie. E' quasi come se cogliessi un barlume di finalità in quel mondo fenomenico, retto dalla rigida causalità di tipo meccanicistico. Ed è proprio per questo che la Critica del Giudizio costituisce un ponte tra i due mondi (un pò di mondo noumenico, tramite il bello, filtra in quello fenomenico) e dai Romantici fu giudicata la migliore delle tre. I Romantici, infatti, rifiuteranno tutte le cautele illuministiche di Kant, secondo le quali non si può mai attingere l'essenza profonda della realtà: essi vorranno cogliere l' essenza più intima della realtà e, per realizzare questo fine, cercheranno nella natura non già leggi meccanicistiche, bensì princìpi vitalistici, quasi come se la natura, sulla scia di quanto aveva detto Aristotele, fosse vivente. In Kant, però, questa tenue apertura al Romanticismo non ha valenza conoscitiva, così come non l'avevano i postulati della ragion pratica, i quali, pur mettendomi in contatto col mondo noumenico, non potevano in alcun modo fondare la conoscenza. Quanto detto per i postulati della ragion pratica vale per i giudizi estetici e teleologici: per Kant non è legittimo costruire una fisica di stampo teleologico, l'unica via possibile è quella meccanicistica di ascendenza newtoniana, checchè ne pensino i Romantici. A questo punto, Kant spiega come nasca il giudizio estetico: esso scaturisce da un libero gioco delle facoltà , ovvero da un accordo spontaneo tra l'immaginazione e l'intelletto . Con questo, Kant vuole dire che vi sono situazioni in cui abbiamo l'impressione che il nostro oggetto empirico sia costituito in maniera tale da essere del tutto adatto alle nostre facoltà conoscitive. Di fronte a certi oggetti già determinati si ha quasi l'impressione, in virtù della loro armonia, che essi si adattino in modo spontaneo al lavoro unificatorio delle nostre capacità conoscitive, come se vi fosse appunto un accordo spontaneo tra l'immaginazione e l'intelletto. Ed è proprio questo che fa nascere il giudizio estetico: a farci provare piacere di fronte ad una cosa, a farcela sembrare bella, è questa specie di spontanea corrispondenza tra oggetto e categorie. Così come proviamo piacere a stare in un ambiente nè troppo caldo nè troppo freddo perchè tale situazione è particolarmente adatta alla nostra costituzione fisica, allo stesso modo proviamo piacere nell'osservare un oggetto che ci sembra particolarmente adeguato alle nostre categorie. Proprio in questo consiste il libero gioco delle facoltà , ovvero nel rendersi conto spontaneamente che l'oggetto che abbiamo di fronte calza a pennello con le categorie che costituiscono il nostro apparato gnoseologico. Si tratta di un piacere sensibile, ma che deriva da una sorta di gioco delle nostre categorie e proprio per questo il giudizio estetico non è nè universale nè soggettivo. Certo nel giudizio estetico non c'è una vera e propria applicazione delle categorie, c'è un gioco libero, uno svago delle categorie, le quali sono in azione in modo sfumato, vi è uno spontaneo adeguamento di immaginazione ed intelletto. Naturalmente, proprio perchè non scaturisce da un'apllicazione sistematica e rigorosa, il giudizio estetico non può aspirare ad essere un giudizio teoretico, come invece riterranno lecito fare i Romantici: per loro, in fin dei conti, l'artista finirà per cogliere la verità più dello scienziato. Ora si capisce benissimo perchè a suscitare il sentimento del bello sono gli oggetti con l'apparenza di progettualità intrinseca, di armonia, dotati di forma: di fronte ad un bel paesaggio abbiamo l'impressione che sia finto perchè ci sembra che qualcuno avente le nostre stesse facoltà conoscitive l'abbia posto lì apposta per noi; si tratta però di un'impressione, non di una verità oggettiva, come crederanno i Romantici. Tuttavia il ragionamento effettuato sul sentimento estetico funziona solo per l'arte in auge all'epoca di Kant, arte che, peraltro, stava già per essere superata: l'arte che possiamo giudicare bella in base al criterio kantiano è quella di forma, tant'è che per Kant l'elemento centrale nelle opere d'arte era il disegno (simbolo di formalità, oltrechè di razionalità) e non il colore. L'arte romantica tenderà già a sfuggire al discorso kantiano in quanto sempre più legata ai colori e staccata dal disegno. Accanto al giudizio estetico di bellezza, Kant riconosce anche, come oggetto del giudizio estetico, il sublime , il concetto che segna l'apice dell'avvicinamento di Kant al Romanticismo. Se bello è ciò che deriva dalla forma, dalla progettualità intrinseca, quando invece ci troviamo di fronte ad un oggetto che sfugge alla possibilità di inquadramento da parte delle nostre facoltà conoscitive (ovvero da parte dell'intelletto), quando cioè l'oggetto oltre a sfuggire alla possibilità di essere colto dai sensi perchè è sterminato sfugge anche all'intelletto perchè è infinito e può essere apprezzato dalla sola ragione (la facoltà dell'infinito), allora abbiamo a che fare col sentimento del sublime. La sensibilità e l'intelletto si perdono, non riescono a star dietro all'oggetto, e solo la ragione, come facoltà dell'infinito, tiene duro. Kant, come per le antinomie della ragion pura, distingue tra due tipi di sublime. Il sublime matematico è quel sentimento che si prova di fronte all'infinita grandezza (ecco perchè è matematico) della natura: Kant cita due esempi, il cielo stellato che sta sopra di noi e le imponenti catene montuose. Il sublime dinamico (dal greco dunamiV , potenza ) è quel sentimento che si prova di fronte non all'infinita grandezza della natura, ma di fronte alla sua infinita potenza. Kant fa, in merito, l'esempio del mare in tempesta. Sia nel sentimento che per oggetto ha il sublime dinamico sia per quello che ha il sublime matematico, l'oggetto in questione (vuoi il mare in tempesta, vuoi il cielo stellato o le montagne) non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perchè manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo. Pare dunque che il sublime sia un sentimento negativo, ma non è così: mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso. Il dovere morale era positivo e negativo allo stesso tempo perchè ci faceva sentire inferiori per il nostro lato empirico, ma superiori per il lato razionale; allo stesso modo, il mare in tempesta ci fa sentire la nostra impotenza fenomenica, ma anche la nostra grandezza e superiorità sul piano razionale e noumenico. Il bello è finito, il sublime è infinito; il bello ha a che fare con l'intelletto, il sublime con la ragione. Contemplare il cielo stellato dà un sentimento di sublime, ci fa sentire inferiori all'infinita grandezza della natura, ma anche superiori in quanto razionali. Non può senz'altro sfuggire che vi sia una radice comune alla morale e al sentimento, cosicchè l'estetica presenta affinità con la morale: quando si parla di fini, infatti, si ha una sorta di sentimento di un finalismo della natura, di un'omogeneità tra noi e la natura, quasi come se la barriera che separa mondo fenomenico e mondo noumenico si facesse più sottile e ci permettesse di vedere un pò di più al di là del mondo fenomenico. Accanto al giudizio estetico c'è quello teleologico : esso presuppone l'attribuzione oggettiva di un finalismo a determinati oggetti di natura, una finalità con scopo, ovvero chiaramente determinabile (a differenza di quella del giudizio estetico). A proposito degli estetici, Kant specificava che si trattava di giudizi senza concetto ; nei teleologici, invece, esso è presente e altro non è che il concetto di finalità attribuibile alle cose che vediamo. La finalità è una sorta di 4° idea, poichè non è mai riempibile di esperienze sensibili. Tuttavia, Kant sembra imboccare una strada senza via d'uscita, collocandosi su un terreno a metà strada tra il meccanicismo seicentesco e settecentesco e il finalismo romantico. Infatti, Kant asserisce che le spiegazioni scientifiche sono sempre e soltanto di tipo meccanicistico, tuttavia è convinto che vi siano fenomeni fisici che non potranno mai essere totalmente risolti in termini meramente meccanicistici. Fa l' esempio del filo d'erba e del verme: in una logica meccanicistica, dovrebbero ambedue poter essere spiegati in termini deterministici di causa-effetto, eppure una spiegazione di tal genere non sarà mai del tutto soddisfacente. Pare dunque che, se tutto è spiegabile meccanicisticamente, l'esistenza degli esseri viventi non è mai un fatto puramente meccanicistico, tende a sconfinare nel finalismo. Le spiegazioni di tipo finalistico-organicistico impereranno in età romantica con la conseguenza che si considererà come organismo anche ciò che sembra meno adatto a tali interpretazioni, ad esempio la politica (Hegel). Se per i meccanicisti alla Cartesio il tutto è in funzione delle parti come in un orologio (i cui ingranaggi possono benissimo funzionare da soli, ma senza di essi l'orologio non va avanti), per gli organicisti alla Hegel le parti sono in funzione del tutto come in un albero (in cui le radici e le foglie non possono vivere da sole, ma ciascuna può esistere solo se esiste il tutto). Ora Kant si colloca a metà strada tra le due interpretazioni, sostenendo che una spiegazione puramente meccanicistica non potrà mai soddisfare pienamente l'esistenza dell'albero e, più in generale, degli esseri viventi: ogni organismo, infatti, cerca di raggiungere uno scopo, mira ad un fine e tale finalità non è inquadrabile dalle categorie proprio perchè esse riconoscono solo la causalità meccanicistica. Sembra dunque che non ci sia via d'uscita, a meno che non si ammetta che il concetto di finalità sia un'idea e, accanto all'illegittima funzione costitutiva, le idee hanno la funzione regolativa. Ne consegue che dovrò guardare all'albero e ad ogni essere vivente come se fosse organizzato in termini finalistici. L'ammissione provvisoria del finalismo serve come guida per dare di volta in volta singole spiegazioni, le quali saranno sempre rigorosamente meccanicistiche: dovrò indagare minuziosamente e meccanicisticamente sulle varie parti del mondo biologico come se fossero organizzate finalisticamente. Dire che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni impervi e ha quattro gambe per correre più velocemente deve essere il punto di riferimento ideale per indagare correttamente quale processo meccanicistico ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli e quattro gambe. Del resto, quando pensiamo all'evoluzione dei viventi, la pensiamo sempre in termini finalistici (l'organismo si adatta a...), pur sapendo che le cose sono andate meccanicisticamente (c'è stato un errore genetico e gli individui che ne sono stati caratterizzati sono sopravvissuti, gli altri no). Guardiamo cioè ad un quadro generale di stampo finalistico per spiegare uno ad uno fatti meccanicistici.
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Da: x corsista serio e altri18/10/2011 08:29:20
la cerimonia dovrebbe essere visibile su internet, sul sito raidue replay. Ieri non era ancora disponibile, ma credo la caricheranno a breve (per chi fosse interessato).
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Da: x il corsista filosofo....18/10/2011 13:39:32
....poi ti passa.
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Da: il vello d''oro18/10/2011 16:46:36
Vello d'oro
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Giasone torna in patria con il vello d'oro, in un vaso attico a figure rosseIl vello d'oro era, secondo la mitologia greca, il vello (pelle intera) dorato di un ariete alato capace di volare che Ermes donò a Nefele. Il vello d'oro fu in seguito rubato da Giasone.

L'origine del mito  [modifica]
Atamante ripudiò la moglie Nefele per sposare Ino. Quest'ultima odiava Elle e Frisso, i figli che Atamante aveva avuto da Nefele, e cercò di ucciderli per permettere a suo figlio di salire al trono.

Venuta a conoscenza dei piani di Ino, Nefele chiese aiuto ad Ermes che le inviò un ariete dal vello d'oro, il quale caricò in groppa i due fratelli e li trasportò, volando, nella Colchide. Elle cadde in mare durante il volo ed annegò, mentre Frisso arrivò a destinazione e venne ospitato da Eete.

Frisso sacrificò l'animale agli dei, donando il vello ad Eete, che lo nascose in un bosco, ponendovi un drago di guardia.

Giasone e gli argonauti  [modifica]
Il vello venne successivamente rubato da Giasone e dai suoi compagni, gli Argonauti, con l'aiuto di Medea, figlia di Eete.

Il mito sembrerebbe rifarsi ai primi viaggi dei mercanti-marinai proto-greci alla ricerca di oro, di cui la penisola greca è assai scarsa. Da notare che tuttora nelle zone montuose della Colchide e delle zone limitrofe, vivono pastori-cercatori d'oro seminomadi che utilizzano un setaccio ricavato principalmente dal vello di ariete, tra le cui fibre si incastrano le pagliuzze di oro. Altri studiosi ritengono che si tratti di una metafora dei campi di grano, scarso in Grecia, e che gli antichi Elleni si procuravano sulle coste meridionali del Mar Nero.

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Da: argonauti18/10/2011 16:47:47
Argonauti
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Lorenzo Costa. La nave Argo con l'equipaggioGli Argonauti (in greco áργ¿ν±á¿τ±ι - pronuncia Argonàùtai) furono quel gruppo di circa 50 eroi[1] che, sotto la guida di Giasone, diede vita a una delle più note e affascinanti narrazioni della mitologia greca: l'avventuroso viaggio a bordo della nave Argo che li condurrà nelle ostili terre della Colchide alla riconquista del vello d'oro.[2]

Gli eroi erano accorsi alla chiamata degli araldi inviati in tutta la Grecia per organizzare la spedizione che Pelia, re di Iolco, aveva imposto a Giasone, figlio di suo fratello Esone.

Pelia, infatti, era diventato re di Iolco dopo aver usurpato il trono a suo fratello Esone, legittimo erede al trono, da lui fatto imprigionare insieme al resto della famiglia. Giasone accettò l'insidiosa richiesta alla sola condizione che, in caso di successo, Pelia avrebbe liberato la sua famiglia.

Indice
1 Il mito
1.1 Il vello d'oro
1.2 Gli Oracoli di Pelia
1.2.1 Il primo oracolo
1.2.2 Il secondo oracolo
1.2.3 L'incarico
1.3 Partecipanti
1.3.1 Altri partecipanti[1]
1.3.1.1 Apollonio Rodio
1.3.1.2 Pseudo-Apollodoro
1.3.1.3 Argonautiche orfiche
1.3.1.4 Igino[14]
1.4 Il viaggio
1.4.1 La partenza
1.4.2 L'isola di Lemno
1.4.3 Re Cizico
1.4.4 Sulle rive del fiume Chio
1.4.5 Seguendo i consigli di Fineo
1.4.5.1 L'isola di Ares
1.5 La conquista del Vello d'oro
1.5.1 L'incontro con Calciope
1.5.2 Le condizioni di Eete
1.5.2.1 La prova di Giasone
1.5.3 Il drago custode del vello d'oro
1.6 Il ritorno
1.6.1 La rotta del ritorno
1.6.2 Medea e Giasone
1.7 La fine del viaggio
1.7.1 Avventure nel deserto
1.7.2 Verso casa
1.8 La morte di Esone
1.9 La morte di Pelia
1.9.1 Il piano di Medea
2 Confronto e note dopo le avventure
3 Interpretazione e realtà storica
3.1 Il ruolo delle donne
3.2 Il ruolo degli dei
3.3 Antiche rivalità
3.3.1 Il ruolo di Eracle
4 Similitudini ed analogie
5 Letteratura
6 Multimedia
6.1 Film, serie tv e videogiochi
6.2 Radio
6.3 Musica
7 Note
8 Bibliografia
8.1 Fonti primarie
8.2 Traduzione delle fonti
8.2.1 Bibliografia moderna
9 Altri progetti
10 Collegamenti esterni


Il mito  [modifica]
(GRC)
«  áρχόμµν¿ς σέ¿ Φ¿á¿βµ π±»±ιγµνέων º»έ± φωτá¿ν
μνήσ¿μ±ι ¿á Πόντ¿ι¿ º±τá° στόμ± º±á ´ιá° πέτρ±ς
Κυ±νέ±ς β±σι»á¿¿ς áφ·μ¿σύνá¿ Πµ»ί±¿
χρύσµι¿ν μµτá° ºá¿±ς áύζυγ¿ν á»±σ±ν áργώ. » (IT)
«  Da te sia l'inizio, Febo, a che io ricordi le gesta
degli eroi antichi che attraverso le bocche del Ponto
e le rupi Cianee, eseguendo i comandi di Pelia,
guidarono al vello d'oro Argo, la solida nave. »
(Apollonio Rodio, Le Argonautiche, I, 1-4 trad.: G. Paduano)

Il vello d'oro  [modifica]
Un tempo, a causa di un oracolo ingannevole, Atamante l'Eolio, re di Beozia, era stato in procinto di sacrificare Frisso, il figlio avuto da Nefele. In lacrime, avrebbe adempiuto ciecamente al verdetto oracolare se non fosse apparso Eracle a distoglierlo dal gesto, convincendolo dell'avversione che suo padre Zeus provava per i sacrifici umani.[3] In seguito Ermes, per ordine di Era o di Zeus, inviò dal cielo un ariete alato dal vello interamente d'oro. L'animale magico, giunto al cospetto di Frisso, iniziò a parlargli, ordinandogli di montargli in groppa. Il ragazzo accettò l'invito e volò in questo modo verso la Colchide dove, una volta giunto, sacrificò l'animale.[4] Il vello d'oro rimase intatto e fu tenuto in conto come un grande tesoro dagli abitanti del luogo.[5]

Gli Oracoli di Pelia  [modifica]
Il primo oracolo  [modifica]
Pelia, figlio naturale di Posidone, divenne re alla morte di suo padre adottivo Creteo, nonostante il legittimo erede fosse suo fratello Esone.[6] Avvisato da un oracolo che un discendente di Eolo lo avrebbe ucciso, fece sterminare chiunque avesse un rapporto di discendenza col dio dei venti: tutti tranne Esone, che nel frattempo aveva avuto un figlio di nome Giasone. Il bambino fu segretamente trasportato fuori dal palazzo e affidato al centauro Chirone, che lo allevò.

Il secondo oracolo  [modifica]

Re Pelia incontra GiasoneUn altro oracolo mise in guardia Pelia dall'incontro con un giovane che avesse ai piedi un solo calzare.[7] Tempo dopo gli capitò infatti di incontrare su una spiaggia un giovane, alto e armato di due lance, con un solo piede calzato: si trattava proprio di Giasone, che aveva perso un sandalo aiutando pietosamente una vecchina a guadare le acque fangose del fiume Anauro. Sotto le vesti di quella povera vecchia che, fino all'arrivo di Giasone, aveva inutilmente chiesto aiuto ai viandanti, si nascondeva in realtà una teofania di Era; la moglie di Zeus, continuamente trascurata da Pelia, fu a lui sempre avversa.

Alla vista di quel giovane, il re lo interrogò chiedendogli quale fosse il suo nome e chi fosse suo padre e il giovane gli rispose con franchezza; al che il sovrano gli chiese come si sarebbe comportato se un oracolo gli avesse predetto che qualcuno concittadino stesse per ucciderlo. Giasone, ispirato da Era, rispose che avrebbe inviato quell'uomo nella Colchide, alla ricerca del vello d'oro.[8]

Ma quando riconobbe nel suo interlocutore l'usurpatore, Giasone gli chiese di restituirgli il trono; il re gli rispose ponendogli una condizione: prima avrebbe dovuto salvare il regno da una maledizione.

L'incarico  [modifica]
Pelia gli narrò così di essere tormentato dall'ombra di Frisso, fuggito tempo addietro da Orcomeno e a cui mai era stata data degna sepoltura.[9] Pelia aggiunse che, secondo un oracolo, la loro terra sarebbe rimasta sempre povera fino a quando non fosse stato riportato in patria il vello d'oro, custode dell'anima di Frisso. Promise a Giasone che, se questi avesse accettato l'incarico, gli avrebbe restituito il trono non appena l'eroe fosse ritornato con il vello.

Giasone inviò araldi in tutte le terre dell'Ellade a chiedere aiuto,[10] ma poi, indeciso sul da farsi, si rivolse all'oracolo di Castalia, che gli suggerì di partire al più presto con una nave.[11] La nave fu costruita e la stessa Atena ne ornò la prua con una polena apotropaica.[8]

Partecipanti  [modifica]
« Era accendeva in questi semidei un suadente dolce desiderio della nave Argo perché nessuno presso la madre restasse in disparte a marcire lontano dai rischi la vita, ma trovasse con gli altri coetanei, anche a prezzo di morte, il miglior elisir del suo valore. E quando il fiore dei naviganti discese a Iolco, Giasone tutti li passa in rassegna e li elogia »
(Pindaro, Le Pitiche, Pitica IV, versi 327-337)

Molte sono le liste tramandate degli eroi che presero parte all'impresa. Nelle fonti più autorevoli troviamo:[12]


Uno dei possibili itinerari degli ArgonautiAcasto, figlio di Pelia
Admeto, principe di Fere
Anceo il Grande di Tegea, figlio di Posidone
Anceo il piccolo, il Lelego di Samo
Anfirao, il veggente argivo
Argo di Tespi, costruttore della nave Argo
Ascalafo di Orcomeno, figlio di Ares
Asterio, figlio di Comete, un Pelopide
Atalanta di Calidone, vergine cacciatrice
Attore, figlio di Dione il Focese
Augia, figlio di re Forbante di Elide
Bute, di Atene, apicoltore
Calaide, l'alato figlio di Borea
Canto l'Eubeo
Castore, lottatore spartano, uno dei Dioscuri
Cefeo, figlio dell'Arcade Aleo,
Ceneo il Lapita, che un tempo fu donna
Corono il Lapita, di Girtone in Tessaglia
Echione, figlio di Ermes, l'araldo
Eracle di Tirinto
Ergino di Mileto
Eufemo di Tenaro, il lottatore
Eurialo, figlio di Mecisteo, uno degli Epigoni
Euridamante il Dolopio, del lago Siniade
Falero, l'arciere Ateniese
Fano, il figlio cretese di Dioniso
Giasone, il capo della spedizione
Ida, figlio di Afareo di Messene
Idmone l'Argivo, figlio di Apollo
Ificle, figlio di Testio l'Etolo
Ifito, fratello di re Euristeo di Micene
Ila il Driope, assistente di Eracle
Laerte, figlio di Acrisio l'Argivo, futuro padre di Odisseo (Ulisse)
Linceo, fratello di Ida
Melampo di Pilo, figlio di Posidone
Meleagro il Calidone
Mopso il Lapita
Nauplio l'Argivo, figlio di Posidone, famoso navigatore
Oileo il Locrese, futuro padre di Aiace d'Oileo
Orfeo, il poeta Tracio
Palemone, figlio di Efesto, un Etolo
Peante, figlio di Taumaco il Magnesio
Peleo il Mirmidone, futuro padre di Achille
Peneleo, figlio di Ippalcimo, il Beota
Periclimeno di Pilo, mutevole figlio di Posidone
Piritoo, Re dei Lipiti, figlio di Issione,
Polluce, pugile spartano, uno dei Dioscuri
Polifemo, figlio di Elato, l'Arcade
Stafilo, fratello di Fano
Telamone, fratello di Peleo, futuro padre di Aiace Telamonio
Tifi il timoniere, di Sife in Beozia
Zete, fratello di Calaide

La partenza degli Argonauti
Eracle al raduno con gli altri Argonauti. Cratere attico a figure rosse da Orvieto. Pittore dei Niobidi, 460-450 a.C. (Louvre)Giasone desiderava portare con sé uno dei figli di Pelia, onde evitare che il re indirizzasse le sue maledizioni sul viaggio della nave Argo. Per questo Giasone si recò a reclutare il prode Acasto, uno dei figli del re; ma fu lo stesso Acasto, desideroso di partire per l'avventura, a proporsi a Giasone, andandogli incontro e salutandolo come "fratello".[13]

Altri partecipanti[1]  [modifica]
Apollonio Rodio  [modifica]
Le Argonautiche aggiungono altri personaggi alla spedizione:

Anfidamante
Areio
Clizio
Erito
Eulide
Eurobote
Fleias
Laocoonte
Leodoco
Menezio
Talao
Pseudo-Apollodoro  [modifica]
Autolico
Ialmeno
Leito, figlio di Alettore
Poias

Una statua di Giasone allo Schloss Schönbrunn di Vienna Argonautiche orfiche  [modifica]
Attoride
Eneio
Erito
Etalide, altro nome di Echione
Euritone
Laodoco
Igino[14]  [modifica]
Nelle favole ritroviamo:

Agriamone, figlia di Perseone
Deucalione
Filottete
Foco
Neleo
Priaso, figlio di Ceneo
Teseo
Il viaggio  [modifica]
La partenza  [modifica]
A comando della spedizione fu inizialmente proposto Eracle, in virtù della sua fama, ma il semidio rifiutò e propose la candidatura di Giasone che, benché giovane e inesperto, aveva organizzato il viaggio.[15] Appena la nave ebbe preso il largo, gli Argonauti sacrificarono due buoi ad Apollo, per propiziarsi il viaggio. Mentre il fumo si alzava nel cielo gli Argonauti fecero festa; inebriati e resi violenti dal vino, gli eroi avrebbero sicuramente compromesso l'esito del viaggio, se non fosse intervenuto Orfeo che placò gli animi dei compagni con il dolce suono della sua lira.

L'isola di Lemno  [modifica]
La prima isola che gli Argonauti incontrarono lungo il viaggio fu Lemno, abitata da sole donne; queste, abili guerriere, erano state vittime di una maledizione di Afrodite, che le aveva indotte a sterminare tutti i loro uomini. Appena avvistarono l'imbarcazione decisero di attaccarla, pensando che fosse una nave nemica.[16] Giasone decise allora di inviare come ambasciatore Echione che, con un bastone alla mano, riuscì a dissuaderle guadagnandosene l'ospitalità. Gli Argonauti furono quindi ben accolti dalle donne, che vollero giacere con loro per procreare una stirpe di eroi. Ipsipile offrì a Giasone il trono del piccolo regno, mentendogli sulle circostanze che avvolgevano la scomparsa degli uomini nell'isola, ma Giasone rifiutò, ricordandole lo scopo del suo viaggio, la conquista del vello d'oro.

Ergino, preso in giro dalle donne per la sua canizie, sfidò e vinse nei giochi Calaide e Zete, i due velocissimi figli di Borea, affermando poi che anche ai giovani crescono capelli grigi prima del tempo.[17]

In quelle notti furono concepiti molti figli,[18] ma alla fine Eracle, stanco di restare solo a guardia alla nave, richiamò tutti gli Argonauti e li obbligò a riprendere il viaggio. Gli eroi partirono alla volta della Samotracia.

Re Cizico  [modifica]
Ripreso il viaggio, gli Argonauti si trovarono ad affrontare il terribile passaggio attraverso l'Ellesponto, sapendo che il re troiano Laomedonte non permetteva il libero transito alle navi greche. Attesero quindi la notte per costeggiare lentamente la Tracia, avvicinarsi al mar di Marmara e sbarcare su una penisola chiamata Arto.

Il giovanissimo re dei Dolioni Cizico, figlio di Eneo, li accolse come eroi,[19][20] invitandoli alla sua festa nuziale che si sarebbe celebrata di lì a poco. Nella notte gli Argonauti furono svegliati dall'attacco di giganti a sei braccia figli della terra, ma riuscirono ad avere la meglio.

Dopo aver consacrato la loro ancora ad Atena, partirono per il Bosforo, ma una tempesta li fece deviare e approdare su una buia spiaggia, dove furono assaliti da guerrieri bene armati. Gli Argonauti ancora una volta vinsero la battaglia, ma ben presto scoprirono chi erano i loro avversari: la sorte li aveva riportati sulla penisola di Arto contrapponendoli inconsapevolmente con i loro ospiti in uno scontro armato; e riconobbero tra gli altri i corpi senza vita dello stesso re e di Artace, il più noto dei suoi sudditi, grandissimo guerriero ed eroe.[21]

Nel dispiacere generale si celebrarono i riti funebri, durante i quali, all'improvviso, giunse un alcione che si poggiò sulla prua di Argo. Mopso, che aveva il dono di saper interpretare i presagi, capì che quell'uccello era inviato da Rea, la dea della terra, quale segno della sua offesa per la sorte subita dai giganti a sei braccia, suoi figli.[22] Gli eroi prima di riprendere il viaggio, eressero un simulacro della dea per placarne l'ira.

Sulle rive del fiume Chio  [modifica]

Ila rapito dalle ninfeDurante questa parte del viaggio, gli Argonauti decisero di sfidarsi in una gara di resistenza: avrebbe vinto chi fosse riuscito a vogare più a lungo. Ben presto rimasero solo Giasone, Eracle e i Dioscuri. Giunti alla foce del fiume Chio anche i Dioscuri cedettero; Giasone svenne ed Eracle ruppe il remo. Decisero allora che era tempo di una pausa. Approdati su di un'isola, Eracle si allontanò andando in cerca di un nuovo remo; al ritorno gli riferirono che Ila, suo scudiero ed amante, andato in cerca di acqua, non aveva ancora fatto ritorno. L'eroe si allontanò sulla spiaggia, seguito a breve da Polifemo, lanciandosi alla disperata ricerca del ragazzo. Ma la generosità dei due eroi era destinata all'insuccesso: il ragazzo era stato stregato da alcune ninfe che, invaghitesi di lui, lo imprigionarono per l'eternità.[23][24] Nessuno dei tre poté far ritorno quella notte e il mattino seguente la giornata si presentava così ventilata che Giasone decise di fare vela senza i compagni perduti. Inutili furono le proteste di alcuni così come i tentativi di convincere Tifide a cambiar rotta, ma Giasone - appoggiato da Calaide e Zete - fu irremovibile.[25]


Gli Argonauti accerchiano AmicoProseguendo il viaggio raggiunsero l'isola di Bebrico, dove regnava un re di nome Amico;[26] figlio di Poseidone, che si vantava di essere un buon pugile. Egli volle mettere alla prova gli Argonauti, sfidando Polluce, il migliore tra loro. Fu il dioscuro ad uscire vincitore, uccidendo l'avversario[27] e scatenando la furia del popolo. Gli Argonauti ebbero facile sopravvento sulla folla inferocita e poterono saccheggiare il palazzo reale; poi, offerti in sacrificio venti tori per ingraziarsi Poseidone, ripresero l'avventura sul mare.

Una volta giunti sul promontorio di Salmidesso, gli eroi incontrarono il figlio di Agenore, Fineo tormentato dalle Arpie. Calaide e Zete, figli del vento, poterono spiccare il volo e respingere i due mostri.[28][29] Il re, per ricompensarli, profetizzò sul loro viaggio consigliando loro la rotta più sicura.[30]


Un'arpia
Calaide e Zete salvano Fineo Seguendo i consigli di Fineo  [modifica]
Tutte le navi dirette verso il Bosforo dovevano fare i conti con le insidie delle rocce nascoste nella nebbia eterna, che puntualmente le faceva affondare. Tuttavia Eufemo, seguendo il consiglio di Fineo, fece volare una colomba: gli Argonauti la seguirono e, incoraggiati da Atena e dal suono della lira di Orfeo, riuscirono ad evitare gli scogli. Dopo aver costeggiato la sponda meridionale, giunsero nell'isola di Tinia dove ebbero l'apparizione del divino Apollo, che mostrò rispetto per la loro avventura.

Arrivarono in seguito all'isola di Mariandine, dove il re Lico, felice per la morte del suo rivale Amico,[31] offrì loro, in segno di gratitudine, suo figlio Dascilo come guida. Il giorno dopo gli Argonauti, in procinto di salire sulla nave, furono assaliti da un enorme cinghiale, che ferì Idmone alle gambe, affondandogli le zanne nella carne. Ida giunse in soccorso e uccise la bestia con la lancia, ma l'emorragia di Idmone risultò impossibile da arrestare. L'eroe morì dissanguato e gli Argonauti lo piansero a lungo.[32]

Tifide, che fino allora era stato il nocchiero, si ammalò e morì poco dopo lasciando la guida della nave ad Anceo il grande, che in quel ruolo si rivelerà la scelta migliore.[33] Giasone, di fronte alla decimazione dei suoi uomini decise di fare una breve sosta a Sinope, in Paflagonia, la città che doveva il suo nome alla figlia di Asopo. Qui il comandante scelse tre nuovi membri, i fratelli Deileonte, Autolico e Flogio, vecchi amici di Eracle.[34]

Nuovamente in viaggio, gli Argonauti passarono accanto al paese dei Tibarenti, un popolo che si distingueva per una singolare caratteristica: durante il parto, i mariti erano in preda alle doglie allo stesso modo delle consorti.[35]

L'isola di Ares  [modifica]
Gli Argonauti arrivarono poi davanti alla piccola isola di Dia, sacra ad Ares, il dio della guerra. Subito stormi di uccelli si levarono da quel luogo infausto e attaccarono la nave.[36] Questi uccelli combattevano alla loro particolare maniera, scagliando le proprie piume sugli avversari; fu in questo modo che Oileo rimase ferito alla spalla. Gli Argonauti si ricordarono allora dei consigli di Fineo, e di come questi aveva riferito dell'avversione di questi animali al rumore: indossati gli elmi dispersero lo stormo rivolgendo agli uccelli urla possenti. Metà di loro si diede a remare mentre gli altri li proteggevano sollevando gli scudi, e con il clangore che ottenevano percuotendone la superficie con le spade.[37]

Seguendo ancora i consigli del re sbarcarono sull'isola e misero in fuga ogni creatura mostruosa vi si nascondesse. Si scatenò quindi un violento nubifragio; al cospetto degli Argonauti apparve una piccola imbarcazione su cui erano tre naufraghi, Citissoro, Argeo, Frontide e Melanione (o Mela),[38] i figli di Frisso e di Calciope. Gli Argonauti furono ben lieti di trarli in salvo, e di cooptarli nella spedizione. Arrivati tutti insieme alla foce del fiume Fasi, che bagna la Colchide, Giasone convocò un'assemblea per decidere come recuperare il vello.

La conquista del Vello d'oro  [modifica]

Orfeo incanta gli animali con il suono della sua liraGiasone dichiarò subito le sue intenzioni: accompagnato dai figli di Frisso, intendeva recarsi nella città di Ea, su cui regnava Eete, per rivendicare, con maniere gentili, il prezioso oggetto. Solo al rifiuto di Eete avrebbero attaccato battaglia. La proposta fu accolta con un applauso; a Giasone volle unirsi Augia, un fratellastro di Eete, convinto di poter avere un ruolo.[39] Il gruppo avanzò attraverso il cimitero di Circe, dove si presentò ai loro occhi lo spettacolo dei cadaveri esposti sulle cime dei salici (l'usanza del luogo riservava la sepoltura alle sole donne, mentre i corpi dei maschi erano lasciati alla mercé degli uccelli).

L'incontro con Calciope  [modifica]
Mentre si avvicinava al palazzo, a Giasone apparve Calciope, moglie del defunto Frisso; ella era, con Medea, una delle figlie che Eete aveva avuto dalla prima moglie, la defunta ninfa Aterodea.[40] Calciope, udendo la storia del salvataggio dei suoi fratelli, ringraziò il comandante.

Sopraggiunse allora Eete, che si infuriò nello scoprire che gli Argonauti avevano infranto il divieto imposto da Laomedonte. Chiese allora al suo nipote prediletto, Argeo, di spiegare il motivo di quella visita. Il ragazzo, senza perdersi d'animo, raccontò la storia del viaggio degli Argonauti, narrando anche di come fosse stato tratto in salvo dal naufragio insieme ai suoi fratelli.[41]

Ma Eete, cui un oracolo aveva predetto la fine del suo regno se il vello d'oro fosse stato sottratto,[42] per tutta risposta si infuriò, burlandosi del comandante e dei suoi compagni. Disconobbe Augia come fratello e ordinò agli intrusi di far ritorno ai loro luoghi d'origine, minacciandoli di torture se fossero rimasti.[43]


Giasone e Medea nella visione manierista di Girolamo Macchietti (Uffizi - 1570 circa)Giasone non rispose alla collera con l'ira: i suoi modi furono tanto educati che Eete quasi cambiò idea. Volle contrattare, ma le sue condizioni rimasero inaccettabili.

Le condizioni di Eete  [modifica]
Per recuperare il vello d'oro Giasone avrebbe infatti dovuto:[44]

aggiogare all'aratro due feroci tori dagli zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti; fiere bestie di proprietà di Efesto, il dio dell'ingegno;[45]
tracciare quattro solchi nel terreno chiamato Campo di Marte e seminarci dei denti di drago: quelli, pochi e perduti, che Cadmo aveva seminato tempo addietro a Tebe.
Nell'udire le condizioni Giasone rabbrividì, ma in suo aiuto intervenne il favore degli dei: Eros, il dio dell'amore, fece sì che Medea si innamorasse del giovane comandante.

Il dio era in realtà mosso da interessi personali, spinto dalla madre Afrodite ad agire per ottenere in cambio la pietra lucente che desiderava. La dea era in combutta con altre due divinità, Era e Atena, ed insieme avevano cospirato alle spalle della ragazza.[46]

Medea a lungo cercò di contrastare quel sentimento affiorato così all'improvviso, chiedendosi il perché di tanto interesse verso una persona conosciuta da poco. Alla fine la donna, comprendendo che le prove imposte a Giasone l'avrebbero condotto a morte certa si risolse ad aiutarlo, convinta che se avesse agito diversamente sarebbe stata fredda come una pietra.[47]

Calciope intanto cercò l'appoggio di sua sorella e quando scoprì l'amore di lei per Giasone colse l'occasione e fece da tramite fra i due. Medea decise di aiutare Giasone, ma in cambio voleva diventare sua sposa.

La prova di Giasone  [modifica]
La principessa, abile maga, diede al suo amato una pozione nella quale era infuso il sangue di Prometeo, fautore dell'emancipazione[48] del genere umano,[49] che lo avrebbe protetto dal fuoco dei due tori.

Arrivato il giorno atteso per la prova, molti erano gli spettatori che si riunirono per assistere all'evento, fra cui lo stesso re. I tori bruciavano l'erba con il fuoco; puntandolo con le loro corna d'acciaio, andarono incontro al figlio di Esone ma l'eroe, grazie alle arti magiche di Medea, non soffriva il calore.[50] Giasone con grande fatica riuscì a domare le bestie e, soggiogatele, le costrinse ad arare per tutto il giorno.[51]

A notte iniziò a seminare i denti del drago, da ciascuno dei quali spuntò dalla terra un guerriero; alla fine si formò un esercito che si rivolse contro di lui. Medea lanciò un altro potente incantesimo grazie al quale Giasone scagliò in mezzo a loro un enorme masso, creando una nube di polvere e molta confusione.[52] I guerrieri iniziarono ad uccidersi fra loro e continuarono a farlo fino a quando Giasone non ebbe eliminato personalmente i pochi sopravvissuti, superando così la prova.[53]

Il drago custode del vello d'oro  [modifica]
Anche se Giasone aveva superato queste prove impossibili, il re Eete si rimangiò la parola data, minacciando di dar fuoco alla nave Argo e di ucciderne l'equipaggio. Allora Medea guidò Giasone al luogo dove il vello era nascosto. Un enorme drago, immortale e dalle mille spire, faceva da guardia al tesoro. Il mostro, lungo più della loro nave, era figlio di Tifone, un gigante che in passato era stato ucciso a fatica da Zeus. Medea fece sfoggio di vari incantesimi, grazie ai quali riuscì ad ammaliare il drago fino a farlo addormentare. Giasone, approfittando del momento, staccò dai rami della quercia il vello d'oro e lo portò con sé nella fuga.

Intanto, i sacerdoti di Ares avevano dato l'allarme e i Colchi erano scesi in battaglia contro gli Argonauti, ferendo Ifito, Argo, Atalanta, Meleagro e anche il loro comandante. Medea curò tutti con i suoi filtri magici, ma non fece in tempo a completare l'opera, tanto che Ifito morì comunque per le ferite ricevute.


Medea di William Wetmore Story - 1868 (Met) Il ritorno  [modifica]
Durante il ritorno, seguendo un altro dei saggi consigli di Fineo, gli Argonauti, inseguiti dalle galere di Eete, navigarono attorno al Mar Nero nel senso contrario al giro del sole.

Una delle versioni riporta che, quando Eete raggiunse Giasone ed i compagni alla foce del Danubio, Medea prese il piccolo Apsirto, il fratellastro che aveva portato come ostaggio, e lo fece a pezzi, gettandone i pezzi in mare.[54] Eete, inorridito di fronte a tale orrore, costrinse le navi inseguitrici a fermarsi presso Tomi, per recuperare i brandelli del figlio dilaniato.[55] Secondo altri autori, invece, Giasone riuscì ad uccidere anche Eete.[56]

Secondo la versione più dettagliata, Apsirto inseguì Giasone per ordine di suo padre, mentre gli Argonauti giunsero in un'isola sacra ad Artemide. Qui, una volta sbarcati, avrebbero aspettato il giudizio del re dei Brigi. Medea, che non voleva per alcun motivo essere abbandonata, inviò segretamente un messaggio al fratellastro, sostenendo di essere trattenuta con la forza e supplicandolo di venire a salvarla. La sera stessa Apsirto scese sull'isola, dove fu inseguito e colpito alle spalle da Giasone.[57] Per evitare di essere perseguitato dalla sua ombra, leccò e sputò immediatamente alcune gocce del suo sangue e amputò gli arti del ragazzo. Quando Medea tornò sulla nave, gli Argonauti scesero in battaglia contro i soldati che, senza un comandante, fuggirono impauriti.

La rotta del ritorno  [modifica]
Dopo la morte di Apsirto, gli Argonauti furono liberi di affrontare la rotta che li avrebbe ricondotti a casa. Fra i mitografi antichi e moderni non vi è accordo sulla rotta intrapresa:

alcuni affermano che invertirono la rotta passando per l'Oceano Indiano, entrando poi nel Mediterraneo dal lago Tritoni;[58]
altri sostengono che la nave risalì il Danubio, per poi passare al Po, scendendo quindi fino all'Adriatico;[59]
altri ancora raccontano che, risalito il Danubio, giunsero all'isola di Circe, passando per il Po e per il Rodano;[60]
altri narrano che risalirono il Don e poi trasportarono l'Argo fino alle acque di un fiume che sfocia nel Golfo di Finlandia;[61]
altri, infine, raccontano che, percorsi il Danubio e l'Elba, raggiunsero lo Jutland. Una volta giunti in quelle terre si diressero verso l'oceano ad occidente, arrivando fino all'Irlanda e poi, superando le colonne d'Ercole, arrivarono all'isola di Circe.[62]

Eracle sta per uccidere LaomedonteTutte queste rotte sono frutto della fervida fantasia dei mitografi, ma in realtà impossibili da seguire: la nave Argo, probabilmente,[63] ritornò semplicemente da dove era venuta, dal Bosforo superando l'Ellesponto senza però incontrare le difficoltà della prima volta visto che Eracle nel frattempo aveva attaccato e distrutto l'intera flotta troiana per poi giungere fino alla città, dove uccise Laomedonte e mise al suo posto l'ultimo dei suoi figli, Priamo (chiamato anche Podarce).

Medea e Giasone  [modifica]
La polena della nave, che aveva poteri oracolari, sentenziò che Giasone e Medea dovevano purificarsi per i delitti commessi. I due scesero dalla nave e andarono incontro alla zia di Medea, Circe, anch'essa maga. La donna, pur non avendo alcuna intenzione di intervenire, li purificò usando sangue di scrofa. Nel frattempo i Colchi riuscirono a scoprire dove Giasone si nascondeva. Una volta arrivati a Corcira, a quei tempi chiamata Drepane, i Colchi si recarono dai regnanti locali, il re Alcinoo e sua moglie Areta. Reclamarono sia il vello che la testa di Giasone, ma il re decise di porre una condizione, che sarebbe stata riferita soltanto il giorno dopo. Areta, ormai amica di Medea, tenne sveglio il consorte tutta la notte, fino a farsi rivelare quale fosse la condizione per liberare, il giorno seguente, la sua amica Medea.

La condizione era che Medea fosse ancora vergine.[57] Areta subito avvertì la donna di questo e Giasone sposò la strega la notte stessa nella grotta di Macride. Gli Argonauti banchettarono e il vello d'oro fu messo ai piedi dei due sposi. Il mattino seguente Alcinoo fece il suo proclama ma si sentì rispondere da Giasone che Medea era già sua sposa.[57] I Colchi allora non poterono più eseguire gli ordini imposti e neanche tornare in patria; essi vagarono fondando nuove città. Solo un paio d'anni dopo Eete seppe tutta la verità.

La fine del viaggio  [modifica]

Le sirene tentatriciGiasone continuò il suo viaggio, fino a raggiungere l'isola delle Sirene. Gli Argonauti poterono udire il loro canto, ma la fatale melodia fu vinta da un suono ancora più dolce, quello della lira di Orfeo.[64] Il solo Bute, incantato comunque dalle Sirene, non riuscì a resistere e cercò di raggiungerle gettandosi a mare. La sua morte sarebbe stata certa se Afrodite, obbedendo a un capriccio, non lo avesse salvato e portato con sé.

Gli eroi costeggiarono poi la Sicilia, dove videro Elio pascolare il suo favoloso gregge, ma riuscirono a tenere a freno i loro desideri e passarono oltre.

Avventure nel deserto  [modifica]
All'improvviso una forte burrasca travolse gli eroi, sollevando l'intera nave e gettandola contro le rocce della costa libica dove un deserto senza fine si parò davanti a loro. Stavano per perdere ogni speranza quando la triplice dea Libia apparve in sogno a Giasone. Rincuorato, il comandante decise di recuperare la nave con l'uso di rulli. In dodici giorni, spingendo tutti insieme l'imbarcazione, riuscirono a giungere fino al lago salato di Tritonio. Durante questo lungo periodo scamparono alla sete solo grazie al ritrovamento della sorgente che Eracle aveva fatto scaturire in una delle sue fatiche.

Durante il trasporto della nave, Canto, uno degli eroi, vide il gregge di Cafauro e, non riuscendo a resistere alla fame, cercò di rubarne qualcuno capo; il pastore lo scoprì e infuriato lo uccise. Subito gli Argonauti lo vendicarono.

Durante la cerimonia di sepoltura del loro amico, accadde a Mopso di venir morso al tallone da un serpente; una nebbia calò sui suoi occhi, atroci dolori si diffusero lungo il corpo, i capelli caddero e alla fine spirò. Gli Argonauti, celebrati anche i riti funebri per la scomparsa di Mopso, tornarono alla ricerca del lago.

Giasone portava con sé due tripodi di bronzo avuti in dono dall'oracolo della Pizia. Grazie al consiglio di Orfeo, il comandante decise di offrirne uno alle divinità locali. Subito apparve Tritone che prese per sé il tripode; prima che potesse far ritorno laddove era venuto, Eufemo, preso coraggio, gli si parò innanzi chiedendogli quale via portasse al Mediterraneo. Tritone in risposta gli donò una zolla di terra che avrebbe reso lui e i suoi discendenti sovrani di Libia, e quindi trascinò la nave degli Argonauti fino al mare.

Verso casa  [modifica]
Ripresa la navigazione, gli Argonauti cercarono di avvicinarsi a Creta dove faceva buona guardia Talo, la sentinella di bronzo opera di Efesto. L'automa, non appena avvistò la nave, iniziò a bersagliare l'equipaggio con pietre, ma Medea ingannò il mostro e lo addormentò con una pozione. La strega si avvicinò poi al gigante e tolse il chiodo che turava la sua unica vena, facendolo morire dissanguato[65]

Secondo altre versioni, invece, il gigante incantato dagli occhi della donna barcollò fino a ferirsi[66]; o, secondo altre, fu ucciso da una freccia di Peante.[65]

La morte di Esone  [modifica]
Esone, che già prima della partenza di Giasone si preoccupava per la sorte di suo figlio, della sua famiglia e del suo regno, fu rincuorato da Polimela.

« Anche me prenderai come compagna, qualunque evento si appressi. Non rinvierò la mia morte; mio figlio non lo vedrò senza di te; questo cielo, già troppo l'ho sopportato fin dal primo momento, quando egli spiegò le sue vele verso il mare profondo - io che potevo sostenere tanto dolore »
(Valerio Flacco, Argonautica , Libro I, versi 763-766, commento di Polimela)

Poco dopo la partenza degli Argonauti, Pelia, incurante della promessa fatta a Giasone, scelse di sterminarne la famiglia. Il primo a cadere fu proprio Esone; dopo di lui il re frantumò la testa di Promaco, figlio di Esone. Polimela, disperata ma fiera, non si lasciò uccidere e scelse di morire per mano propria.[67]

La morte di Pelia  [modifica]

Giasone riporta il vello d'oro a PeliaUna sera di autunno gli Argonauti riuscirono ad approdare alla spiaggia di Pagase, presso Iolco, dove appresero che si era sparsa la voce della loro morte; seppero anche del massacro perpetrato da Pelia.

Udite queste notizie, Giasone proibì a chiunque avesse visto l'attracco di parlarne; convocò quindi un consiglio nel quale tutti gli Argonauti furono d'accordo nell'uccidere il re. Ad Acasto, che non poteva certo uccidere il proprio padre, fu concesso di ritornare a casa. Molti tra gli Argonauti sostennero però l'impossibilità di compiere la vendetta, anche perché Iolco era una città molto ben munita. Di fronte al profilarsi di una rinuncia generale Medea assunse solo su se stessa l'intero compito di espugnare la città.[68]

Il piano di Medea  [modifica]
La strega disse agli Argonauti di nascondersi in attesa di un suo cenno; trovò un simulacro cavo della dea Artemide; ordinò quindi alle sue ancelle di vestirsi in strano modo e di portarlo a turno. Medea si travestì da vecchia e, presentatasi alle porte di Iolco, offrì la fortuna di Artemide sulla città se solo le avessero aperto le porte. I guardiani non poterono rifiutare e, una volta entrate, le serve della strega ingannarono la gente inscenando finte crisi religiose.

Pelia, dubbioso, si rivolse allora alla vecchia chiedendole cosa volesse la dea da lui. La risposta fu che, se avesse creduto in Artemide e nel suo operato, avrebbe ricevuto in cambio eterna giovinezza. Il re non le volle credere e allora Medea prese un vecchio ariete, lo fece a pezzi, lo bollì e pregando la dea di assisterla e usando tutte le formule magiche a sua conoscenza, riuscì, con uno stratagemma, a far credere che l'animale fosse ringiovanito.

Questo convinse il re, che si denudò e, sdraiatosi, si fece ipnotizzare. Medea chiese alle figlie del re, Alcesti, Evadne, e Anfinome, di tagliare a pezzi il proprio genitore.[69] Dapprima rifiutarono ma la strega, usando altri inganni e piccoli incantesimi, riuscì a persuadere Evadne e Anfinome. I pezzi finirono nel calderone[68] mentre, sempre su richiesta della finta vecchia, le due assassine agitavano delle torce: doveva essere un'invocazione rivolta alla dea luna, ma in realtà era il segnale convenuto per l'ingresso in città degli Argonauti, che poterono prendendersi così la rivincita.

Giasone, temendo la collera del figlio di Pelia, loro compagno di viaggio, non avanzò pretese sul trono: accettò l'esilio impostogli da Acasto lasciandogli anche il trono. Secondo l'antica usanza, alla morte del re furono dedicati dei giochi funebri, nei quali gli Argonauti ebbero occasione di dar prova della loro abilità, vincendo diverse prove.

Confronto e note dopo le avventure  [modifica]
Molti dei reduci dall'impresa parteciparono anche alla cattura del cinghiale calidonio e alla guerra sostenuta dai Lapiti contro i centauri. Alcuni degli argonauti e molti dei loro figli, fra cui Achille e Odisseo, furono celebri eroi della guerra di Troia. Al di fuori di tali epopee gli Argonauti si incontrarono ancora e non furono mai episodi pacifici, con l'eccezione di quello che legò Atalanta e Melanione in un destino comune di innamorati.[70] Nel caso delle duplice coppia di gemelli l'episodio che li vide ancora protagonisti fu perfino di sterminio. Dai vari racconti si comprende come il destino degli Argonauti fosse legato soprattutto a Giasone. L'episodio della morte del figlio di Zeus è l'unico collegabile alle avventure trascorse con i suoi compagni, perché sarà proprio la nave che li ha accompagnati per mille peripezie a causarne la fine.[71]

Di seguito un raffronto per ogni singolo Argonauta:

Nome Giunto al ritorno Episodio della scomparsa Note dopo le avventure
Acasto SÌ  Diventa re al posto di Pelia.
Admeto SÌ  Ebbe Apollo come servo per nove anni.
Anceo il Grande SÌ  Ucciso da un cinghiale.
Anceo il piccolo SÌ  Ucciso dal cinghiale calidonio.
Anfirao SÌ  Cadde vivo nelle viscere della terra arrivando con armatura e carro all'Oltretomba.
Argo di Tespi SÌ  
Ascalafo SÌ  Ucciso accidentalmente da Deifobo.
Asterio SÌ  
Atalanta SÌ  Ferita dai sacerdoti di Ares - Trasformata in leone da Afrodite.
Attore SÌ  Ucciso da Eracle durante la sua battaglia contro Augia.
Augia SÌ  Ripulire le sue stalle fu la sesta fatica di Eracle, che lo uccise.
Bute NO Disperso in mare 
Calaide SÌ  Ucciso da Eracle per il torto subito.
Canto NO Ucciso da Cafauro 
Castore SÌ  Ucciso dai suoi acerrimi nemici, Ida e Linceo.
Cefeo SÌ  Fu ucciso da Eracle insieme a molti dei suoi figli.
Ceneo SÌ  Ucciso nella lotta tra Lapiti e Centauri per colpa di Zeus.
Corono SÌ  Ucciso da Eracle nella lotta fra Dori e Lapiti.
Echione SÌ  
Eracle NO Disperso su un'isola Indossata una veste velenosa, venne bruciato vivo da Peante o Filottete.
Ergino SÌ  Prima di diventare Argonauta perse tutto per colpa di Eracle.
Eufemo SÌ  Governò la Libia.
Eurialo SÌ  Combatté alla guerra di Troia al fianco di Diomede.
Euridamante SÌ  Ucciso da Ulisse.[72]
Falero SÌ  
Fano SÌ  
Giasone SÌ  Ripudiò la moglie Medea - Una volta vecchio lo uccise una trave della nave Argo.
Ida SÌ  Morì combattendo contro i suoi acerrimi nemici, i Dioscuri.
Idmone NO Ucciso dall'enorme cinghiale. 
Ificle SÌ  Ucciso nella guerra contro Sparta - non è il fratello di Eracle.
Ifito NO Ucciso dai sacerdoti di Ares. 
Ila NO Rapito dalle ninfe. 
Laerte SÌ  Padre di Ulisse, ancora in vita quando il figlio tornò dall'Odissea.
Linceo SÌ  Ucciso combattendo contro i suoi acerrimi nemici, i Dioscuri.
Melampo SÌ  .
Meleagro SÌ  Ferito dai sacerdoti di Ares. -- Poteva morire soltanto al consumarsi di un tizzone di legno che stava bruciando alla sua nascita.
Mopso NO Morso da un serpente. 
Nauplio SÌ  Punito da Zeus che lo fece naufragare.
Oileo SÌ  Ferito dagli uccelli stinfali.
Orfeo SÌ  Dopo la scomparsa di Euridice trattò tanto male le donne che alla fine lo fecero a pezzi.[73]
Palemone SÌ  
Peante SÌ  Lui o suo figlio Filottete diede fuoco a Eracle e da lui ebbe le frecce avvelenate dell'idra di Lerna, con il quale uccise Talo.
Peleo SÌ  
Peneleo SÌ  Ucciso al tempo della guerra di Troia per mano di Euripilo.
Periclimeno SÌ  Eracle si scontrò con lui, e dopo una dura lotta si salvò a stento.[74]
Polluce SÌ  Unico superstite nella lotta dei 4 gemelli, fu trasformato insieme al fratello nella costellazione dei gemelli.
Polifemo NO Disperso in un'isola. Ucciso in battaglia contro i Calibi - Non è il Polifemo di Odisseo.
Stafilo SÌ  
Telamone SÌ  Partecipò alla cattura del cinghiale calidonio.
Tifide NO Malattia 
Zete SÌ  Ucciso da Eracle per il torto subito.

Interpretazione e realtà storica  [modifica]
Molte sono le interpretazioni date al viaggio degli Argonauti. Guido Paduano sottolinea come Le Argonautiche di Apollonio Rodio avrebbero voluto rappresentare la più grande opera dei tempi del mito, ma fallirono in questo scopo, deludendo il lettore nell'evolversi delle vicende, affermando che la comparsa di Eracle serviva soltanto per far vedere quanto gli altri partecipanti gli fossero inferiori,[75] mentre Gilbert Lawall sottolinea la linea pessimistica dell'intera vicenda.[76] Vale la pena di ricordare che questi commenti si riferiscono solo alla versione di Apollonio Rodio, non alla storia nella sua completezza. Giulio Guidorizzi invece individua nel recupero del vello d'oro una prova iniziatica che il ragazzo Giasone deve superare per diventare uomo.[77]

Robert Graves, racconta che i partecipanti in realtà erano mercanti che dovevano stringere importanti rapporti nelle regione del mar Nero, ecco il perché di molti nomi nei vari elenchi (Tzetze cita 100 Argonauti), ogni città voleva un suo rappresentante per tutelare i suoi diritti nel commercio con le terre lontane. Graves inoltre esprime un giudizio comune a molti studiosi moderni, affermando che il nucleo della leggenda degli Argonauti è veramente esistito datando tale epopea nel corso del tredicesimo secolo a.C., prima della guerra di Troia.[78]

Il ruolo delle donne  [modifica]
Ai tempi del mito il ruolo della donna era relegato all'idea di bellezza e di furbizia ed in nessun caso si permetteva a queste di combattere. Esempio è il caso di Atalanta, unica donna tra gli Argonauti. Invece secondo alcuni autori minori si era solamente offerta di partecipare e Giasone, temendo per la reazione dei compagni, rifiutò la proposta.


Atalanta l'unica donna fra gli ArgonautiCenis era una bella donna che desiderava combattere e per questo venne trasformata in un uomo, lei per prima pensava che il corpo femminile fosse inadatto a combattere.

Diversa considerazione avevano le streghe, ma in tal caso si rispettavano le arti magiche che si nascondevano dietro al loro potere, frutto di preghiere agli dei e dell'invocazione degli spiriti, non merito proprio[79]. Per l'idea di profonda devozione e amore verso gli dei, che secondo i mitografi si nascondeva dietro a tali pratiche, le arti magiche ai tempi del mito erano quasi assoluta prerogativa delle donne[80].

Eppure si racconta che Medea riuscì dove cinquanta uomini avevano fallito[68][69].

Il ruolo degli dei  [modifica]
Gli dei che sorvegliano dall'alto gli umani, in tutte le saghe eroiche, favorivano il proprio beniamino. Spesso sono loro stessi la causa di grandi avventure, come avverrà anche in altre occasioni.

Tutto iniziò per colpa di un oracolo: Era, moglie di Zeus, fu la prima a schierarsi perché Giasone fu l'unico a dar retta a lei quando aveva sembianze di una vecchia, inoltre aveva poca considerazione di Pelia che non la ricordava nei sacrifici. Andando avanti con la storia Afrodite, la dea della bellezza e Atena, dea della giustizia, all'inizio neutrali, decisero di intervenire, obbligando Medea ad interessarsi a Giasone[46] senza preoccuparsi delle tragiche conseguenze che questo loro gesto avrà in seguito, successivamente alla fine del viaggio.

Antiche rivalità  [modifica]
Durante il viaggio degli Argonauti, così come nacquero molte nuove rivalità, così se ne placarono alcune, anche se solo momentaneamente:

I Dioscuri, Castore e Polluce, e gli altri due gemelli Ida e Linceo. La loro disputa iniziò prima della partenza. Durante tutto il viaggio non ci furono screzi fra loro ma, appena sbarcarono, l'odio si riaccese. Durante lo scontro finale, il solo Polluce rimase in vita.
I due figli di Borea Calaide e Zete ed Eracle. Per colpa del loro comportamento durante il viaggio, Eracle li cercò a lungo fino a quando li raggiunse e li uccise.[81]
Anfirao e Periclimeno. Il grande eroe Anfirao fu sconfitto proprio dall'altro Argonauta.[82]
Atalanta e Melanione. In questo caso si tratta di un rapporto che ha come fine lo sbocciare dell'amore fra i due, dopo una gara di corsa vinta da lui.[70] Anche Meleagro aveva posto gli occhi sulla cacciatrice, ma tale passione sarebbe stata la causa della sua morte.[83]
Il ruolo di Eracle  [modifica]

Eracle alle prese con il cinghiale ErimantoPer rispondere alla chiamata di Giasone Eracle abbandonò le dodici fatiche, quando aveva appena compiuto la quarta, cioè dopo aver catturato il cinghiale Erimanto.[84] Al termine della spedizione, Eracle riprese le sue prove da dove le aveva lasciate, ripulendo le stalle di uno degli Argonauti.

Secondo alcune fonti, la sesta fatica di Eracle, quella riguardante gli uccelli stinfali, fu compiuta dagli stessi Argonauti e non da Eracle stesso.[85]

Eracle fu l'artefice del destino di molti degli eroi che presero parte al viaggio degli Argonauti. Uccise per vendetta Calaide e Zete, uccise per non aver ricevuto la ricompensa che si aspettava per la quinta fatica sia Augia che Attore, e anche Corono e Cefeo caddero per mano sua.

Prima dell'inizio del viaggio, del resto, il semidio aveva già incontrato diversi Argonauti: aveva distrutto il regno di Ergino e per poco non lo aveva ucciso, mentre gli era sfuggito per poco Periclimeno, che cercava di vendicare i propri fratelli. Secondo alcune fonti, Eracle sarebbe stato ucciso a sua volta da uno di essi, grazie all'intervento di Peante o Filottete (citato nel novero degli Argonauti da Igino).

Similitudini ed analogie  [modifica]
Esistono diversi miti simili nella mitologia celtica, fra cui le fatiche imposte a Kilhwych, l'eroe del Mabinogion. Egli vuole contrarre matrimonio con la maga Olwen, ma il padre gli impone, prima di consentire le nozze, diverse prove, affinché possa dimostrare il proprio coraggio. In particolare, queste prove appaiono molto simili a quelle sostenute da Giasone: ad esempio, Kilhwych deve aggiogare alcuni buoi e con essi arare un enorme campo, seminarvi il grano e raccoglierlo il giorno dopo.

Somigliante al mito di Giasone e degli Argonauti è anche la leggenda di Peredur, figlio di Evrawc, narrata nei Mabinogion.

Letteratura  [modifica]
La storia della spedizione degli Argonauti è nota fin dai tempi dei poemi omerici: nel settimo e ventunesimo libro dell'Iliade si parla del figlio di Giasone. Il suo nome viene citato anche nel canto dodicesimo dell'Odissea. Esiodo, nella sua Teogonia, ricorda che Giasone andò a prendere Medea su ordine dello zio Pelia e che la maga gli partorì un figlio, Medeio, che fu educato da Chirone. La prima traccia della tradizione per cui Giasone fu mandato a recuperare il vello d'oro è nel poeta lirico Mimnermo, che probabilmente la raccontava per esteso. La prima trattazione giunta a noi integralmente è nella IV Pitica di Pindaro.

Il mito degli Argonauti ispirò, successivamente, le Argonautiche di Apollonio Rodio in età ellenistica e gli Argonautica di Gaio Valerio Flacco in età flavia.

Multimedia  [modifica]
Film, serie tv e videogiochi  [modifica]
Nel corso dei tempi molti film e serie tv sono state dedicate al mito degli Argonauti, anche se ben poco è giunto in Italia.

Film in bianco e nero:

The Argonauts, 1911, USA
The Argonauts of California, 1916, Stati Uniti
Film di animazione russo

Argonavtebi (Kolkheti), 1936, URSS
Film approdati in Italia:

I giganti della Tessaglia - Gli Argonauti, 1960 - Durata: 98' Nazione: Francia/Italia - Cast Massimo Girotti
Gli argonauti 2 (Jason and the Argonauts, 1963) - 104 minuti - Nazione: GB - Cast Honor Blackman.[86]
Giasone e gli argonauti (Jason and the Argonauts, 2000) - 180 minuti, USA
L'ultimo film trasformato successivamente in una serie tv:

Greek Gods and Goddesses: Jason and the Argonauts, 2004
Rise of the Argonauts (2008), videogioco ispirato al mito di Giasone e degli Argonauti.

Radio  [modifica]
In Australia hanno formato uno spettacolo radiofonico basato sulla storia di Giasone e gli Argonauti. "The Argonauts' Club" ha preso vita dal 1933 fino alla relativa chiusura il 2 aprile 1972. I bambini hanno ascoltato il programma della radio di pomeriggio e hanno interagito con i presentatori, di cui il capo si faceva chiamare "Jason", introducendo la storia, i poemi e le opere d'arte, i bambini venivano divisi in squadre. L'autrice fu Nina Murdoch[87].

Musica  [modifica]
Il compositore austriaco Gustav Mahler attorno al 1880 scrisse un'opera, oggi perduta, intitolata Die Argonauten, ispirata da Franz Grillparzer

Note  [modifica]
^ a b Il numero dei partecipanti viene riportato in 45, 51 o 55, a seconda delle fonti. Si veda: Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, pagina 72.
^ Pindaro, Pitica IV, versi 193-246.
^ Robert Graves, I miti greci, pagine 202-203.
^ Pausania, Libro I, verso 44.
^ Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia classica, pagina 128.
^ Valerio Flacco, Le Argonautiche, libro I, versi 22-25.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 9-11.
^ a b Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 16.
^ Igino, Favole, 12.
^ Valerio Flacco, Le Argonautiche, libro I, versi 91-99.
^ Pindaro,Pitica IV, versi 290-292
^ Robert Graves, I miti greci, pagine 535-536.
^ Valerio Flacco, Le Argonautiche, libro I, versi 149-183. Tra i due, in effetti, esisteva una stretta parentela.
^ Igino, Favole, 14.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 340-370.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 633-637.
^ Pindaro, Olimpiade, Libro IV, versi 19-27.
^ Igino, Favole, 15.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 961-963.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 18.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 1021-1036.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 1084-1102.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 1222-1260.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 19.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 1289-1303.
^ Igino, Favole, 17.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 1-98.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 178-296.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 21.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 317-425.
^ Igino, Favole, 18.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 815-840.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 851-867.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 955-960.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 1009-1014.
^ Igino, Favole, 20.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro II, versi 1029-1080.
^ Igino, Favole, 21.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 194-197.
^ In seguito Eete aveva preso in moglie anche Idia, dalla quale aveva avuto il figlio Apsirto.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 302-366.
^ Igino, Favole, 22.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 367-381.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 407-421.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 23.
^ a b Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 10-157.
^ Ovidio, Le metamorfosi, libro VII, versi 15-73.
^ Solo nella tradizione latina più tarda era ritenuto anche il creatore dell'umanità. Si vedano: Ovidio, Le metamorfosi, i, 76-88; Luciano, Dialoghi degli dei, I.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 838-866.
^ Ovidio, Le metamorfosi, libro VII, versi 104-116.
^ Pindaro,Pitica IV, versi 391-425.
^ Ovidio, Le metamorfosi, libro VII, versi 134-145.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, versi 1026-1062.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 24.
^ Apsirto, non a caso, significa "trascinato dalle acque".
^ Euripide, Medea, 1334
^ a b c Igino, Favole, 23.
^ Pindaro, Pitica IV, 250 e seguenti
^ Apollodoro, Libro I 9, 24
^ Robert Graves, i miti greci pag. 564
^ Apollonio Rodio, Libro IV, 212-502
^ Argonautiche orfiche, 1030-1204
^ Robert Graves "I miti greci" pag 558
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro I, 9, 25.
^ a b Apollodoro, Libro I 9,26
^ Argonautiche orfiche 1337-1340
^ Valerio Flacco, Le Argonautiche, libro I, versi 700-825.
^ a b c Igino, Favole, 24.
^ a b Ovidio, Le metamorfosi, libro VII, versi 297-145.
^ a b Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro III, 9, 2.
^ Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, pagina 363.
^ Omero, Odissea, XXII, 283
^ Pausania, Libro IX, 30, 5
^ Igino, Favole, 10.
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche 15ª edizione, Pagine 5-9, Milano, BUR, 2007. ISBN 978-88-17-16592-1
^ Apollonio Rodio, 'Le Argonautiche 15ª edizione, Pagine 56-59, Milano, BUR, 2007. ISBN 978-88-17-16592-1
^ Igino, Miti, pagina 200, Milano, Adelphi Edizioni, 2000. ISBN 88-459-1575-1
^ Robert Graves, I miti greci, pagina 540, Milano, Longanesi, 1979. ISBN 88-304-0923-5
^ Anna Ferrari, Dizionario di mitologia pag 447, Litopres, UTET, 2006. ISBN 88-02-07481-X
^ Angela Cerinotti, Miti greci e di roma antica pag. 243 e 272-273, Prato, Giunti, 2005. ISBN 88-09-04194-1
^ Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro I, versi 1303-1308.
^ Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, libro III, 6, 8.
^ Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, pag. 453.
^ Robert Graves, I miti greci, pag. 541.
^ Robert Graves, I miti greci, pagina 552, Milano, Longanesi, 1979. ISBN 88-304-0923-5
^ Morando Morandini; Morandini Laura, Morandini Luisa, Il Morandini 2008. Dizionario dei film, Milano, Zanichelli, 2007. ISBN 88-08-20250-X
^ Ken Inglis, This is the ABC: The Australian Broadcasting Commission 1932-1983, New York, 2006.
Bibliografia  [modifica]
Fonti primarie  [modifica]
Apollonio Rodio, Argonautiche
Valerio Flacco, Argonautica
Argonautiche orfiche
Pindaro, Le Pitiche
Igino, Fabulae
Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, Libro I
Omero, Iliade
Ovidio, Le Metamorfosi
Antonino Liberale, Metamorfosi
Diodoro Siculo, Libro IV
Esiodo, Teogonia
Euripide, Medea
Pausania, Libro I, Libro IX
Strabone, Libro VI, Libro VII e Libro XI
Teocrito, Idillio
Traduzione delle fonti  [modifica]
Apollodoro, Biblioteca, Milano, Mondadori, 1998. ISBN 88-04-55637-4 Traduzione di Marina Cavalli
Pindaro, Le pitiche IV edizione, Milano, Arnoldo mondadori, 2000. ISBN 88-04-39143-X Traduzione di Bruno Gentili
Valerio Flacco, Le Argonautiche, Milano, BUR, 2000. ISBN 88-17-17276-6 Traduzione di Franco Caviglia
Igino, Miti, Milano, Adelphi Edizioni, 2000. ISBN 88-459-1575-1 Traduzione di Giulio Guidorizzi
Apollodoro, I miti greci VII edizione, Milano, Arnoldo Mondadori, 2004. ISBN 88-04-41027-2 Traduzione di Maria Grazia Ciani
Ovidio, Le metamorfosi 12ª edizione, Milano, BUR, 2007. ISBN 978-88-17-12976-3Traduzione di Giovanna Faranda Villa
Apollonio Rodio, Le Argonautiche 15ª edizione, Milano, BUR, 2007. ISBN 978-88-17-16592-1 Traduzione di Guido Paduano
Bibliografia moderna  [modifica]
Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi. ISBN 88-304-0923-5
Angela Cerinotti, Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti, 2005. ISBN 88-09-04194-1
Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres, UTET, 2006. ISBN 88-02-07481-X
Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia classica, Roma, Newton, 2005. ISBN 88-8289-539-4
Pierre Grimal, La mitologia greca, Roma, Newton, 2006. ISBN 88-541-0577-5
Altri progetti  [modifica]
Wikimedia Commons contiene file multimediali su Argonauti
Collegamenti esterni  [modifica]
(EN) sito su recita in teatro sugli argonauti
(EN) Tempo dei miti: Gli Argonauti
(DE) scheda sugli argonauti
(DE) mitologia degli argonauti
(DE)sugli argonauti
Rispondi

Da: Antille18/10/2011 18:37:28
Le Antille sono un arcipelago (225 000 km²; 21 550 000 abitanti) dell'America centrale caraibica.

Indice
1 Geografia
2 Le isole
2.1 Grandi Antille
2.2 Piccole Antille o Indie occidentali
2.2.1 Isole Sopravento
2.2.2 Isole Sottovento
3 Storia
4 Etnologia
5 Note
6 Altri progetti

Geografia  [modifica]Le isole sono disposte a formare un arco che parte dal sud della Florida e giunge fino alle coste del Venezuela.

Le Antille sono quello che rimane di una terra che univa America settentrionale e America meridionale. Sono isole per lo più montagnose, con l'eccezione di Cuba. Esistono anche isole calcaree, vulcaniche o residui di antiche eruzioni.




Le parti a quota minore sono ricoperte da foresta pluviale, con molti esemplari della palma Oreodoxa; salendo di quota, tra i 1 200  ed i 2 300 m la foresta è meno rigogliosa, aumentano le felci arboree, le orchidee e il Pinus occidentalis.

Le isole  [modifica]L'arcipelago viene suddiviso in:

Grandi Antille  [modifica]Arcipelago cubano - Cuba
Cuba
Cayos de San Felipe - Cuba
Isla de la Juventud - Cuba
Arcipelago Los Canarreos - Cuba
Cayo Largo - Cuba
Arcipelago Sabana - Cuba
Cayo Fragoso - Cuba
Arcipelago Camaguey - Cuba
Cayo Coco - Cuba
Cayo Komano - Cuba
Cayo Guajaba - Cuba
Arcipelago Jardines de la Reina - Cuba
Isole Cayman - Cayman
Grand Cayman - Cayman
Little Cayman - Cayman
Cayman Brac - Cayman
Giamaica - Giamaica
Pedro Cays - Giamaica
Morant Cays - Giamaica
Hispaniola - Haiti e Repubblica Dominicana
Navassa - USA
Gonave - Haiti
Tortuga - Haiti
Vache - Haiti
Isola Beata - Repubblica Dominicana
Saona - Repubblica Dominicana
Porto Rico - USA
Culebra - USA
Mona - USA
Vieques - USA
Piccole Antille o Indie occidentali  [modifica] Isole Sopravento  [modifica]Isole Sopravento settentrionali (Leeward)
Isole Vergini
Saint Croix - Isole Vergini statunitensi (USA)
Saint John - Isole Vergini statunitensi (USA)
Tortola - Isole Vergini britanniche (Gran Bretagna)
Anegada - Isole Vergini britanniche (Gran Bretagna)
Virgin Gorda - Isole Vergini britanniche (Gran Bretagna)
Anguilla - Gran Bretagna
Sombrero (Anguilla) - Gran Bretagna
Saint-Martin/Sint Maarten - Francia e Sint Maarten
Sint Eustatius - Paesi Bassi
Saba - Paesi Bassi
Saint-Barthélemy - Francia
Antigua - Antigua e Barbuda
Barbuda - Antigua e Barbuda
Redonda - Antigua e Barbuda
Saint Kitts - Saint Kitts e Nevis
Nevis - Saint Kitts e Nevis
Montserrat - Regno Unito
De Aves - Venezuela
Arcipelago Guadalupa - Guadalupa (Francia)
Basse Terre - Guadalupa (Francia)
Grande Terre - Guadalupa (Francia)
Maria-Galante - Guadalupa (Francia)
Les Saintes - Guadalupa (Francia)
La Désiderade - Guadalupa (Francia)
Isole Sopravento meridionali (Windward)
Dominica - Dominica
Martinica - Martinica (Francia)
Santa Lucia - Santa Lucia
Barbados - Barbados
San Vincenzo - Saint Vincent e Grenadine
Grenadine di San Vincenzo - San Vincenzo e Grenadine
Bequia - San Vincenzo e Grenadine
Mustique - San Vincenzo e Grenadine
Canouan - San Vincenzo e Grenadine
Union Island - San Vincenzo e Grenadine
Grenadine di Grenada - Grenada
Carriacou - Grenada
Grenada - Grenada
Trinidad - Trinidad e Tobago
Tobago - Trinidad e Tobago
Isole Sottovento  [modifica]Los Testigos - Venezuela
La Sola - Venezuela
Margarita - Venezuela
Los Hermanos - Venezuela
Blanquilla - Venezuela
La Tortuga - Venezuela
La Orchila - Venezuela
Los Roques - Venezuela
Las Aves - Venezuela
Isole ABC - Paesi Bassi
Bonaire - Paesi Bassi
Curaçao - Curaçao
Aruba - Aruba
Nota: esistono tendenze geografiche che fanno comprendere nelle Antille anche le isole Bahamas e Turks e Caicos.

Storia  [modifica]La scoperta delle isole da parte degli Europei, si deve a Cristoforo Colombo, esclusa Porto Rico. Divennero in seguito il rifugio di bucanieri anglo-francesi e poi di filibustieri per cadere alla fine nelle mani dei governi occidentali.

Il nome Antille deriva dallo spagnolo La Antilla, oggi località balneare nei pressi di Huelva nel sud della Spagna. I marinai che scoprirono queste isole erano infatti originari di quella zona e diedero alle isole appena scoperte il nome della loro terra lontana. Un'altra interpretazione segue invece l'idea che essa sia la storpiatura di "Ante illa" (davanti ad essa, in latino) in quanto si supponeva fossero le isole che erano davanti alla costa delle Indie. Un'altra ipotesi fa derivare il nome dalla leggendaria isola di Antilia[1].

Nel corso del XIX secolo nacquero i vari stati indipendenti, in ordine cronologico: Haiti (1803), Repubblica Dominicana (1843), Cuba (1899). Questi nel corso del XX secolo divennero sempre più influenzati dagli Stati Uniti d'America.

Etnologia  [modifica]Colombo non giunse su isole disabitate, gli originari abitanti delle Antille erano appartenenti a due grandi famiglie etniche sudamericane:

Arawak
Caribi
L'occupazione degli spagnoli causò la rapida scomparsa degli Arauchi mentre i Caribi rimasero più a lungo, fino al XVII secolo, quando anche gli ultimi sopravvissuti vennero deportati.

Attualmente su queste isole sono presenti neri, mulatti e bianchi e le lingue riflettono questa varietà anche se predomina lo spagnolo.

Note  [modifica]
Rispondi

Da: POETA18/10/2011 18:38:39
Pablo Neruda (Parral, 12 luglio 1904 - Santiago, 23 settembre 1973) è stato un poeta cileno. Viene considerato una delle più importanti figure della letteratura latino americana contemporanea.

Il suo vero nome era Neftalí Ricardo Reyes Basoalto (per esteso, Ricardo Eliezer - o Eliecer - Neftalí Reyes Basoalto). Usava l'appellativo d'arte Pablo Neruda (dallo scrittore e poeta ceco Jan Neruda) che in seguito gli fu riconosciuto anche a livello legale. È stato insignito nel 1971 del Premio Nobel per la letteratura.

Ha anche ricoperto per il proprio Paese incarichi di primo piano diplomatici e politici. Inoltre è conosciuto per la sua adesione al Comunismo

Indice
1 I primi anni
2 Gli incarichi diplomatici
3 Il comunismo
4 La politica in Cile
5 L'esilio
6 Il ritorno in patria
7 Gli ultimi anni
8 Onorificenze
9 Opere
9.1 Bibliografia essenziale
9.2 Pubblicate in vita
9.3 Postume
9.4 Film
9.5 Errori di attribuzione
10 Note
11 Altri progetti
12 Collegamenti esterni

I primi anni  [modifica] Foto del giovane Neruda, in cui si firma «Ricardo Reyes»Neruda nacque da un impiegato delle ferrovie e da una insegnante che morì per la febbre lasciandolo orfano a solo un mese dal parto. Si trasferì con il padre a Temuco dove, dalle nuove nozze del genitore (con una donna che "Neftalì" chiamava Mamadre) , nove anni dopo nacque il fratellastro Rodolfo; aveva anche una sorella, di nome Laurita. Il giovane Neruda, soprannominato Neftalì dal secondo nome della madre, dimostrò un interesse per la scrittura e la letteratura avversato dal padre ma incoraggiato dalla futura vincitrice del Premio Nobel Gabriela Mistral, che fu sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l'articolo "Entusiasmo y perseverancia", pubblicato ad appena 13 anni sul giornale locale "La Ma±ana" diretto dallo zio adottivo. Nel 1920 iniziò ad utilizzare per le sue pubblicazioni lo pseudonimo di Pablo Neruda, con cui è tutt'oggi pressoché esclusivamente conosciuto, in modo di poter scrivere poesie senza che il padre(il quale riteneva quest'arte un'attività poco "rispettabile")lo scoprisse.

L'anno successivo, il 1921, si trasferì a Santiago per studiare la lingua francese e con l'intenzione iniziale di diventare in seguito insegnante, idea ben presto abbandonata per la poesia.

Nel 1923 pubblicò il suo primo volume in versi, Crepusculario, che fu apprezzato da scrittori come Alone, Raºl Silva Castro e Pedro Prado, seguito, a distanza di un anno, da Veinte poemas de amor y una canción desesperada, una raccolta di poesie d'amore, di stile modernista, e di stile erotico, motivo che spinse alcuni a rifiutarlo. Con questa raccolta è stato riconosciuto e tuttora essa è una delle sue opere maggiormente apprezzate.

Gli incarichi diplomatici  [modifica]Neruda si ritrovò in una condizione di povertà che lo costrinse ad accettare nel 1927 un incarico di console onorario nel Sudest asiatico, in Birmania, seguito da altri innumerevoli incarichi. Sull'isola di Giava si sposò con una impiegata di banca di nazionalità olandese, Maryka Antonieta Hagenaar Vogelzang.

Durante i suoi incarichi diplomatici, Neruda riuscì a comporre un gran numero di poesie, sperimentando varie forme poetiche tra cui quelle surrealistiche che si possono trovare nei primi due volumi di Residencia en la tierra che risalgono a questo periodo.

Prima di ritornare in Cile, ottenne altre destinazioni diplomatiche, dapprima a Buenos Aires, quindi in Spagna, a Barcellona, dove in seguito sostituì Gabriela Mistral nella carica di console a Madrid. In questo periodo conobbe altri scrittori come Rafael Alberti, Federico García Lorca e il poeta peruviano César Vallejo. Durante la permanenza nella capitale spagnola nacque la figlia Malva Marina Trinidad, affetta da idroencefalite di cui morì in tenera età. Sarà proprio lo stato di frustrante prostrazione ed incurabilità di quella che è poi l'unica figlia mai avuta dal poeta la causa vera dei dissapori sempre più insopprimibili che portarono ad una crisi familiare con la Hagenaar, che giunse al culmine a seguito della frequentazione di Neruda con Delia del Carril, argentina, di vent'anni più anziana di lui. Appassionata fautrice del comunismo, fu lei ad indirizzare l'iniziale tendenza anarco-individualista di Neruda verso gli ideali marxisti.

Il comunismo  [modifica]L'abbraccio delle idee comuniste e di solidarietà civile trovò ulteriore humus per Neruda anche nella repulsione che provava nei confronti dei soprusi compiuti dai fascisti di Francisco Franco durante gli anni della guerra civile spagnola. La sua "svolta a sinistra" fu ancora più decisa dopo la barbara uccisione, da parte delle forze del generale Franco, di Federico Garcia Lorca, di cui era divenuto amico: l'appoggio di Neruda al fronte repubblicano, che si opponeva all'allora nascente dittatura franchista, fu totale, sia nei discorsi che negli scritti, come, ad esempio, la raccolta di poesie Espa±a en el corazón.

Neruda in un francobollo della DDR del 1974In seguito all'elezione a presidente del Cile di Pedro Aguirre Cerda nel 1938, di cui Neruda era stato sostenitore, il poeta ricevette l'incarico di far evacuare dai campi francesi i 2.000 esiliati spagnoli, per i quali organizzò un trasferimento via mare in Cile utilizzando la nave Winnipeg. In questa occasione gli venne rimproverato di aver privilegiato gli sfollati di fede comunista a scapito degli altri, anche se sembra che la scelta sulle persone da imbarcare fosse stata fatta principalmente dal presidente della repubblica spagnola in esilio, Juan Negrín. L'inconsistenza di queste rimostranze è poi ulteriormente dimostrata dal grande affetto con cui, ancora oggi, è largamente ricordato in Francia.

Tra il 1940 e il 1943 gli venne assegnato l'incarico di console generale a Città del Messico e fu in questi anni che divorziò dalla prima moglie, si sposò con Delia del Carril e apprese della morte della figlia, a soli 8 anni, nei territori occupati dei Paesi Bassi.

Neruda aiutò il pittore messicano David Alfaro Siqueiros, accusato di essere uno dei cospiratori coinvolti nel tentativo di omicidio di Leon Trotsky nel 1940, facendogli ottenere un visto di ingresso per il Cile e dandogli ospitalità. Siqueiros dipinse in quel periodo un murale nella scuola di Chillán.

Nel 1943, durante il viaggio di ritorno a casa, si fermò in Perù, visitò Machu Picchu, e rimase molto colpito dalla città degli Inca, che gli ispirò, nel 1945, la scrittura di Alturas de Macchu Picchu, un poema in dodici parti sulla colonizzazione spagnola. Lo stesso argomento ispirò anche Canto general, pubblicato nel 1950, che contiene fortissimi accenti polemici contro il cosiddetto imperialismo statunitense (di cui, tra l'altro, denunciò gli abusi di multinazionali come la Coca-Cola).

Negli anni successivi, espresse la sua ammirazione per l'Unione Sovietica - anche per il ruolo decisivo svolto nella definitiva sconfitta della Germania nazista - e per Stalin, a cui nel 1953 dedicò una composizione, in occasione della morte. Le rivelazioni successive sul culto della personalità coltivato dal leader sovietico e sulle purghe staliniste (a partire dal celebre discorso di Nikita Khruščёv, successore di Stalin, durante il XX congresso del partito comunista sovietico di Mosca del febbraio 1956) spinsero Neruda a cambiare opinione e a rinnegare l'ammirazione espressa in precedenza: nelle sue memorie manifestò il suo rammarico per aver contribuito alla creazione di un'immagine non reale di Stalin. Questo errore di valutazione lo portò a guardare con occhio diverso anche il comunismo cinese, che conobbe nel 1957, temendo la ripetizione degli stessi errori anche nei confronti di Mao Tse-Tung. Nonostante le disillusioni, Neruda rimase comunque sempre fedele alle sue convinzioni comuniste e fu criticato da molti detrattori che lo accusarono di non aver mai preso posizione a favore degli intellettuali dissidenti Boris Pasternak e Joseph Brodsky.

La politica in Cile  [modifica]Il 4 marzo 1945 ottenne la sua prima nomina ufficiale come senatore in seno al partito comunista delle province nordorientali del Cile di Antofagasta e Tarapacá, situate nell'inospitale deserto di Atacama, e pochi mesi dopo prese la tessera del Partito Comunista cileno.

L'anno seguente, il candidato ufficiale del Partito Radicale cileno per le elezioni presidenziali, Gabriel González Videla, gli chiese di assumere la direzione della sua campagna elettorale. A questo incarico il poeta si dedicò con fervore, contribuendo alla sua nomina a presidente, ma rimanendo deluso per l'inaspettato voltafaccia di Videla nei confronti proprio del Partito comunista subito dopo le elezioni. Il punto di non ritorno nel rapporto tra Neruda e Videla fu la violenta repressione con cui quest'ultimo colpì i minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío, a Lota, dell'ottobre 1947. I manifestanti vennero imprigionati in carceri militari e in campi di concentramento nei pressi della città di Pisagua. La disapprovazione di Neruda culminò nel drammatico discorso del 6 gennaio 1948 davanti al senato cileno, chiamato in seguito "Yo acuso", in cui lesse all'assemblea l'elenco dei minatori tenuti prigionieri.

L'esilio  [modifica]La reazione di Videla fu l'emanazione di un ordine d'arresto contro Neruda, per sottrarsi al quale il poeta si vide costretto ad intraprendere un duro periodo - 13 mesi - di fuga, nascosto da amici e compagni. Inoltre, Videla promulgò anche la così detta "Ley de Defensa Permenente de la Democracia" (dai detrattori soprannominata invece "Ley maldita"), in base alla quale il Partito Comunista cileno venne dichiarato fuorilegge e oltre 26.000 iscritti vennero cancellati dalle liste elettorali, e i rappresentanti eletti, tra cui Neruda, vennero fatti decadere dalle cariche. Nel marzo 1949 riuscì a rifugiarsi in Argentina dopo un'avventurosa attraversata delle Ande, di cui raccontò nel discorso della cerimonia di consegna del Nobel.

Durante l'esilio argentino durato tre anni, conobbe a Buenos Aires Miguel Ángel Asturias, che ricopriva la carica di attaché culturale per il Guatemala e che riuscì a procurargli un passaporto grazie al quale poté abbandonare l'Argentina. Anche grazie all'aiuto di Pablo Picasso, Neruda riuscì ad arrivare a Parigi, compiendo una apparizione a sorpresa al "Congresso Mondiale dei Partigiani della Pace", clamorosa in quanto, nel frattempo il governo cileno aveva continuato a negare che Neruda avesse lasciato il territorio natio.

Furono, quelli dell'esilio, anche anni di numerosi viaggi: in Europa, India, Cina, URSS e Messico. Proprio in Messico, Neruda fu colpito da un serio attacco di flebite, strascico delle lunghe costrizioni in luoghi molto angusti cui l'aveva obbligato la latitanza; durante il periodo di cure, conobbe Matilde Urrutia, una cantante cilena, con cui iniziò una relazione e che anni dopo sposò.

Durante il periodo messicano pubblicò il poema Canto General, iniziato anni prima in Cile, in cui descrisse storia, geografia, flora e fauna del Sudamerica. Una versione più breve del manoscritto era stata pubblicata già alcuni mesi prima, in Cile, sulla base dei testi lì lasciati, a cura del Partito Comunista (clandestino per via della citata "Ley de defensa").

Nel 1952, Neruda visse per un periodo in una villa messagli a disposizione da Edwin Cerio a Capri; tale permanenza venne in seguito rappresentata da Massimo Troisi nel film Il postino (1994) (con Philippe Noiret nelle vesti del poeta cileno, e diretto dal regista Michael Radford; sceneggiatura liberamente tratta dal romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta).

Dopo il soggiorno a Capri, Neruda si spostò a Sant'Angelo d'Ischia, dove rimase dal gennaio alla fine di giugno del 1952.

Il ritorno in patria  [modifica] Manifestazione pro Allende, 5 settembre 1964Nel 1952, il governo del dittatore Videla era ormai al termine, colpito anche da numerosi scandali per corruzione, e il Partito Socialista presentò la candidatura a nuovo presidente di Salvador Allende, richiedendo contemporaneamente la presenza in patria del suo letterato più illustre al fine di avallarne al meglio l'investitura.

Neruda tornò in Cile in agosto, ritrovando provvisoriamente la moglie Delia del Carril, ma il matrimonio era ormai destinato al naufragio grazie anche alla nuova relazione iniziata in Messico. Di conseguenza, nel 1955, Delia lo lasciò per fare ritorno in Europa.

Neruda nel 1956Tuttavia, l'abbandono di Delia non determinò per Neruda quello dell'impegno comunista. Neruda proseguì nel suo impegno politico, prese ad esempio posizione contro gli Stati Uniti durante la crisi dei missili di Cuba e per la guerra del Vietnam. Ciò gli attirò gli strali delle parti più conservatrici degli USA, e l'Associazione per la libertà della cultura, organizzazione dietro la quale in realtà si celava la CIA, cercò di minare in ogni modo la sua credibilità e la sua reputazione, citandone ad esempio le posizioni in merito al tentato assassinio di Trotsky del 1940. Questa campagna fu frenata solo nel 1964, quando fu ventilata l'ipotesi di insignire Neruda del Premio Nobel e l'unica candidatura alternativa era quella di Jean-Paul Sartre, personaggio ancora più inviso ai conservatori statunitensi.

Nel 1966 Neruda fu invitato a New York per una conferenza internazionale dell'associazione degli scrittori, ma Arthur Miller, organizzatore dell'evento, incontrò molte difficoltà e dovette fare notevoli pressioni sull'amministrazione Johnson sia per riuscire a fargli ottenere un visto, sia per la presenza di tanti altri letterati provenienti da oltre la cortina di ferro. Proprio per questi motivi, lo scrittore messicano Carlos Fuentes indicò successivamente il convegno come uno dei primi passi verso la fine della Guerra Fredda. A lavori conclusi, Neruda effettuò per la Biblioteca del Congresso registrazioni audio di alcune delle sue composizioni.

Durante il viaggio di ritorno in patria, Neruda fece una sosta in Perù, dove fu accolto con tutti gli onori dal presidente Fernando Belaºnde Terry, ma la visita fu mal vista da Cuba: in quegli anni i rapporti tra Perù e Cuba erano alquanto tesi a causa delle differenze politiche, Neruda fu accusato dagli intellettuali cubani di essere un revisionista al soldo degli Yankees e non poté recarsi sull'isola caraibica sino al 1968. Di ciò Neruda fu molto dispiaciuto tanto che nell'autobiografia Confesso che ho vissuto criticò l'atteggiamento degli intellettuali cubani, definendolo «bigotto» ed un «colpo alla schiena». Nel 1967, alla morte di Ernesto Che Guevara in Bolivia, Neruda scrisse molti articoli sulla perdita del "grande eroe della rivoluzione", dalla cui stima era del resto ricambiato, come testimonia la composizione, da parte di Guevara, di un piccolo saggio elogiativo sul libro di Neruda Canto General.

Gli ultimi anni  [modifica] La Casa de Isla Negra La ChasconaNel 1970, Neruda fu indicato come uno dei candidati alla carica di presidente della repubblica cilena, ma si ritirò dalla competizione elettorale appoggiando nuovamente Allende e aiutandolo a divenire il primo presidente socialista democraticamente eletto in Cile. Per circa due anni e mezzo riprese allora la carriera diplomatica presso la sede di Parigi, che dovette però lasciare per motivi di salute.

Il 21 ottobre 1971, ottenne, terzo scrittore dell'America Latina dopo Gabriela Mistral nel 1945 e Miguel Ángel Asturias nel 1967, il Premio Nobel per la letteratura. Al suo primo ritorno in patria, l'anno successivo, venne trionfalmente accolto in una manifestazione presso lo stadio di Santiago.

Di questi anni sono anche le sue ultime pubblicazioni in vita, La espada encendida e Las piedras del cielo, edite durante il soggiorno parigino. Prima di morire assistette al disfacimento del primo governo democratico cileno e al colpo di stato del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre nonché alla morte del presidente Allende, suo amico personale. Insediatasi la dittatura, i militari cominciarono a vessarlo con le perquisizioni ordinate dal generale golpista; durante una di queste, Neruda avrebbe detto ai militari «Guardatevi in giro, c'è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia». Mentre attendeva di poter espatriare in Messico, il poeta morì il 23 settembre 1973: ufficialmente per un cancro alla prostata, ma più probabilmente, secondo la recente testimonianza del suo autista e guardia del corpo, assassinato nella clinica santa Maria a Santiago (la stessa nella quale, il 22 gennaio 1982, fu assassinato il democristiano Eduardo Frei Montalva) mediante una misteriosa iniezione.

Il suo funerale fu uno dei primissimi momenti di opposizione alla dittatura, poiché avvenne nonostante la presenza ostile e intimidatoria dei militari a mitra spianato che guardavano a vista i partecipanti, come testimonia un filmato clandestino girato all'epoca. Fu, inoltre, un gesto di solidarietà e di ribellione contro l'ultimo sfregio nei confronti di Neruda, compiuto mentre giaceva nel letto d'ospedale: la devastazione, sempre per ordine di Pinochet, delle sue proprietà.

L'ultima moglie pubblicò postuma l'autobiografia su cui Neruda aveva lavorato sino al giorno prima di morire, suscitando il risentimento di Pinochet per le dure critiche contro la brutalità della dittatura. Anche di Matilde Urrutia venne pubblicata, nel 1986, un'autobiografia sul periodo trascorso con Neruda, dal titolo Mi vida junto a Pablo Neruda; in Cile, le opere di Neruda vennero riabilitate e rimesse in commercio nel 1990, dopo la caduta della dittatura.

Le tre abitazioni possedute da Neruda in Cile, La Chascona a Santiago, La Sebastiana a Valparaiso, e la Casa de Isla Negra sono oggi musei, gestiti dalla Fondazione Neruda.

Onorificenze  [modifica]Oltre al Nobel, Neruda venne insignito nel 1953 del Premio Stalin per la Pace, onorificenza sovietica (che pochi anni dopo venne ridenominata Premio Lenin per la Pace, e con tale nome è più nota), e di una laurea honoris causa dall'Università di Oxford nel 1965.

Premio Lenin per la Pace
â" Mosca, 1953
Opere  [modifica] Neruda nella sede della Biblioteca del Congresso, 1966 Bibliografia essenziale  [modifica]1923 Crepusculario
1924 Veinte poemas de amor y una canción desesperada
1933 Residencia en la tierra
1937 Espa±a en el corazón (stampato nel '35, in piena guerra civile, dai soldati repubblicani, con carta da loro stessi prodotta, edizioni Ejercito del Este)
1950 Canto general
1953 Los Versos del Capitán
1954 U cas y el Viento
1960 Las piedras de Chile
1964 Memorial de Isla Negra
1970 Las piedras del cielo
1973 Confieso que he vivido (Autobiografia)
Tra le traduzioni ed edizioni italiane, degne di particolare nota sono:

Poesie, un'antologia pubblicata da Einaudi nel 1952, con traduzione di Salvatore Quasimodo e illustrazioni di Renato Guttuso.
Los versos del Capitán, nella loro duplice uscita: nel 1952, per una sottoscrizione tra amici con l'avallo dallo stesso Neruda, presso Arte Tipografica, e nel 2002, in occasione del cinquantenario del libro, sempre presso Arte Tipografica.
Le prime traduzioni compiute da Dario Puccini.
Pablo Neruda. Poesie e scritti in Italia, a cura di Ignazio Delogu, Lato Side Roma 1981.
Pubblicate in vita  [modifica]Crepuscolario, Santiago, Ediciones Claridad, 1923; edizione definitiva, Santiago, Nascimento 1924
Veinte poemas de amor y una canciòn desesperada, Santiago, Nascimento 1924; versione definitiva Santiago, Nascimento, 1932.
Tentativa del hombre infinito, Santiago, Nascimento, 1933.
El habitante y su esperanza, Santiago, Nascimento, 1926, prosa.
Anillos, Santiago, Nascimento, 1926, prosa, in collaborazione con il suo amico scrittore Tomás Lago.
El hondero entusiasta, Santiago, Empresa Letras, 1933.
Residencia en la tierra (1925-1931), Santiago, Nascimento 1933.
Residencia en la tierra (1925-1935), Spagna, Madrid, Cruz y Raya, 1935, 2 volumi.
Espa±a en el corazòn, Santiago, Ercilla, 1937
Las furias y las penas, Santiago, Nascimento, 1939
Tercera residencia (1935-1945), Argentina, Buenos Aires, Losada 1947; per la sezione IV, Espa±a en el corazòn, vedi sopra
Alturas de Macchu Picchu. Santiago, Ediciones de Libreria Neira, 1947.
Canto general, Messico, Talleres Gráficos de la Nación, 1950.
Los versos del capitán, Italia, Napoli, Arte Tipografica, 1952.
Todo el amor, Santiago, Nascimento, 1953
Las uvas y el viento, Santiago, Nascimento, 1954.
Odas elementales, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1954.
Viajes, Santiago, Nascimento, 1955
Nuevas odas elementales, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1956.
Tercer libro de las odas, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1957.
Estravagario, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1958.
Navegaciones y regresos, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1959.
Cien sonetos de amor, Santiago, Ed. Universitaria, 1959.
Canción de gesta, Cuba, La Habana, Imprenta Nacional de Cuba, 1960.
Las piedras de Chile, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1961.
Cantos cerimoniales, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1961.
Plenos poderes, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1962.
Sumario. Libro donde nace la lluvia, Italia, Alpignano, Tallone, 1963.
Memorial de Isla Negra, Argentina, Buenos Aires, Losada 1964, 5 volumi, il primo costituito dall'opera precedente.
Arte de pàjaros, Santiago, Ediciones Sociedad de Amigos del Arte contemporáneo, 1966, illustrato.
Una casa en la arena, Spagna, Barcellona, Lumen, 1966
Fulgor y muerte de Joaquín Murieta, Santiago, Zig-Zag, 1967, opera teatrale
La barcarola, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1967.
La manos del día, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1968.
Comiendo en Hungría, Spagna, Barcellona, Lumen, 1968
La copa de sangre, Italia, Alpignano, Tallone, 1969
Aùn, Santiago, Nascimento, 1969.
Fin de mundo, Santiago, Edición de la Sociedad de Arte Contemporáneo, 1969.
Maremoto, Santiago, Sociedad de Arte Contemporáneo, 1970
La espada encendida, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1970.
Las piedras del cielo, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1970.
Geografia infructuosa, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1972.
La rosa separada, Francia, Parigi, Editions du dragón, 1972.
Incitación al nixonicidio y alabanza de la revolución chilena, Santiago, Empresa Editora Nacional Quimantº, 1973.
Postume  [modifica]Libro de las preguntas, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974.
Jardín de invierno, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974.
2000, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974
El corazón amarillo, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974
Elegía, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974
El mar y las campanas, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974
Defectos escogidos, Argentina, Buenos Aires, Losada, 1974
Confieso que he vivido. Memorias, Spagna, Barcellona, Seix Barral, 1974
Para nacer he nacido, Spagna, Barcellona, Seix Barral, 1977.
El río invisible. Poesía y prosa de juventud, Spagna, Barcellona, Seix Barral, 1980
Film  [modifica]Film "Il Postino" (1994). Pablo Neruda è interpretato da Philippe Noiret affiancato da uno straordinario Massimo Troisi.

Errori di attribuzione  [modifica]Lentamente muore
« Muore lentamente chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. »
 

Questo è il primo verso di una poesia dal titolo ¿Quién muere? diffusasi via posta elettronica ed erroneamente attribuita a Pablo Neruda, come confermano la Fundación Pablo Neruda e Stefano Passigli, presidente della Passigli Editori, editore delle opere di Neruda in Italia: «Chi conosce la sua poesia si accorge all'istante che quei versi banali e vagamente new-age non possono certo essere opera di uno dei più grandi poeti del Novecento». La poesia, il cui vero titolo è A Morte Devagar, appartiene in realtà alla scrittrice e poetessa brasiliana Martha Medeiros, ed è stata pubblicata il 1° novembre 2000 sul quotidiano Zero Hora di Porto Alegre, Brasile.[
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Da: Romanticismo18/10/2011 18:39:46
Lilli e il vagabondo (Lady and the Tramp) è un film d'animazione del 1955 diretto da Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske.

Prodotto da Walt Disney ed uscito nelle sale il 16 giugno 1955, distribuito dalla Buena Vista Distribution, Lilli e il vagabondo, il 15° classico Disney secondo il canone ufficiale, fu il primo lungometraggio animato girato in CinemaScope (se si considerano anche i film live-action della Disney, è stato preceduto da 20.000 leghe sotto i mari).

Indice
1 Trama
2 Edizioni italiane
3 Sequel
4 Curiosità
5 Voci correlate
6 Collegamenti esterni

Trama  [modifica] Lilli e il Vagabondo.Londra, primi anni del XX secolo. In occasione del Natale, il giovane sposo Gianni regala alla sua giovane moglie Lisa (da lui chiamata "Tesoro" e chiamato a sua volta "Gianni caro" da lei) una cucciola di Cocker Spaniel inglese che decidono di chiamare Lilli. In breve tempo la cagnolina diventa la regina della casa e quando compie sei mesi, i suoi padroni le regalano il collare con la medaglietta. Subito, Lilli corre dai suoi due vecchi amici per farsi ammirare. Il primo, Whisky, è un terrier scozzese un po' burbero ma molto distinto, mentre il secondo, Fido, è un Bloodhound molto educato che in gioventù era stato un famoso cane poliziotto dal fiuto eccezionale, ma che ora, con la vecchiaia, secondo molti, sembra aver perso l'olfatto.

Improvvisamente, però, sembra che Tesoro e Gianni caro abbandonino e trascurino Lilli e non le diano più le attenzioni di prima. Così, un giorno, Lilli, confida tutto questo ai suoi amici e loro gliene spiegano il motivo: Tesoro sta aspettando un bambino. Mentre i tre parlano, si unisce a loro Biagio, un cane Schnauzer medio vagabondo, che, passando di lì per caso, ascolta le terribili disavventure che sono capitate a Lilli nell'ultimo periodo, predicendole a sua volta un futuro non tanto migliore. Whisky e Fido lo zittiscono e lo cacciano infuriati per non rattristare ancora di più Lilli, che non vuole credere alle parole di quello strano individuo e gli gira le spalle sdegnata.

Il tempo passa ed il bambino finalmente nasce, ma Lilli è incuriosita di sapere di preciso cos'è un "pupo", così decide di andare nella sua stanza per scoprirlo e lo trova in braccio a Tesoro che lo coccola. Tutto ritorna come prima e la cagnolina si affeziona al nuovo arrivato, finché due mesi dopo Tesoro e Gianni caro decidono di fare un viaggio. Telefonano, quindi, alla vecchia zia Sara per accudire il bimbo. Ma la zia fin dall'inizio non vede di buon occhio la presenza di Lilli e per di più ha portato con sé due gatti siamesi che di lì a poco incominciano a fare danni (tentano di mangiare il canarino e poi il pesciolino, dopodiché tentano di andare a bere il latte del pupo). Lilli infuriata li rincorre, ma quando la zia entra in salotto, questi si sdraiano e miagolano come aggrediti.

Allora la zia decide di metterle una museruola, ma la cagnolina si ribella, scappa e corre per le vie della città, venendo anche rincorsa da tre cani feroci e rabbiosi. Per fortuna arriva Biagio che, grazie al suo intrepido coraggio, la aiuta riuscendo a cacciarli. Poi, entrando furbescamente nello zoo creando una lite tra il poliziotto di guardia ad esso ed un passante e facendosi aiutare da un castoro, le fa anche togliere la museruola. Presto si avvicina l'ora di cena e Biagio decide di andare a mangiare con Lilli dai suoi buoni amici Tony e Joe, che gli preparano un piatto di spaghetti al dente con polpettine di carne, seguendo poi la famosissima sequenza del bacio. Finita la cena, fanno una passeggiata romantica nel parco e come tutti gli innamorati del mondo si scambiano la loro eterna promessa d'amore.

Il giorno dopo, quando spunta il sole, Biagio propone a Lilli di andare con lui ad esplorare l'immensa pianura verde oltre la città; lei vorrebbe, ma, pensando al pupo, lo convince a riaccompagnarla a casa. Durante il ritorno a Biagio viene in mente di dare la caccia alle galline ed accompagnato da Lilli, entra in un pollaio, spaventandole. Ma il padrone, sentendole starnazzare, interviene subito, sparando una fucilata. I due, allora, fuggono via subito, ma Lilli rimane indietro e viene catturata da un accalappiacani, che la porta al canile. Qui, sentendosi derisa dal grosso bulldog inglese Toughy e da altri cani, si sente confusa e smarrita, ma è consolata dalla pechinese Gilda, una vecchia fiamma di Biagio e dal borzoi Boris, un cane russo molto distinto. Tutti parlano di Biagio, di tutte le volte che è sfuggito agli accalappiacani e soprattutto, dei suoi amori. Ma Boris aggiunge che un giorno Biagio, incontrando il vero amore, si distrarrà, i cosacchi lo cattureranno e per lui sarà la fine.

Grazie alla sua piastrina, Lilli può tornare a casa e si chiude triste ed avvilita nella sua cuccia. Whisky e Fido, i due amici di sempre, vanno a farle visita e cercano di tirarla su, ma ad un certo punto arriva anche Biagio che le porta in regalo un osso, per farsi perdonare. Tutti e tre gli voltano le spalle e subito dopo Whisky e Fido si allontanano. Lui, dopo una sfuriata con Lilli, se ne va via triste; ma nel frattempo un topo riesce a salire fino alla finestra aperta della stanza del pupo. Non ancora molto lontano, Biagio, sentendo abbaiare Lilli, corre in suo aiuto ed entra nella camera del bambino per salvarlo. Lilli, riuscendo a liberarsi della catena a cui era legata, lo raggiunge e finalmente Biagio uccide il topo. Ma nel frattempo la zia si sveglia, arriva e pensa che la colpa di quel disastro sia tutta dei due cani. Così chiude il povero Biagio in uno sgabuzzino e Lilli in cantina e poi decide di chiamare il canile per far portare via il vagabondo.

Lilli.Tesoro e Gianni caro rincasano proprio nell'istante in cui l'accalappiacani sta trascinando via l'innocente Biagio. Si informano dell'accaduto ma non riescono a crederci, quindi liberano Lilli dalla cantina, e lei, abbaiando, fa capire cosa è veramente successo. Anche Fido sente la verità sull'accaduto (dopo anche il successo di prima) e propone a Whisky di seguire la pista del carro per salvare Biagio. Whisky, scoraggiato, gli dice che ha perso l'odorato e che quindi è impossibile che riesca nell'impresa, ma Fido non gli dà retta e corre, trovando la pista giusta. I due cani raggiungono finalmente il carro e riescono a fermarlo facendolo rovesciare su un lato. Fido rimane schiacciato sotto di esso, ma fortunatamente non ha nulla di grave: si rompe solo una zampa. Nel frattempo, Lilli e Gianni caro arrivano su un'automobile; Biagio viene così liberato e torna a casa con loro.

Quando giunge il Natale, Lilli e Biagio (che ora anche lui ha un collare con la piastrina), con i loro quattro cuccioli, tre femmine somiglianti alla mamma ed un maschio somigliante al papà, si riuniscono sotto l'albero per una foto ricordo, insieme a Whisky e Fido. Quest'ultimo è molto orgoglioso di aver dimostrato che il suo fiuto è ancora potente come una volta e conclude il film raccontando ai cuccioli la storia del suo vecchio nonno Fedele e quello che diceva sempre ma si rende poi conto di non ricordarselo più cos'era che gli diceva sempre.

Edizioni italiane  [modifica]Esistono due doppiaggi italiani di questo film: un primo doppiaggio del 1955 (presente nel VHS pubblicato nel 1990 e nell'edizione speciale in DVD del 2006) e un ridoppiaggio, oggi ritirato, del 1997, presente solo nel VHS dello stesso anno e nell'edizione DVD del 2001. Nel 1997 infatti la pellicola venne restaurata e, oltre che alla visione, venne deciso di rendere moderne anche le voci. I dialoghi rimasero uguali a quelli originali e furono modificate solo alcune piccolissime battute. Anche i nuovi doppiatori doppiarono personaggi con toni quasi uguali a quelli originali ma con un'eccezione per la protagonista Lilli: Nel doppiaggio d'epoca Lilli, essendo una cagnetta di circa 6 mesi e quindi molto giovane, viene giustamente doppiata con un tono infantile. Fu infatti scelta Flaminia Jandolo perché, avendo solo 16 anni, era adatta al personaggio di Lilli. Nel ridoppiaggio invece viene scelta Margherita Buy la quale dà a Lilli un tono del tutto adulto e poco adatto al personaggio. Dopo nove anni, nel 2006, la pellicola con l'audio d'epoca è finalmente restaurata e la versione originale del film ritorna nuovamente alla luce con la stampa del DVD e da quell'anno il film non si considera più ridoppiato.

Sequel  [modifica]Il film ha avuto un seguito dal titolo Lilli e il vagabondo II - Il cucciolo ribelle

Curiosità  [modifica] Questa sezione contiene «curiosità» da riorganizzare.
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Cinque personaggi del film ovvero i protagonisti Lilli e Biagio, Whisky, Gilda e Toughy appaiono nel lungometraggio La carica dei 101, del 1961. Whisky è inoltre apparso anche in Oliver & Company, sempre della Disney.[senza fonte]
La padrona di Lilli cioè Tesoro, è praticamente identica a Mary Darling del precedente lungometraggio Le avventure di Peter Pan di due anni prima e quindi del 1953.[senza fonte]
Biagio, nella maggior parte dei libri Disney, è stato ribattezzato con il nome generico di " il Vagabondo".
Biagio sembra essere un incrocio di Schnauzer medio
Rispondi

Da: Cultura18/10/2011 18:41:06
LEGGE 7 agosto 1990 n. 241 (aggiornata con le modifiche introdotte dalla l. 15/2005 e dalla l.
80/2005)
NUOVE NORME IN MATERIA DI PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E DI DIRITTO
DI ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI.
CAPO I
Principi
Art. 1.
Principi generali dell'attività amministrativa
1. L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed é retta da criteri di
economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla
presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai
principi dell'ordinamento comunitario.
2. bis. La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce
secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.
3. ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto
dei principi di cui al comma 1.
4. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie
e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria.
Art. 2.
Conclusione del procedimento
1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere
iniziato d'ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante
l'adozione di un provvedimento espresso.
2. Con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23
agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per
la funzione pubblica, sono stabiliti i termini entro i quali i procedimenti di competenza
delle amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti per
legge. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini
entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. I termini sono
modulati tenendo conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell'organizzazione
amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall'inizio di
ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento é ad
iniziativa di parte.
3. Qualora non si provveda ai sensi del comma 2, il termine é di novanta giorni.
4. Nei casi in cui leggi o regolamenti prevedono per l'adozione di un provvedimento
l'acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini di cui ai commi 2
e 3 sono sospesi fino all'acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo
comunque non superiore a novanta giorni. I termini di cui ai commi 2 e 3 possono essere
altresì sospesi, per una sola volta, per l'acquisizione di informazioni o certificazioni
relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso
dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche
amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2.
5. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso
il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione
inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla
scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice amministrativo può
conoscere della fondatezza dell'istanza. E' fatta salva la riproponibilità dell'istanza di
avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
Art. 3.
Motivazione del provvedimento
1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere
motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma secondo. La motivazione deve
indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
della amministrazione, in relazione alle risultanze della istruttoria.
2. La motivazione non é richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.
3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso
disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama.
4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui é
possibile ricorrere.
Art. 3-bis.
Uso della telematica
1. Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche
incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra
queste e i privati.
CAPO II
Responsabile del procedimento
Art. 4.
Unità organizzativa responsabile del procedimento
1. Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad
atti di loro competenza l'unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro
adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale.
2. Le disposizioni adottate ai sensi del comma primo sono rese pubbliche secondo quanto
previsto dai singoli ordinamenti.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " al momento della
presentazione della domanda di concessione edilizia, l'ufficio abilitato a riceverla comunica al
richiedente il nominativo del responsabile del procedimento di cui al presente art. 4". Il D.P.R.
18 aprile 1994, n. 340 ha disposto che "il Ministro, entro quindici giorni dall'entrata in vigore del
regolamento previsto dallo stesso decreto, provvede ad adeguare il regolamento emanato ai sensi
del presente articolo 2, in conformità alle misure di semplificazione previste dal suindicato
D.P.R. n. 340/94.")
Art. 5.
Responsabile del procedimento
1. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro
dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento
inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione del
provvedimento finale.
2. Fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma primo, é considerato
responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa
determinata a norma del comma primo dell'articolo 4.
3. L'unità organizzativa competente e il nominativo del responsabile del procedimento sono
comunicati ai soggetti di cui all'articolo 7 e, a richiesta, a chiunque vi abbia interesse.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " al momento della
presentazione della domanda di concessione edilizia, l'ufficio abilitato a riceverla comunica al
richiedente il nominativo del responsabile del procedimento di cui al presente art. 5").
Art. 6.
Compiti del responsabile del procedimento
1. Il responsabile del procedimento:
a. valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del provvedimento;
b. accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e
adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. In
particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o
istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed
ordinare esibizioni documentali;
c. propone l'indizione o, avendone la competenza, indice le conferenze di servizi di
cui all'articolo 14;
d. cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai
regolamenti;
e. adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli
atti all'organo competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del
provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può
discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
CAPO III
Partecipazione al procedimento amministrativo
Art. 7.
Comunicazione di avvio del procedimento
1. Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità
del procedimento, l'avvio del procedimento stesso é comunicato, con le modalità previste
dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale é destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non
sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi
diretti destinatari, l'amministrazione é tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell'inizio del procedimento.
2. Nelle ipotesi di cui al comma primo resta salva la facoltà dell'amministrazione di
adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma
primo, provvedimenti cautelari.
Art. 8.
Modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento
1. L'amministrazione provvede a dare notizia dell'avvio del procedimento mediante
comunicazione personale.
2. Nella comunicazione debbono essere indicati:
a. l'amministrazione competente;
b. l'oggetto del procedimento promosso;
c. l'ufficio e la persona responsabile del procedimento;
d. bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3,
deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia
dell'amministrazione;
e. ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa
istanza;
f. l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti.
3. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o
risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di
cui al comma secondo mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite
dall'amministrazione medesima.
4. L'omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può esser fatta valere solo dal
soggetto nel cui interesse la comunicazione é prevista.
Art. 9.
Intervento nel procedimento
1. Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento.
Art. 10.
Diritti dei partecipanti al procedimento
1. I soggetti di cui all'articolo 7 e quelli intervenuti ai sensi dell'articolo 9 hanno diritto:
a. di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall'articolo
24;
b. di presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di
valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Art. 10-bis.
Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.
1. Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità
competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il
termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di
presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle
osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo.
Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella
motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si
applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e
assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Art. 11.
Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'articolo 10,
l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in
ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di
questo.
2. bis. Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del
procedimento puo' predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o
contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati .
3. Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto
scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente
previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili.
4. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per
questi ultimi.
5. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente
dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione
agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.
6. bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti
i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al
comma 1, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che
sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.
7. Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi di cui
al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Art. 12.
Provvedimenti attributivi di vantaggi economici
1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere e persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma primo deve risultare dai
singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma primo.
Art. 13.
Ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione
1. Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività
della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione.
2. Dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano
parimenti ferme le particolari norme che li regolano, nonchè ai procedimenti previsti dal
decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni, dalla legge 15 marzo
1991, n. 82, e successive modificazioni, dal decreto legislativo 29 marzo 1991, n. 119, e
successive modificazioni.
CAPO IV
Semplificazione dell'azione amministrativa
Art. 14.
Conferenza di servizi
1. Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti
in un procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente indice di regola una
conferenza di servizi.
2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve
acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre
amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte
dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì
indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni
interpellate.
3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l'esame contestuale di interessi
coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o
risultati. In tal caso, la conferenza è indetta dall'amministrazione o, previa informale
intesa, da una delle amministrazioni che curano l'interesse pubblico prevalente. Per i
lavori pubblici si continua ad applicare l'articolo 7 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e
successive modificazioni.
4. Quando l'attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di
competenza di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche
su richiesta dell'interessato, dall'amministrazione competente per l'adozione del
provvedimento finale.
5. In caso di affidamento di concessione di lavori pubblici la conferenza di servizi è
convocata dal concedente ovvero, con il consenso di quest'ultimo, dal concessionario
entro quindici giorni fatto salvo quanto previsto dalle leggi regionali in materia di
valutazione di impatto ambientale (VIA). Quando la conferenza è convocata ad istanza
del concessionario spetta in ogni caso al concedente il diritto di voto.
6. bis. Previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza di servizi è convocata
e svolta avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità
stabiliti dalle medesime amministrazioni.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per l'attuazione di progetti di protezione dell'ambiente, che "
ai fini dell'acquisizione delle necessarie intese, concerti, nulla osta o assensi comunque
denominati di altre amministrazioni pubbliche, il commissario puo' convocare apposite
conferenze di servizi ai sensi del presente art. 14, che devono pronunciarsi entro trenta giorni
dalla prima convocazione. L'approvazione assunta all'unanimità sostituisce ad ogni effetto gli atti
di competenza delle singole amministrazioni e comporta, altresi', dichiarazione di pubblica
utilità, urgenza e indeffiribilità di lavori". La legge 15 maggio 1997, n. 127 ha disposto che "le
disposizioni di cui ai commi 2-bis, 3-bis e 4 del presente art. 14, si applicano anche alle altre
conferenze di servizi previste dalle vigenti disposizioni di legge)
Art. 14-bis.
Conferenza di servizi preliminare
1. La conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare complessità e di
insediamenti produttivi di beni e servizi, su motivata richiesta dell'interessato,
documentata, in assenza di un progetto preliminare, da uno studio di fattibilità, prima
della presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, al fine di verificare quali
siano le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso. In
tale caso la conferenza si pronuncia entro trenta giorni dalla data della richiesta e i relativi
costi sono a carico del richiedente.
2. Nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico, la conferenza
di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di indicare quali siano le condizioni
per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i pareri, le concessioni, le autorizzazioni, le
licenze, i nullaosta e gli assensi, comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente.
In tale sede, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, si
pronunciano, per quanto riguarda l'interesse da ciascuna tutelato, sulle soluzioni
progettuali prescelte. Qualora non emergano, sulla base della documentazione
disponibile, elementi comunque preclusivi della realizzazione del progetto, le suddette
amministrazioni indicano, entro quarantacinque giorni, le condizioni e gli elementi
necessari per ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, gli atti di
consenso.
3. Nel caso in cui sia richiesta VIA, la conferenza di servizi si esprime entro trenta giorni
dalla conclusione della fase preliminare di definizione dei contenuti dello studio
d'impatto ambientale, secondo quanto previsto in materia di VIA. Ove tale conclusione
non intervenga entro novanta giorni dalla richiesta di cui al comma 1, la conferenza di
servizi si esprime comunque entro i successivi trenta giorni. Nell'ambito di tale
conferenza, l'autorità competente alla VIA si esprime sulle condizioni per la elaborazione
del progetto e dello studio di impatto ambientale. In tale fase, che costituisce parte
integrante della procedura di VIA, la suddetta autorità esamina le principali alternative,
compresa l'alternativa zero, e, sulla base della documentazione disponibile, verifica
l'esistenza di eventuali elementi di incompatibilità, anche con riferimento alla
localizzazione prevista dal progetto e, qualora tali elementi non sussistano, indica
nell'ambito della conferenza di servizi le condizioni per ottenere, in sede di presentazione
del progetto definitivo, i necessari atti di consenso.
4. bis. Il dissenso espresso in sede di conferenza preliminare da una amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico,
della salute o della pubblica incolumità, con riferimento alle opere interregionali, è
sottoposto alla disciplina di cui all'articolo 14-quater, comma 3.
5. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, la conferenza di servizi si esprime allo stato degli atti a
sua disposizione e le indicazioni fornite in tale sede possono essere motivatamente
modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi
successive del procedimento, anche a seguito delle osservazioni dei privati sul progetto
definitivo.
6. Nel caso di cui al comma 2, il responsabile unico del procedimento trasmette alle
amministrazioni interessate il progetto definitivo, redatto sulla base delle condizioni
indicate dalle stesse amministrazioni in sede di conferenza di servizi sul progetto
preliminare, e convoca la conferenza tra il trentesimo e il sessantesimo giorno successivi
alla trasmissione. In caso di affidamento mediante appalto concorso o concessione di
lavori pubblici, l'amministrazione aggiudicatrice convoca la conferenza di servizi sulla
base del solo progetto preliminare, secondo quanto previsto dalla legge 11 febbraio 1994,
n. 109, e successive modificazioni.
Art. 14-ter.
Lavori della conferenza di servizi
01. La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni ovvero, in
caso di particolare complessità dell'istruttoria, entro trenta giorni dalla data di indizione.
1. La conferenza di servizi assume le determinazioni relative all'organizzazione dei propri
lavori a maggioranza dei presenti.
2. La convocazione della prima riunione della conferenza di servizi deve pervenire alle
amministrazioni interessate, anche per via telematica o informatica, almeno cinque giorni
prima della relativa data. Entro i successivi cinque giorni, le amministrazioni convocate
possono richiedere, qualora impossibilitate a partecipare, l'effettuazione della riunione in
una diversa data; in tale caso, l'amministrazione procedente concorda una nuova data,
comunque entro i dieci giorni successivi alla prima.
3. Nella prima riunione della conferenza di servizi, o comunque in quella immediatamente
successiva alla trasmissione dell'istanza o del progetto definitivo ai sensi dell'articolo 14-
bis, le amministrazioni che vi partecipano determinano il termine per l'adozione della
decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i novanta giorni,
salvo quanto previsto dal comma 4. Decorsi inutilmente tali termini, l'amministrazione
procedente provvede ai sensi dei commi 6-bis e 9 del presente articolo.
4. Nei casi in cui sia richiesta la VIA, la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito
la valutazione medesima ed il termine di cui al comma 3 resta sospeso, per un massimo di
novanta giorni, fino all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. Se la
VIA non interviene nel termine previsto per l'adozione del relativo provvedimento,
l'amministrazione competente si esprime in sede di conferenza di servizi, la quale si
conclude nei trenta giorni successivi al termine predetto. Tuttavia, a richiesta della
maggioranza dei soggetti partecipanti alla conferenza di servizi, il termine di trenta giorni
di cui al precedente periodo è prorogato di altri trenta giorni nel caso che si appalesi la
necessità di approfondimenti istruttori.
5. Nei procedimenti relativamente ai quali sia già intervenuta la decisione concernente la
VIA le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 14-quater, nonché quelle di cui agli
articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, si applicano alle sole amministrazioni preposte alla
tutela della salute, del patrimonio storico-artistico e della pubblica incolumitàa.
6. Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza di servizi attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la
volontà dell'amministrazione su tutte le decisioni di competenza della stessa.
7. bis. All'esito dei lavori della conferenza, e in ogni caso scaduto il termine di cui al comma
3, l'amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle
posizioni prevalenti espresse in quella sede;
8. Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione il cui rappresentante non abbia
espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata.
9. In sede di conferenza di servizi possono essere richiesti, per una sola volta, ai proponenti
dell'istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione. Se questi ultimi non
sono forniti in detta sede, entro i successivi trenta giorni, si procede all'esame del
provvedimento.
10. Il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis
sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso
comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque
invitate a partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza.
11. Il provvedimento finale concernente opere sottoposte a VIA è pubblicato, a cura del
proponente, unitamente all'estratto della predetta VIA, nella Gazzetta Ufficiale o nel
Bollettino regionale in caso di VIA regionale e in un quotidiano a diffusione nazionale.
Dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale decorrono i termini per eventuali
impugnazioni in sede giurisdizionale da parte dei soggetti interessati.
Art. 14-quater.
Effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi
1. Il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni, regolarmente convocate alla
conferenza di servizi, a pena di inammissibilità, deve essere manifestato nella conferenza
di servizi, deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che
non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare le specifiche
indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso.
2. Abrogato.
3. Se il motivato dissenso è espresso da un'amministrazione preposta alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, la decisione è rimessa dall'amministrazione procedente, entro dieci
giorni: a) al Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano, di seguito denominata "Conferenza Stato-regioni", in caso di
dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni
regionali; c) alla Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un
ente locale o tra più enti locali. Verificata la completezza della documentazione inviata ai
fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente del
Consiglio dei ministri, della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata,
valutata la complessità dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore
periodo non superiore a sessanta giorni.
4. bis. Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una
delle materie di propria competenza, la determinazione sostitutiva è rimessa
dall'amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) alla Conferenza Stato-regioni, se il
dissenso verte tra un'amministrazione statale e una regionale o tra amministrazioni
regionali; b) alla Conferenza unificata, in caso di dissenso tra una regione o provincia
autonoma e un ente locale. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini
istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente della
Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità
dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a
sessanta giorni.
5. ter. Se entro i termini di cui ai commi 3 e 3-bis la Conferenza Stato-regioni o la
Conferenza unificata non provvede, la decisione, su iniziativa del Ministro per gli affari
regionali, è rimessa al Consiglio dei ministri, che assume la determinazione sostitutiva
nei successivi trenta giorni, ovvero, quando verta in materia non attribuita alla
competenza statale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, e dell'articolo 118 della
Costituzione, alla competente Giunta regionale ovvero alle competenti Giunte delle
province autonome di Trento e di Bolzano, che assumono la determinazione sostitutiva
nei successivi trenta giorni; qualora la Giunta regionale non provveda entro il termine
predetto, la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri, che delibera con la
partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate.
6. quater. In caso di dissenso tra amministrazioni regionali, i commi 3 e 3-bis non si
applicano nelle ipotesi in cui le regioni interessate abbiano ratificato, con propria legge,
intese per la composizione del dissenso ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della
Costituzione, anche attraverso l'individuazione di organi comuni competenti in via
generale ad assumere la determinazione sostitutiva in caso di dissenso.
7. quinquies. Restano ferme le attribuzioni e le prerogative riconosciute alle regioni a statuto
speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano dagli statuti speciali di
autonomia e dalle relative norme di attuazione
8. Abrogato
9. Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova
applicazione l'articolo 5, comma 2, lettera c-bis), della legge 23 agosto 1988, n. 400,
introdotta dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303.
Art. 14-quinquies.
Conferenza di servizi in materia di finanza di progetto
1. Nelle ipotesi di conferenza di servizi finalizzata all'approvazione del progetto definitivo
in relazione alla quale trovino applicazione le procedure di cui agli articoli 37-bis e
seguenti della legge 11 febbraio 1994, n. 109, sono convocati alla conferenza, senza
diritto di voto, anche i soggetti aggiudicatari di concessione individuati all'esito della
procedura di cui all'articolo 37-quater della legge n. 109 del 1994, ovvero le società di
progetto di cui all'articolo 37-quinquies della medesima legge.
Art. 15.
Accordi fra pubbliche amministrazioni
1. Anche al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo 14, le amministrazioni pubbliche
possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune.
2. Per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall'articolo
11, commi secondo, terzo e quinto.
Art. 16.
Attività consultiva
1. Gli organi consultivi delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sono tenuti a rendere i pareri ad essi
obbligatoriamente richiesti entro quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta.
Qualora siano richiesti di pareri facoltativi, sono tenuti a dare immediata comunicazione
alle amministrazioni richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso.
2. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere o senza che
l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, e' in facoltà dell'amministrazione
richiedente di procedere indipendentemente dall'acquisizione del parere.
3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano in caso di pareri che debbano
essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica,
territoriale e della salute dei cittadini.
4. Nel caso in cui l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie il termine di cui al
comma 1 puo' essere interrotto per una sola volta e il parere deve essere reso
definitivamente entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte
delle amministrazioni interessate".
5. Qualora il parere sia favorevole, senza osservazioni, il dispositivo é comunicato
telegraficamente o con mezzi telematici.
6. Gli organi consultivi dello stato predispongono procedure di particolare urgenza per
l'adozione dei pareri loro richiesti.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " la commissione
edilizia comunale, tenuto conto dell'ordine cronologico di presentazione della domanda, deve
esprimersi nei termini previsti dai regolamenti comunali o, in mancanza, entro trenta giorni dalla
scadenza del termine di cui al comma 3, in ordine agli aspetti di propria competenza. Decorso il
termine di cui al comma 4 dell'art. 4 del d.l. 398/1993 convertito con l. 493/1993, si applicano le
disposizioni di cui al presente articolo 16.")
Art. 17.
Valutazioni tecniche
1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di
un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di
organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze
istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei termini prefissati dalla
disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il
responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri
organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione
e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari.
2. La disposizione di cui al comma primo non si applica in caso di valutazioni che debbano
essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggisticoterritoriale
e della salute dei cittadini.
3. Nel caso in cui l'ente od organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie
all'amministrazione procedente, si applica quanto previsto dal comma quarto dell'articolo
16.
Art. 18. (nota)
Autocertificazione
1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni
interessate adottano le misure organizzative idonee a garantire l'applicazione delle
disposizioni in materia di autocertificazione e di presentazione di atti e documenti da
parte di cittadini a pubbliche amministrazioni di cui alla legge 4 gennaio 1968, n. 15 , e
successive modificazioni e integrazioni. Delle misure adottate le amministrazioni danno
comunicazione alla commissione di cui all'articolo 27.
2. I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l'istruttoria del
procedimento, sono acquisiti d'ufficio quando sono in possesso dell'amministrazione
procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni.
L'amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per
la ricerca dei documenti
3. Parimenti sono accertati d'ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le
qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione é
tenuta a certificare.
Art. 19.
Dichiarazione di inizio attività
1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per
l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti
amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti
stessi, con la sola esclusione degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'amministrazione della giustizia,
alla amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione
del gettito, anche derivante dal gioco, alla tutela della salute e della pubblica incolumità,
del patrimonio culturale e paesaggistico e dell'ambiente, nonché degli atti imposti dalla
normativa comunitaria, é sostituito da una dichiarazione dell'interessato corredata, anche
per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente
richieste. L'amministrazione competente può richiedere informazioni o certificazioni
relative a fatti, stati o qualità soltanto qualora non siano attestati in documenti già in
possesso dell'amministrazione stessa o non siano direttamente acquisibili presso altre
pubbliche amministrazioni.
2. L'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di
presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente. Contestualmente
all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà comunicazione all'amministrazione competente.
3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e
fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui
al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a
conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. E' fatto comunque salvo il
potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela,
ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Nei casi in cui la legge prevede
l'acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine per l'adozione dei
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti sono
sospesi, fino all'acquisizione dei pareri, fino a un massimo di trenta giorni, scaduti i quali
l'amministrazione può adottare i propri provvedimenti indipendentemente
dall'acquisizione del parere. Della sospensione é data comunicazione all'interessato.
4. Restano ferme le disposizioni di legge vigenti che prevedono termini diversi da quelli di
cui ai commi 2 e 3 per l'inizio dell'attività e per l'adozione da parte dell'amministrazione
competente di provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei
suoi effetti.
5. Ogni controversia relativa all'applicazione dei commi 1, 2 e 3 é devoluta alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
Art. 20. (nota)
Silenzio assenso
1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il
rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel
termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non
procede ai sensi del comma 2.
2. L'amministrazione competente può indire, entro trenta giorni dalla presentazione
dell'istanza di cui al comma 1, una conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche
tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati.
3. Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda,
l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi
degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti
il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica
sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa
comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la
legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti
e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri,
su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti.
5. Si applicano gli articoli 2, comma 4, e 10-bis.
Art. 21.
Disposizioni sanzionatorie
1. Con la denuncia o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l'interessato deve dichiarare
la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni
mendaci o di false attestazioni non é ammessa la conformazione dell'attività e dei suoi
effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante é punito con
la sanzione prevista dall'articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più
grave reato.
2. Le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza dell'atto di
assenso dell'amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di
coloro i quali diano inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei
requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.
3. bis. Restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette
ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche
se é stato dato inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20.
CAPO IV-BIS
Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso
Art. 21-bis.
Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati.
1. Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei
confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle
forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura
civile. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile
o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede mediante forme di
pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima. Il
provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere
sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia. I
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare ed
urgente sono immediatamente efficaci.
Art. 21-ter.
Esecutorietà
1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono
imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento
costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto
obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa
diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità
previste dalla legge.
2. Ai fini dell'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano
le disposizioni per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
Art. 21-quater.
Efficacia ed esecutività del provvedimento
1. I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.
2. L'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per
gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è
esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una
sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze.
Art. 21-quinquies.
Revoca del provvedimento
1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della
situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il
provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte
dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca
determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la
revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati,
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in
materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo sono attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Art. 21-sexies.
Recesso dai contratti
1. Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi
previsti dalla legge o dal contratto.
Art. 21-septies.
Nullità del provvedimento
1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del
giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
2. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o
elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
Art. 21-octies.
Annullabilità del provvedimento
1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da
eccesso di potere o da incompetenza.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
Art. 21-nonies.
Annullamento d'ufficio
1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
CAPO V
Accesso ai documenti amministrativi
Art. 22.
Definizioni e principi in materia di accesso.
1. Ai fini del presente capo si intende:
a. per "diritto di accesso", il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre
copia di documenti amministrativi;
b. per "interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso;
c. per "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso
vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;
d. per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di
atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale;
e. per "pubblica amministrazione", tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal
diritto nazionale o comunitario.
2. L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione. Resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle
rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela.
3. Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati
all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.
4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che
non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della
persona cui i dati si riferiscono.
5. L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non
rientrante nella previsione dell'articolo 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, si informa al principio di leale
cooperazione istituzionale.
6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo
di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Art. 23.
Ambito di applicazione del diritto di accesso
1. Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di
pubblici servizi. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza
si esercita nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, secondo quanto previsto dall'articolo 24.
Art. 24. (note)
Esclusione dal diritto di accesso.
1. Il diritto di accesso è escluso:
a. per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n.
801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione
espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma
6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo;
b. nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano;
c. nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per
i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;
d. nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti
informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi.
2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse
formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del
comma 1.
3. Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni.
4. L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare
ricorso al potere di differimento.
5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono
considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le
pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l'eventuale
periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all'accesso.
6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988,
n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti
amministrativi:
a. quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall'articolo 12 della legge 24 ottobre
1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una lesione, specifica e
individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all'esercizio della sovranità
nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali, con
particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di
attuazione;
b. quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di
determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria;
c. quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le
azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e
alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche
investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e
delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle
indagini;
d. quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche,
persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli
interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale
di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti
all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;
e. quando i documenti riguardino l'attività in corso di contrattazione collettiva
nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all'espletamento del relativo
mandato.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel
caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la
vita sessuale.
Art. 25.
Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi
1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei
documenti é gratuito. Il rilascio di copia é subordinato soltanto al rimborso del costo di
riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e
di visura.
2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta
all'amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente.
3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi e nei limiti
stabiliti dall'articolo 24 e debbono essere motivati.
4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di
diniego dell'accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell'articolo
24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale
ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle
amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al difensore civico competente per
ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la suddetta determinazione. Qualora
tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico
competente per l'ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti
delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la
Commissione per l'accesso di cui all'articolo 27. Il difensore civico o la Commissione per
l'accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza. Scaduto
infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la
Commissione per l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne
informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente. Se questa non emana il
provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito. Qualora
il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di
cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della
sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. Se l'accesso è negato o differito
per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione
provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia
entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si
intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I della
parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157,
158, 159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento
pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l'accesso ai
documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere,
obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del Garante
sino all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso
inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria decisione.
5. Contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso e nei casi
previsti dal comma quarto é dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale
amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla
scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne
abbiano fatto richiesta. In pendenza di un ricorso presentato ai sensi della legge 6
dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, il ricorso può essere proposto con
istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è
assegnato il ricorso, previa notifica all'amministrazione o ai controinteressati, e viene
deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio. La decisione del tribunale
é appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della stessa, al consiglio di stato, il quale
decide con le medesime modalità e negli stessi termini. Le controversie relative
all'accesso ai documenti amministrativi sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
6. bis. Nei giudizi in materia di accesso, le parti possono stare in giudizio personalmente
senza l'assistenza del difensore. L'amministrazione può essere rappresentata e difesa da
un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente, autorizzato dal
rappresentante legale dell'ente.
7. Il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei documenti
richiesti.
Art. 26. (nota)
Obbligo di pubblicazione
1. Fermo restando quanto previsto per le pubblicazioni nella gazzetta ufficiale della
repubblica italiana dalla legge 11 dicembre 1984, n. 839 , e dalle relative norme di
attuazione, sono pubblicati, secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, le
direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla
organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica
amministrazione ovvero nel quale si determina l'interpretazione di norme giuridiche o si
dettano disposizioni per l'applicazione di esse.
2. Sono altresì pubblicate, nelle forme predette, le relazioni annuali della commissione di
cui all'articolo 27 e, in generale, é data la massima pubblicità a tutte le disposizioni
attuative della presente legge e a tutte le iniziative dirette a precisare ed a rendere
effettivo il diritto di accesso.
3. Con la pubblicazione di cui al comma primo, ove essa sia integrale, la libertà di accesso
ai documenti indicati nel predetto comma primo s'intende realizzata.
Art. 27. (nota)
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi.
1. È istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi.
2. La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito
il Consiglio dei ministri. Essa è presieduta dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei ministri ed è composta da dodici membri, dei quali due senatori e due
deputati, designati dai Presidenti delle rispettive Camere, quattro scelti fra il personale di
cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97, su designazione dei rispettivi organi di autogoverno,
due fra i professori di ruolo in materie giuridiche e uno fra i dirigenti dello Stato e degli
altri enti pubblici. È membro di diritto della Commissione il capo della struttura della
Presidenza del Consiglio dei ministri che costituisce il supporto organizzativo per il
funzionamento della Commissione. La Commissione può avvalersi di un numero di
esperti non superiore a cinque unità, nominati ai sensi dell'articolo 29 della legge 23
agosto 1988, n. 400.
3. La Commissione è rinnovata ogni tre anni. Per i membri parlamentari si procede a nuova
nomina in caso di scadenza o scioglimento anticipato delle Camere nel corso del triennio.
4. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, a decorrere dall'anno 2004, sono determinati i compensi
dei componenti e degli esperti di cui al comma 2, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri.
5. La Commissione adotta le determinazioni previste dall'articolo 25, comma 4; vigila
affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell'attività della pubblica
amministrazione con il rispetto dei limiti fissati dalla presente legge; redige una relazione
annuale sulla trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, che comunica alle
Camere e al Presidente del Consiglio dei ministri; propone al Governo modifiche dei testi
legislativi e regolamentari che siano utili a realizzare la più ampia garanzia del diritto di
accesso di cui all'articolo 22.
6. Tutte le amministrazioni sono tenute a comunicare alla Commissione, nel termine
assegnato dalla medesima, le informazioni ed i documenti da essa richiesti, ad eccezione
di quelli coperti da segreto di Stato.
7. In caso di prolungato inadempimento all'obbligo di cui al comma 1 dell'articolo 18, le
misure ivi previste sono adottate dalla Commissione di cui al presente articolo.
Art. 28.
Modifica dell'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10
gennaio 1957, n. 3, in materia di segreto di ufficio
1. L'articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili
dello stato, approvato con decreto del presidente della repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, é
sostituito dal seguente:
"Art. 15. - (segreto d'ufficio).
1. L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne
abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni
amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza
a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle
norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato
preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei
casi non vietati dall'ordinamento".
CAPO VI
Disposizioni finali
Art. 29.
Ambito di applicazione della legge
1. Le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti amministrativi che si
svolgono nell'ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali e, per
quanto stabilito in tema di giustizia amministrativa, a tutte le amministrazioni pubbliche.
2. Le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, regolano le materie
disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie
del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, cosI' come definite dai principi
stabiliti dalla presente legge.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " in assenza di
legislazione regionale, si applicano le disposizioni dell'art. 4 del d.l. 398/1993 convertito con l.
493/1993, ai sensi del presente art. 29").
Art. 30. (nota)
Atti di notorietà
1. In tutti i casi in cui le leggi e i regolamenti prevedono atti di notorietà o attestazioni
asseverate da testimoni altrimenti denominate, il numero dei testimoni é ridotto a due.
2. É fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e alle imprese esercenti servizi di pubblica
necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà prevista dall' articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15 ,
quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza
dell'interessato.
Art. 31.
1. Abrogato
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti
normativi della Repubblica italiana. É fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla
osservare come legge dello Stato.
Rispondi

Da: Cultura18/10/2011 18:41:25
LEGGE 7 agosto 1990 n. 241 (aggiornata con le modifiche introdotte dalla l. 15/2005 e dalla l.
80/2005)
NUOVE NORME IN MATERIA DI PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E DI DIRITTO
DI ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI.
CAPO I
Principi
Art. 1.
Principi generali dell'attività amministrativa
1. L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed é retta da criteri di
economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla
presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai
principi dell'ordinamento comunitario.
2. bis. La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce
secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.
3. ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto
dei principi di cui al comma 1.
4. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie
e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria.
Art. 2.
Conclusione del procedimento
1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere
iniziato d'ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante
l'adozione di un provvedimento espresso.
2. Con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23
agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per
la funzione pubblica, sono stabiliti i termini entro i quali i procedimenti di competenza
delle amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti per
legge. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini
entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. I termini sono
modulati tenendo conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell'organizzazione
amministrativa, e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall'inizio di
ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento é ad
iniziativa di parte.
3. Qualora non si provveda ai sensi del comma 2, il termine é di novanta giorni.
4. Nei casi in cui leggi o regolamenti prevedono per l'adozione di un provvedimento
l'acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, i termini di cui ai commi 2
e 3 sono sospesi fino all'acquisizione delle valutazioni tecniche per un periodo massimo
comunque non superiore a novanta giorni. I termini di cui ai commi 2 e 3 possono essere
altresì sospesi, per una sola volta, per l'acquisizione di informazioni o certificazioni
relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso
dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche
amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2.
5. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso
il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione
inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla
scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice amministrativo può
conoscere della fondatezza dell'istanza. E' fatta salva la riproponibilità dell'istanza di
avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
Art. 3.
Motivazione del provvedimento
1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere
motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma secondo. La motivazione deve
indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
della amministrazione, in relazione alle risultanze della istruttoria.
2. La motivazione non é richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.
3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso
disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama.
4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui é
possibile ricorrere.
Art. 3-bis.
Uso della telematica
1. Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche
incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra
queste e i privati.
CAPO II
Responsabile del procedimento
Art. 4.
Unità organizzativa responsabile del procedimento
1. Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad
atti di loro competenza l'unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro
adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale.
2. Le disposizioni adottate ai sensi del comma primo sono rese pubbliche secondo quanto
previsto dai singoli ordinamenti.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " al momento della
presentazione della domanda di concessione edilizia, l'ufficio abilitato a riceverla comunica al
richiedente il nominativo del responsabile del procedimento di cui al presente art. 4". Il D.P.R.
18 aprile 1994, n. 340 ha disposto che "il Ministro, entro quindici giorni dall'entrata in vigore del
regolamento previsto dallo stesso decreto, provvede ad adeguare il regolamento emanato ai sensi
del presente articolo 2, in conformità alle misure di semplificazione previste dal suindicato
D.P.R. n. 340/94.")
Art. 5.
Responsabile del procedimento
1. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro
dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento
inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione del
provvedimento finale.
2. Fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma primo, é considerato
responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa
determinata a norma del comma primo dell'articolo 4.
3. L'unità organizzativa competente e il nominativo del responsabile del procedimento sono
comunicati ai soggetti di cui all'articolo 7 e, a richiesta, a chiunque vi abbia interesse.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " al momento della
presentazione della domanda di concessione edilizia, l'ufficio abilitato a riceverla comunica al
richiedente il nominativo del responsabile del procedimento di cui al presente art. 5").
Art. 6.
Compiti del responsabile del procedimento
1. Il responsabile del procedimento:
a. valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del provvedimento;
b. accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e
adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. In
particolare, può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o
istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed
ordinare esibizioni documentali;
c. propone l'indizione o, avendone la competenza, indice le conferenze di servizi di
cui all'articolo 14;
d. cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai
regolamenti;
e. adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli
atti all'organo competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del
provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può
discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
CAPO III
Partecipazione al procedimento amministrativo
Art. 7.
Comunicazione di avvio del procedimento
1. Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità
del procedimento, l'avvio del procedimento stesso é comunicato, con le modalità previste
dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale é destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non
sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi
diretti destinatari, l'amministrazione é tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell'inizio del procedimento.
2. Nelle ipotesi di cui al comma primo resta salva la facoltà dell'amministrazione di
adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma
primo, provvedimenti cautelari.
Art. 8.
Modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento
1. L'amministrazione provvede a dare notizia dell'avvio del procedimento mediante
comunicazione personale.
2. Nella comunicazione debbono essere indicati:
a. l'amministrazione competente;
b. l'oggetto del procedimento promosso;
c. l'ufficio e la persona responsabile del procedimento;
d. bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall'articolo 2, commi 2 o 3,
deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia
dell'amministrazione;
e. ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa
istanza;
f. l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti.
3. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o
risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di
cui al comma secondo mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite
dall'amministrazione medesima.
4. L'omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può esser fatta valere solo dal
soggetto nel cui interesse la comunicazione é prevista.
Art. 9.
Intervento nel procedimento
1. Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento.
Art. 10.
Diritti dei partecipanti al procedimento
1. I soggetti di cui all'articolo 7 e quelli intervenuti ai sensi dell'articolo 9 hanno diritto:
a. di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall'articolo
24;
b. di presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di
valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento.
Art. 10-bis.
Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.
1. Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità
competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il
termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di
presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il
procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle
osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo.
Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella
motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si
applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e
assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Art. 11.
Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'articolo 10,
l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in
ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di
questo.
2. bis. Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del
procedimento puo' predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o
contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati .
3. Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto
scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente
previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili.
4. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per
questi ultimi.
5. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente
dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione
agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.
6. bis. A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti
i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al
comma 1, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che
sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.
7. Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi di cui
al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Art. 12.
Provvedimenti attributivi di vantaggi economici
1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere e persone ed enti pubblici e privati sono
subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni
procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui
le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma primo deve risultare dai
singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma primo.
Art. 13.
Ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione
1. Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività
della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione.
2. Dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano
parimenti ferme le particolari norme che li regolano, nonchè ai procedimenti previsti dal
decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni, dalla legge 15 marzo
1991, n. 82, e successive modificazioni, dal decreto legislativo 29 marzo 1991, n. 119, e
successive modificazioni.
CAPO IV
Semplificazione dell'azione amministrativa
Art. 14.
Conferenza di servizi
1. Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti
in un procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente indice di regola una
conferenza di servizi.
2. La conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve
acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre
amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte
dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì
indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni
interpellate.
3. La conferenza di servizi può essere convocata anche per l'esame contestuale di interessi
coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o
risultati. In tal caso, la conferenza è indetta dall'amministrazione o, previa informale
intesa, da una delle amministrazioni che curano l'interesse pubblico prevalente. Per i
lavori pubblici si continua ad applicare l'articolo 7 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e
successive modificazioni.
4. Quando l'attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di
competenza di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche
su richiesta dell'interessato, dall'amministrazione competente per l'adozione del
provvedimento finale.
5. In caso di affidamento di concessione di lavori pubblici la conferenza di servizi è
convocata dal concedente ovvero, con il consenso di quest'ultimo, dal concessionario
entro quindici giorni fatto salvo quanto previsto dalle leggi regionali in materia di
valutazione di impatto ambientale (VIA). Quando la conferenza è convocata ad istanza
del concessionario spetta in ogni caso al concedente il diritto di voto.
6. bis. Previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza di servizi è convocata
e svolta avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità
stabiliti dalle medesime amministrazioni.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per l'attuazione di progetti di protezione dell'ambiente, che "
ai fini dell'acquisizione delle necessarie intese, concerti, nulla osta o assensi comunque
denominati di altre amministrazioni pubbliche, il commissario puo' convocare apposite
conferenze di servizi ai sensi del presente art. 14, che devono pronunciarsi entro trenta giorni
dalla prima convocazione. L'approvazione assunta all'unanimità sostituisce ad ogni effetto gli atti
di competenza delle singole amministrazioni e comporta, altresi', dichiarazione di pubblica
utilità, urgenza e indeffiribilità di lavori". La legge 15 maggio 1997, n. 127 ha disposto che "le
disposizioni di cui ai commi 2-bis, 3-bis e 4 del presente art. 14, si applicano anche alle altre
conferenze di servizi previste dalle vigenti disposizioni di legge)
Art. 14-bis.
Conferenza di servizi preliminare
1. La conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare complessità e di
insediamenti produttivi di beni e servizi, su motivata richiesta dell'interessato,
documentata, in assenza di un progetto preliminare, da uno studio di fattibilità, prima
della presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, al fine di verificare quali
siano le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso. In
tale caso la conferenza si pronuncia entro trenta giorni dalla data della richiesta e i relativi
costi sono a carico del richiedente.
2. Nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico, la conferenza
di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di indicare quali siano le condizioni
per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i pareri, le concessioni, le autorizzazioni, le
licenze, i nullaosta e gli assensi, comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente.
In tale sede, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, si
pronunciano, per quanto riguarda l'interesse da ciascuna tutelato, sulle soluzioni
progettuali prescelte. Qualora non emergano, sulla base della documentazione
disponibile, elementi comunque preclusivi della realizzazione del progetto, le suddette
amministrazioni indicano, entro quarantacinque giorni, le condizioni e gli elementi
necessari per ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, gli atti di
consenso.
3. Nel caso in cui sia richiesta VIA, la conferenza di servizi si esprime entro trenta giorni
dalla conclusione della fase preliminare di definizione dei contenuti dello studio
d'impatto ambientale, secondo quanto previsto in materia di VIA. Ove tale conclusione
non intervenga entro novanta giorni dalla richiesta di cui al comma 1, la conferenza di
servizi si esprime comunque entro i successivi trenta giorni. Nell'ambito di tale
conferenza, l'autorità competente alla VIA si esprime sulle condizioni per la elaborazione
del progetto e dello studio di impatto ambientale. In tale fase, che costituisce parte
integrante della procedura di VIA, la suddetta autorità esamina le principali alternative,
compresa l'alternativa zero, e, sulla base della documentazione disponibile, verifica
l'esistenza di eventuali elementi di incompatibilità, anche con riferimento alla
localizzazione prevista dal progetto e, qualora tali elementi non sussistano, indica
nell'ambito della conferenza di servizi le condizioni per ottenere, in sede di presentazione
del progetto definitivo, i necessari atti di consenso.
4. bis. Il dissenso espresso in sede di conferenza preliminare da una amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico,
della salute o della pubblica incolumità, con riferimento alle opere interregionali, è
sottoposto alla disciplina di cui all'articolo 14-quater, comma 3.
5. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3, la conferenza di servizi si esprime allo stato degli atti a
sua disposizione e le indicazioni fornite in tale sede possono essere motivatamente
modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi
successive del procedimento, anche a seguito delle osservazioni dei privati sul progetto
definitivo.
6. Nel caso di cui al comma 2, il responsabile unico del procedimento trasmette alle
amministrazioni interessate il progetto definitivo, redatto sulla base delle condizioni
indicate dalle stesse amministrazioni in sede di conferenza di servizi sul progetto
preliminare, e convoca la conferenza tra il trentesimo e il sessantesimo giorno successivi
alla trasmissione. In caso di affidamento mediante appalto concorso o concessione di
lavori pubblici, l'amministrazione aggiudicatrice convoca la conferenza di servizi sulla
base del solo progetto preliminare, secondo quanto previsto dalla legge 11 febbraio 1994,
n. 109, e successive modificazioni.
Art. 14-ter.
Lavori della conferenza di servizi
01. La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni ovvero, in
caso di particolare complessità dell'istruttoria, entro trenta giorni dalla data di indizione.
1. La conferenza di servizi assume le determinazioni relative all'organizzazione dei propri
lavori a maggioranza dei presenti.
2. La convocazione della prima riunione della conferenza di servizi deve pervenire alle
amministrazioni interessate, anche per via telematica o informatica, almeno cinque giorni
prima della relativa data. Entro i successivi cinque giorni, le amministrazioni convocate
possono richiedere, qualora impossibilitate a partecipare, l'effettuazione della riunione in
una diversa data; in tale caso, l'amministrazione procedente concorda una nuova data,
comunque entro i dieci giorni successivi alla prima.
3. Nella prima riunione della conferenza di servizi, o comunque in quella immediatamente
successiva alla trasmissione dell'istanza o del progetto definitivo ai sensi dell'articolo 14-
bis, le amministrazioni che vi partecipano determinano il termine per l'adozione della
decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i novanta giorni,
salvo quanto previsto dal comma 4. Decorsi inutilmente tali termini, l'amministrazione
procedente provvede ai sensi dei commi 6-bis e 9 del presente articolo.
4. Nei casi in cui sia richiesta la VIA, la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito
la valutazione medesima ed il termine di cui al comma 3 resta sospeso, per un massimo di
novanta giorni, fino all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale. Se la
VIA non interviene nel termine previsto per l'adozione del relativo provvedimento,
l'amministrazione competente si esprime in sede di conferenza di servizi, la quale si
conclude nei trenta giorni successivi al termine predetto. Tuttavia, a richiesta della
maggioranza dei soggetti partecipanti alla conferenza di servizi, il termine di trenta giorni
di cui al precedente periodo è prorogato di altri trenta giorni nel caso che si appalesi la
necessità di approfondimenti istruttori.
5. Nei procedimenti relativamente ai quali sia già intervenuta la decisione concernente la
VIA le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 14-quater, nonché quelle di cui agli
articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, si applicano alle sole amministrazioni preposte alla
tutela della salute, del patrimonio storico-artistico e della pubblica incolumitàa.
6. Ogni amministrazione convocata partecipa alla conferenza di servizi attraverso un unico
rappresentante legittimato, dall'organo competente, ad esprimere in modo vincolante la
volontà dell'amministrazione su tutte le decisioni di competenza della stessa.
7. bis. All'esito dei lavori della conferenza, e in ogni caso scaduto il termine di cui al comma
3, l'amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle
posizioni prevalenti espresse in quella sede;
8. Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione il cui rappresentante non abbia
espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata.
9. In sede di conferenza di servizi possono essere richiesti, per una sola volta, ai proponenti
dell'istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione. Se questi ultimi non
sono forniti in detta sede, entro i successivi trenta giorni, si procede all'esame del
provvedimento.
10. Il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis
sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso
comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque
invitate a partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza.
11. Il provvedimento finale concernente opere sottoposte a VIA è pubblicato, a cura del
proponente, unitamente all'estratto della predetta VIA, nella Gazzetta Ufficiale o nel
Bollettino regionale in caso di VIA regionale e in un quotidiano a diffusione nazionale.
Dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale decorrono i termini per eventuali
impugnazioni in sede giurisdizionale da parte dei soggetti interessati.
Art. 14-quater.
Effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi
1. Il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni, regolarmente convocate alla
conferenza di servizi, a pena di inammissibilità, deve essere manifestato nella conferenza
di servizi, deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che
non costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare le specifiche
indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso.
2. Abrogato.
3. Se il motivato dissenso è espresso da un'amministrazione preposta alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della
pubblica incolumità, la decisione è rimessa dall'amministrazione procedente, entro dieci
giorni: a) al Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano, di seguito denominata "Conferenza Stato-regioni", in caso di
dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni
regionali; c) alla Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un
ente locale o tra più enti locali. Verificata la completezza della documentazione inviata ai
fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente del
Consiglio dei ministri, della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata,
valutata la complessità dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore
periodo non superiore a sessanta giorni.
4. bis. Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una
delle materie di propria competenza, la determinazione sostitutiva è rimessa
dall'amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) alla Conferenza Stato-regioni, se il
dissenso verte tra un'amministrazione statale e una regionale o tra amministrazioni
regionali; b) alla Conferenza unificata, in caso di dissenso tra una regione o provincia
autonoma e un ente locale. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini
istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente della
Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità
dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a
sessanta giorni.
5. ter. Se entro i termini di cui ai commi 3 e 3-bis la Conferenza Stato-regioni o la
Conferenza unificata non provvede, la decisione, su iniziativa del Ministro per gli affari
regionali, è rimessa al Consiglio dei ministri, che assume la determinazione sostitutiva
nei successivi trenta giorni, ovvero, quando verta in materia non attribuita alla
competenza statale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, e dell'articolo 118 della
Costituzione, alla competente Giunta regionale ovvero alle competenti Giunte delle
province autonome di Trento e di Bolzano, che assumono la determinazione sostitutiva
nei successivi trenta giorni; qualora la Giunta regionale non provveda entro il termine
predetto, la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri, che delibera con la
partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate.
6. quater. In caso di dissenso tra amministrazioni regionali, i commi 3 e 3-bis non si
applicano nelle ipotesi in cui le regioni interessate abbiano ratificato, con propria legge,
intese per la composizione del dissenso ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della
Costituzione, anche attraverso l'individuazione di organi comuni competenti in via
generale ad assumere la determinazione sostitutiva in caso di dissenso.
7. quinquies. Restano ferme le attribuzioni e le prerogative riconosciute alle regioni a statuto
speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano dagli statuti speciali di
autonomia e dalle relative norme di attuazione
8. Abrogato
9. Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova
applicazione l'articolo 5, comma 2, lettera c-bis), della legge 23 agosto 1988, n. 400,
introdotta dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303.
Art. 14-quinquies.
Conferenza di servizi in materia di finanza di progetto
1. Nelle ipotesi di conferenza di servizi finalizzata all'approvazione del progetto definitivo
in relazione alla quale trovino applicazione le procedure di cui agli articoli 37-bis e
seguenti della legge 11 febbraio 1994, n. 109, sono convocati alla conferenza, senza
diritto di voto, anche i soggetti aggiudicatari di concessione individuati all'esito della
procedura di cui all'articolo 37-quater della legge n. 109 del 1994, ovvero le società di
progetto di cui all'articolo 37-quinquies della medesima legge.
Art. 15.
Accordi fra pubbliche amministrazioni
1. Anche al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo 14, le amministrazioni pubbliche
possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune.
2. Per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall'articolo
11, commi secondo, terzo e quinto.
Art. 16.
Attività consultiva
1. Gli organi consultivi delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sono tenuti a rendere i pareri ad essi
obbligatoriamente richiesti entro quarantacinque giorni dal ricevimento della richiesta.
Qualora siano richiesti di pareri facoltativi, sono tenuti a dare immediata comunicazione
alle amministrazioni richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso.
2. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere o senza che
l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, e' in facoltà dell'amministrazione
richiedente di procedere indipendentemente dall'acquisizione del parere.
3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano in caso di pareri che debbano
essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica,
territoriale e della salute dei cittadini.
4. Nel caso in cui l'organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie il termine di cui al
comma 1 puo' essere interrotto per una sola volta e il parere deve essere reso
definitivamente entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte
delle amministrazioni interessate".
5. Qualora il parere sia favorevole, senza osservazioni, il dispositivo é comunicato
telegraficamente o con mezzi telematici.
6. Gli organi consultivi dello stato predispongono procedure di particolare urgenza per
l'adozione dei pareri loro richiesti.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " la commissione
edilizia comunale, tenuto conto dell'ordine cronologico di presentazione della domanda, deve
esprimersi nei termini previsti dai regolamenti comunali o, in mancanza, entro trenta giorni dalla
scadenza del termine di cui al comma 3, in ordine agli aspetti di propria competenza. Decorso il
termine di cui al comma 4 dell'art. 4 del d.l. 398/1993 convertito con l. 493/1993, si applicano le
disposizioni di cui al presente articolo 16.")
Art. 17.
Valutazioni tecniche
1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di
un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di
organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze
istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei termini prefissati dalla
disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il
responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri
organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione
e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari.
2. La disposizione di cui al comma primo non si applica in caso di valutazioni che debbano
essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggisticoterritoriale
e della salute dei cittadini.
3. Nel caso in cui l'ente od organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie
all'amministrazione procedente, si applica quanto previsto dal comma quarto dell'articolo
16.
Art. 18. (nota)
Autocertificazione
1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni
interessate adottano le misure organizzative idonee a garantire l'applicazione delle
disposizioni in materia di autocertificazione e di presentazione di atti e documenti da
parte di cittadini a pubbliche amministrazioni di cui alla legge 4 gennaio 1968, n. 15 , e
successive modificazioni e integrazioni. Delle misure adottate le amministrazioni danno
comunicazione alla commissione di cui all'articolo 27.
2. I documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l'istruttoria del
procedimento, sono acquisiti d'ufficio quando sono in possesso dell'amministrazione
procedente, ovvero sono detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni.
L'amministrazione procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per
la ricerca dei documenti
3. Parimenti sono accertati d'ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le
qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione é
tenuta a certificare.
Art. 19.
Dichiarazione di inizio attività
1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per
l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti
amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente
complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti
stessi, con la sola esclusione degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'amministrazione della giustizia,
alla amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione
del gettito, anche derivante dal gioco, alla tutela della salute e della pubblica incolumità,
del patrimonio culturale e paesaggistico e dell'ambiente, nonché degli atti imposti dalla
normativa comunitaria, é sostituito da una dichiarazione dell'interessato corredata, anche
per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente
richieste. L'amministrazione competente può richiedere informazioni o certificazioni
relative a fatti, stati o qualità soltanto qualora non siano attestati in documenti già in
possesso dell'amministrazione stessa o non siano direttamente acquisibili presso altre
pubbliche amministrazioni.
2. L'attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di
presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente. Contestualmente
all'inizio dell'attività, l'interessato ne dà comunicazione all'amministrazione competente.
3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e
fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui
al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a
conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. E' fatto comunque salvo il
potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela,
ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. Nei casi in cui la legge prevede
l'acquisizione di pareri di organi o enti appositi, il termine per l'adozione dei
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti sono
sospesi, fino all'acquisizione dei pareri, fino a un massimo di trenta giorni, scaduti i quali
l'amministrazione può adottare i propri provvedimenti indipendentemente
dall'acquisizione del parere. Della sospensione é data comunicazione all'interessato.
4. Restano ferme le disposizioni di legge vigenti che prevedono termini diversi da quelli di
cui ai commi 2 e 3 per l'inizio dell'attività e per l'adozione da parte dell'amministrazione
competente di provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei
suoi effetti.
5. Ogni controversia relativa all'applicazione dei commi 1, 2 e 3 é devoluta alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
Art. 20. (nota)
Silenzio assenso
1. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il
rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel
termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non
procede ai sensi del comma 2.
2. L'amministrazione competente può indire, entro trenta giorni dalla presentazione
dell'istanza di cui al comma 1, una conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche
tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati.
3. Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda,
l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi
degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.
4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti
il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica
sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa
comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la
legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti
e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri,
su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti.
5. Si applicano gli articoli 2, comma 4, e 10-bis.
Art. 21.
Disposizioni sanzionatorie
1. Con la denuncia o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l'interessato deve dichiarare
la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni
mendaci o di false attestazioni non é ammessa la conformazione dell'attività e dei suoi
effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante é punito con
la sanzione prevista dall'articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più
grave reato.
2. Le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza dell'atto di
assenso dell'amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di
coloro i quali diano inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei
requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.
3. bis. Restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette
ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche
se é stato dato inizio all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20.
CAPO IV-BIS
Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso
Art. 21-bis.
Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati.
1. Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei
confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle
forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura
civile. Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile
o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione provvede mediante forme di
pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima. Il
provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere
sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia. I
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare ed
urgente sono immediatamente efficaci.
Art. 21-ter.
Esecutorietà
1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono
imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento
costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto
obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa
diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità
previste dalla legge.
2. Ai fini dell'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano
le disposizioni per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
Art. 21-quater.
Efficacia ed esecutività del provvedimento
1. I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.
2. L'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per
gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha
emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è
esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una
sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze.
Art. 21-quinquies.
Revoca del provvedimento
1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della
situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il
provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte
dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca
determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la
revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati,
l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in
materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo sono attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Art. 21-sexies.
Recesso dai contratti
1. Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi
previsti dalla legge o dal contratto.
Art. 21-septies.
Nullità del provvedimento
1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del
giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
2. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o
elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
Art. 21-octies.
Annullabilità del provvedimento
1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da
eccesso di potere o da incompetenza.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
Art. 21-nonies.
Annullamento d'ufficio
1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
CAPO V
Accesso ai documenti amministrativi
Art. 22.
Definizioni e principi in materia di accesso.
1. Ai fini del presente capo si intende:
a. per "diritto di accesso", il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre
copia di documenti amministrativi;
b. per "interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso;
c. per "controinteressati", tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso
vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;
d. per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di
atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale;
e. per "pubblica amministrazione", tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal
diritto nazionale o comunitario.
2. L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione. Resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle
rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela.
3. Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati
all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6.
4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che
non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della
persona cui i dati si riferiscono.
5. L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici, ove non
rientrante nella previsione dell'articolo 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, si informa al principio di leale
cooperazione istituzionale.
6. Il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l'obbligo
di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere.
Art. 23.
Ambito di applicazione del diritto di accesso
1. Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di
pubblici servizi. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza
si esercita nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, secondo quanto previsto dall'articolo 24.
Art. 24. (note)
Esclusione dal diritto di accesso.
1. Il diritto di accesso è escluso:
a. per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n.
801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione
espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma
6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo;
b. nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano;
c. nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per
i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;
d. nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti
informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi.
2. Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse
formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso ai sensi del
comma 1.
3. Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni.
4. L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare
ricorso al potere di differimento.
5. I documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono
considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le
pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l'eventuale
periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all'accesso.
6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988,
n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti
amministrativi:
a. quando, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall'articolo 12 della legge 24 ottobre
1977, n. 801, dalla loro divulgazione possa derivare una lesione, specifica e
individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all'esercizio della sovranità
nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali, con
particolare riferimento alle ipotesi previste dai trattati e dalle relative leggi di
attuazione;
b. quando l'accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di
determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria;
c. quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le
azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e
alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche
investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e
delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle
indagini;
d. quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche,
persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli
interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale
di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti
all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono;
e. quando i documenti riguardino l'attività in corso di contrattazione collettiva
nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all'espletamento del relativo
mandato.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel
caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la
vita sessuale.
Art. 25.
Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi
1. Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti
amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei
documenti é gratuito. Il rilascio di copia é subordinato soltanto al rimborso del costo di
riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e
di visura.
2. La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta
all'amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente.
3. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi e nei limiti
stabiliti dall'articolo 24 e debbono essere motivati.
4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di
diniego dell'accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell'articolo
24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale
ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle
amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al difensore civico competente per
ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la suddetta determinazione. Qualora
tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico
competente per l'ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti
delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la
Commissione per l'accesso di cui all'articolo 27. Il difensore civico o la Commissione per
l'accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell'istanza. Scaduto
infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la
Commissione per l'accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne
informano il richiedente e lo comunicano all'autorità disponente. Se questa non emana il
provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione del difensore civico o della Commissione, l'accesso è consentito. Qualora
il richiedente l'accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di
cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della
sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. Se l'accesso è negato o differito
per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione
provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia
entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si
intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I della
parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157,
158, 159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento
pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l'accesso ai
documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere,
obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del Garante
sino all'acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso
inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria decisione.
5. Contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso e nei casi
previsti dal comma quarto é dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale
amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla
scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne
abbiano fatto richiesta. In pendenza di un ricorso presentato ai sensi della legge 6
dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, il ricorso può essere proposto con
istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è
assegnato il ricorso, previa notifica all'amministrazione o ai controinteressati, e viene
deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio. La decisione del tribunale
é appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della stessa, al consiglio di stato, il quale
decide con le medesime modalità e negli stessi termini. Le controversie relative
all'accesso ai documenti amministrativi sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
6. bis. Nei giudizi in materia di accesso, le parti possono stare in giudizio personalmente
senza l'assistenza del difensore. L'amministrazione può essere rappresentata e difesa da
un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente, autorizzato dal
rappresentante legale dell'ente.
7. Il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei documenti
richiesti.
Art. 26. (nota)
Obbligo di pubblicazione
1. Fermo restando quanto previsto per le pubblicazioni nella gazzetta ufficiale della
repubblica italiana dalla legge 11 dicembre 1984, n. 839 , e dalle relative norme di
attuazione, sono pubblicati, secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, le
direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla
organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica
amministrazione ovvero nel quale si determina l'interpretazione di norme giuridiche o si
dettano disposizioni per l'applicazione di esse.
2. Sono altresì pubblicate, nelle forme predette, le relazioni annuali della commissione di
cui all'articolo 27 e, in generale, é data la massima pubblicità a tutte le disposizioni
attuative della presente legge e a tutte le iniziative dirette a precisare ed a rendere
effettivo il diritto di accesso.
3. Con la pubblicazione di cui al comma primo, ove essa sia integrale, la libertà di accesso
ai documenti indicati nel predetto comma primo s'intende realizzata.
Art. 27. (nota)
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi.
1. È istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi.
2. La Commissione è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito
il Consiglio dei ministri. Essa è presieduta dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei ministri ed è composta da dodici membri, dei quali due senatori e due
deputati, designati dai Presidenti delle rispettive Camere, quattro scelti fra il personale di
cui alla legge 2 aprile 1979, n. 97, su designazione dei rispettivi organi di autogoverno,
due fra i professori di ruolo in materie giuridiche e uno fra i dirigenti dello Stato e degli
altri enti pubblici. È membro di diritto della Commissione il capo della struttura della
Presidenza del Consiglio dei ministri che costituisce il supporto organizzativo per il
funzionamento della Commissione. La Commissione può avvalersi di un numero di
esperti non superiore a cinque unità, nominati ai sensi dell'articolo 29 della legge 23
agosto 1988, n. 400.
3. La Commissione è rinnovata ogni tre anni. Per i membri parlamentari si procede a nuova
nomina in caso di scadenza o scioglimento anticipato delle Camere nel corso del triennio.
4. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, a decorrere dall'anno 2004, sono determinati i compensi
dei componenti e degli esperti di cui al comma 2, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri.
5. La Commissione adotta le determinazioni previste dall'articolo 25, comma 4; vigila
affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell'attività della pubblica
amministrazione con il rispetto dei limiti fissati dalla presente legge; redige una relazione
annuale sulla trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, che comunica alle
Camere e al Presidente del Consiglio dei ministri; propone al Governo modifiche dei testi
legislativi e regolamentari che siano utili a realizzare la più ampia garanzia del diritto di
accesso di cui all'articolo 22.
6. Tutte le amministrazioni sono tenute a comunicare alla Commissione, nel termine
assegnato dalla medesima, le informazioni ed i documenti da essa richiesti, ad eccezione
di quelli coperti da segreto di Stato.
7. In caso di prolungato inadempimento all'obbligo di cui al comma 1 dell'articolo 18, le
misure ivi previste sono adottate dalla Commissione di cui al presente articolo.
Art. 28.
Modifica dell'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10
gennaio 1957, n. 3, in materia di segreto di ufficio
1. L'articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili
dello stato, approvato con decreto del presidente della repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, é
sostituito dal seguente:
"Art. 15. - (segreto d'ufficio).
1. L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne
abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni
amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza
a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle
norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato
preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei
casi non vietati dall'ordinamento".
CAPO VI
Disposizioni finali
Art. 29.
Ambito di applicazione della legge
1. Le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti amministrativi che si
svolgono nell'ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali e, per
quanto stabilito in tema di giustizia amministrativa, a tutte le amministrazioni pubbliche.
2. Le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, regolano le materie
disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie
del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, cosI' come definite dai principi
stabiliti dalla presente legge.
(Il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398 nel testo introdotto dalla legge di conversione 4 dicembre 1993, n.
493 ha disposto, circa le procedure per il rilascio di concessioni edilizie, che " in assenza di
legislazione regionale, si applicano le disposizioni dell'art. 4 del d.l. 398/1993 convertito con l.
493/1993, ai sensi del presente art. 29").
Art. 30. (nota)
Atti di notorietà
1. In tutti i casi in cui le leggi e i regolamenti prevedono atti di notorietà o attestazioni
asseverate da testimoni altrimenti denominate, il numero dei testimoni é ridotto a due.
2. É fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e alle imprese esercenti servizi di pubblica
necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà prevista dall' articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15 ,
quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza
dell'interessato.
Art. 31.
1. Abrogato
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti
normativi della Repubblica italiana. É fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla
osservare come legge dello Stato.
Rispondi

Da: X qualche corsista serio18/10/2011 22:46:30
Dato che il mio compagno non e' tornato a casa in questo week, mi potete dire x favore da quando vi hanno lasciato liberi e quando siete rientrati
Grazie qui la cosa non mi convince tanto per la quale...
Rispondi

Da: un pò di storia: il rinascimento18/10/2011 22:49:26
Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d'Europa, che si sviluppò a partire da Firenze tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, in un arco di tempo che va all'incirca dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVI secolo, con ampie differenze tra disciplina e disciplina e da zona a zona.
Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un'età di cambiamento, maturò un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell'umanesimo nato in ambito letterario nel XIV secolo (da Petrarca) e portandolo a influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità corrente.
Indice  [nascondi]
1 Contesto storico
2 Interpretazioni
3 Periodizzazione
4 Origine del termine
5 Rinascimento, Medioevo e antichità
6 Il ruolo dell'Uomo
7 Il ruolo della società
8 Sviluppo territoriale
8.1 Rinascimento a Firenze
8.2 Rinascimento italiano
8.3 Rinascimento europeo
8.4 Il tramonto del Rinascimento
8.5 Rinascimento americano
9 Discipline
9.1 Storiografia e letteratura
9.2 Arti figurative
9.3 Scienze e tecnologia
9.3.1 Medicina
9.4 Filosofia
9.5 Diritto
9.6 Politica
9.7 Religione
9.8 Musica
10 Protagonisti del Rinascimento
10.1 Artisti figurativi
10.2 Scrittori
10.3 Danzatori
10.4 Filosofi
10.5 Politici
10.6 Religiosi
10.7 Matematici
10.8 Scienziati
10.9 Esploratori e navigatori
11 Note
12 Bibliografia
13 Voci correlate
14 Altri progetti
15 Collegamenti esterni
Contesto storico [modifica]



Cartina dell'Europa di epoca rinascimentale
Il XV secolo fu un'epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici, religiosi e sociali, infatti viene assunto come epoca di confine tra basso medioevo e evo moderno dalla maggior parte degli storiografi, sebbene con alcune differenze di datazione e di prospettiva.
Tra gli eventi di maggior rottura in ambito politico ci furono la questione orientale, segnata dall'espansione dell'Impero -Ottomano (il quale, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 giunge a minacciare l'Ungheria e il territorio austriaco) e un'altra occidentale, caratterizzata dalla nascita degli Stati moderni, tra cui le monarchie nazionali di Francia, Inghilterra e Spagna, così come l'impero di Carlo V, che a differenza degli imperi medievali presenta un progetto di accentramento del potere, tipico delle istituzioni politiche moderne, per quanto la rinascita dell'impero di Carlo V può essere vista anche come un ritorno alla dimensione sovranazionale che caratterizzava il Medioevo.
In ambito economico e sociale, con la scoperta del Nuovo Mondo, avvengono espansioni coloniali che allargano a dismisura l'orizzonte del mondo europeo. Iniziano enormi trasformazioni in Europa, accompagnate da squilibri e contraddizioni: se da una parte si fa spazio l'economia mercantile su scala mondiale, dall'altra le campagne restano legate a realtà tipiche dell'economia feudale. Il fulcro del commercio si sposta inoltre dal Mar Mediterraneo verso il Nord Europa e l'Oceano Atlantico.
In ambito religioso avvenne la Riforma protestante, ovvero lo scisma fra Chiesa cattolica e protestante. La Riforma intendeva rinnovare la Chiesa romana, stigmatizzandone le rilassatezze e le corruzioni come già in precedenza era accaduto in occasioni di vari tentativi di rinnovamento sia all'interno che all'esterno della Chiesa stessa, ma finì per costituire una realtà indipendente non solo per l'intransigenza delle rispettive posizioni ideologiche, ma anche a causa dei risvolti politici con cui essa si intrecciò.
Interpretazioni [modifica]



Jacob Burckhardt
Esistono diverse interpretazioni del Rinascimento. Particolarmente dibattuta è la questione se esso sia da considerare come un momento di rottura, o viceversa come una fase di proseguimento rispetto al Medioevo. Naturalmente i cambiamenti non avvennero di punto in bianco e il retaggio medievale in generale non venne abbandonato. A ogni modo, il primo grande interprete del Rinascimento si è avuto nell'Ottocento con Jacob Burckhardt, il quale sosteneva la tesi della discontinuità rispetto al Medioevo, sottolineando come l'uomo medievale non avesse secondo lui nessun valore se non come membro di una collettività o di un ordine, mentre solo nel Rinascimento avrebbe preso avvio in Italia un atteggiamento, segnato dalla nascita delle signorie e dei principati, più libero e individualistico da parte dell'uomo nei confronti della politica e della vita in generale. Burckhardt definisce i due periodi rispettivamente con tre aggettivi, per cui il Medioevo sarebbe stato Trascendentista, Teocentrico, Universalista, e il Rinascimento invece Umanentista, Antropocentrico, Particolarista.


Konrad Burdach
Agli inizi del Novecento si è avuta tuttavia una forte reazione alle idee di Burckhardt, impersonata soprattutto da Konrad Burdach, che è il massimo sostenitore della continuità tra Medioevo e Rinascimento. Secondo Burdach non vi è nessuna rottura fra i due periodi, i quali costituiscono dunque un'unica grande epoca. Burdach afferma che non vi fu nessuna svolta, e se proprio si vuole parlare di rinascita bisogna addirittura risalire all'anno Mille; egli si accorge infatti che i temi della Riforma luterana erano già contenuti nelle eresie medioevali, e che Medioevo e Rinascimento hanno una stessa fonte in comune: il mondo classico. Burdach dice persino che il Rinascimento è un'invenzione religiosa italiana che dovrebbe essere ampiamente rivalutata; non esiste alcun Medioevo oscurantista e l'idea di Rinascimento è da retrodatare. Questa tesi venne continuata da alcuni studiosi francesi della scuola degli Annales, mentre in Italia fu divulgata dalle opere di Étienne Gilson.[1]
Più recente è l'interpretazione di Eugenio Garin, il quale, dopo essere stato sostenitore della tesi della discontinuità, ha rivisto il suo giudizio andando ad evidenziare anche gli aspetti di continuità rispetto al Medioevo, attestandosi su posizioni che smorzano decisamente il carattere di contrapposizione tra le due epoche.
Periodizzazione [modifica]



Lo sbarco di Colombo nelle Americhe, 1492
Quando si parla di Rinascimento risulta piuttosto difficile stabilirne una data di inizio, che varia a seconda delle discipline. La data convenzionale è il 1492 con la scoperta del Nuovo Mondo che segna l'avvio di una nuova epoca; nei manuali di storia dell'arte, tuttavia, è più facile trovare il 1302 come l'anno in cui Giotto dà inizio al Rinascimento grazie alla sua tecnica artistica innovativa, ripresa e valorizzata poi da Masaccio.
È accertato comunque che un notevole rinnovamento culturale e scientifico si sviluppò negli ultimi decenni del XIV secolo e nei primi del XV secolo principalmente a Firenze. Da qui, tramite gli spostamenti degli artisti, il linguaggio fu esportato nel resto d'Italia (soprattutto a Venezia e Roma), poi, nel corso del XVI secolo, in tutta Europa. Altri importanti centri rinascimentali in Italia, oltre alle già citate Venezia e Roma, furono Ferrara, Urbino, Siena, Padova, Perugia, Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Napoli. Da quest'ultima città, attorno alla metà del Quattrocento, le forme rinascimentali peculiari, vennero successivamente esportate nella penisola iberica.


Incisione sul Sacco di Roma, Van Heemskerck, 1527
Una prima crisi del Rinascimento fiorentino si sarebbe avuta dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la presa di potere da parte di Girolamo Savonarola, il quale tuttavia, se da un lato istituì una repubblica teocratica mirante a colpire gli aspetti più paganeggianti e lussuriosi del Rinascimento, dall'altra innescò un processo di ripensamento e rinnovamento della tradizione religiosa, destinata a durare ben oltre la sua esecuzione al rogo nel 1498.
Bertrand Russel e alcuni studiosi pongono la data della fine del Rinascimento al 6 maggio 1527, quando le truppe spagnole e tedesche saccheggiarono Roma. Per la maggior parte degli storici dell'arte e della letteratura il passaggio dal Rinascimento al manierismo avviene in Italia negli anni venti del Cinquecento e non oltre la metà del XVI secolo, mentre nella storia della musica la conclusione si situerebbe più avanti, attorno al 1600.
Origine del termine [modifica]

Il termine generico "rinascita" venne usato da Giorgio Vasari nel suo trattato Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino à tempi nostri per indicare un ciclo, da lui individuato, che partendo da Giotto e affermandosi con Masaccio, Donatello e Brunelleschi si liberava dalle forme greco-bizantine per tornare a quelle romano-latine, culminando nella figura di Michelangelo, capace di superare gli antichi stessi. Si tratterebbe quindi di una delle poche etichette storiografiche nate in concomitanza con l'epoca che le ha prodotte, sebbene mirasse a enfatizzare piuttosto forzatamente la "novità" del proprio modo di essere rispetto al passato.
Il termine "Rinascimento" e l'immagine ideale del periodo che esso definisce è invece frutto della storiografia ottocentesca, in particolare la paternità della definizione può essere attribuita allo storico francese Jules Michelet che ne fece uso nel 1855 per definire la "scoperta del mondo e dell'uomo" che ebbe luogo nel XV secolo. Nel 1860 lo storico svizzero Jacob Burckhardt, già ricordato, ampliò il concetto espresso da Michelet, descrivendo l'epoca come quella in cui sarebbero venute alla luce l'umanità e la coscienza moderne dopo un lungo periodo di decadimento. Si può notare nel suo atteggiamento l'eco dei giudizi dispregiativi espressi dai rinascimentali nei confronti del Medioevo, termine che viene coniato proprio in età umanistica da Flavio Biondo per indicare un periodo "buio" che egli contrapponeva enfaticamente al suo presente, che sarebbe stato caratterizzato invece dalla ripresa degli studi sulla letteratura e la cultura della Grecia e di Roma antica.
Rinascimento, Medioevo e antichità [modifica]



Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone (1464), Wallace Collection, Londra
A dire il vero, la ripresa dei modi dell'età classica greca e romana e la rinnovata consapevolezza di discendenza e legame col mondo antico non fu una novità del XIV secolo, anzi nel corso del Medioevo si erano avute varie rinascite e rinascenze: la rinascenza longobarda, carolingia, ottoniana, rinascita dell'anno Mille, rinascimento del XII secolo[2].
Ma ci sono almeno due aspetti che caratterizzano inequivocabilmente il Rinascimento rispetto a queste esperienze precedenti[2]:
la grande diffusione e la continuità spontanea del movimento, contro il carattere passeggero delle "rinascite" precedenti legate prevalentemente ad ambienti di corte, sebbene studiosi come Burdach individuino in esse proprio la genesi del Rinascimento;
la consapevolezza di una frattura tra mondo moderno e antichità, con un'interruzione rappresentata dai "secoli bui", chiamati poi età di mezzo o Medioevo, la cui presunta oscurità fu tuttavia strumentalizzata proprio per accentuare la portata rinnovatrice della nuova epoca.
Inoltre il passato che le personalità del Rinascimento aspiravano a rievocare non era qualcosa di aulico e mitologico, ma anzi, tramite gli strumenti moderni della filologia e della storia, essi cercavano una fisionomia dell'antico più vera e autentica possibile[2].
Infine il passato classico non veniva imitato servilmente, ma rielaborato come esempio e fonte di ispirazione per nuove creazioni originali[2].
Il ruolo dell'Uomo [modifica]



Pico della Mirandola
Secondo Burckhardt, la nuova percezione dell'uomo e del mondo che gli stava intorno sarebbe stata molto diversa da quella dei secoli precedenti. Il singolo individuo sarebbe stato ormai visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Celebre è l'affermazione attinta dal mondo classico homo faber ipsius fortunae («l'uomo è artefice della propria sorte»), che venne ripresa anche nell'orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola, una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca, dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo[3].
La valorizzazione di tutte le potenzialità umane è alla base della dignità dell'individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo: la ricerca del piacere e della felicità mondana non sarebbe più rivestita di colpevolezza e disonestà, ma anzi elogiata in tutte le sue forme (De voluptate, Lorenzo Valla)[3]. Nuovo valore verrebbe dato ora alla dialettica, allo scambio di opinioni e informazioni, al confronto. Non a caso la maggior parte della letteratura umanistica ha la forma di un dialogo, esplicito (come nel Secretum di Petrarca) o implicito (come le epistole), dove è al centro la fiducia nella parola e nella collaborazione civile[3], sebbene la vita associata fosse una caratteristica già dell'epoca comunale.
Questa nuova concezione si sarebbe diffusa con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze dei singoli individui, non sarebbe stata priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo tolemaico, si sostituirono le incertezze dell'ignoto, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la responsabilità dell'autodeterminazione comportava l'angoscia del dubbio, dell'errore, del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibro economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali[3].
Burdach tuttavia mette in rilievo come i concetti di rinascita e rinnovamento di sé fossero una prerogativa già del Medioevo, ad esempio del ravvivamento religioso che si era avuto con Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi, mirante a riscoprire la dimensione interiore dell'individuo. Con Petrarca e Ficino rifiorisce anche quello spirito neoplatonico che era emerso già nel Duecento con Bonaventura. Non ci sarebbe quindi nessun respingimento di Dio, ma anzi dei fermenti di forte rinnovamento religioso, contrariamente all'immagine paganeggiante che ne viene data da Burckhardt. La fede cristiana nel Dio che si fa uomo non aveva mai portato, peraltro, ad uno svilimento delle prerogative umane neppure nel Medioevo. Nel Rinascimento vero e proprio si avrebbe soltanto un desiderio di riscoperta rivolto maggiormente verso se stessi. L'ascetismo medievale, che pure aveva conosciuto numerose forme di vita collettiva, fu una prerogativa anche del Rinascimento, ad esempio dello spirito rinnovatore di Savonarola e di Lutero.
« La mistica immagine della Rinascita e della Riforma aveva vissuto, sotto entrambi i suoi aspetti, attraverso tutto il Medioevo [...] ora, dopo lo slancio religioso del XII secolo [...] dopo Gioacchino, Francesco, Domenico, dopo l'illimitato flusso di entusiasmo religioso, quell'immagine si muta nell'espressione di un sentimento e di un bisogno di tipo puramente umano, che dapprima empie di sé solo singoli individui, poi anche ampi circoli, ed al quale si mischiano la esigenza e l'immaginazione della fantasia, dell'anima sensibile. »
(K. Burdach, Dal Medioevo alla Riforma)
Il ruolo della società [modifica]

La consapevolezza di questi temi era comunque patrimonio di una élite ristretta, che godeva di un'educazione pensata per un futuro nelle cariche pubbliche. Gli ideali degli umanisti però erano condivisi dalla maggiore fetta della società borghese, soprattutto perché si riflettevano nella prassi che si andava definendo. Gli stessi intellettuali provenivano spesso dalla società artigiana e mercantile, già impregnati degli ideali di etica civile, pragmatismo, individualismo, competitività, legittimazione della ricchezza ed esaltazione della vita attiva[3].
Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un'istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché più facilmente fruibili rispetto alla letteratura, rigorosamente ancora redatta in latino[3].
Sviluppo territoriale [modifica]



La Città ideale del Rinascimento, che esprime l'idea di perfezione della classicità "moderna"
Rinascimento a Firenze [modifica]
    Per approfondire, vedi la voce Rinascimento a Firenze.


Filippo Brunelleschi, Spedale degli Innocenti, Firenze
Il rinnovamento culturale e scientifico iniziò negli ultimi decenni del XIV secolo e nei primi del XV secolo a Firenze e affondava le radici nella riscoperta dei classici, iniziata già nel Trecento da Francesco Petrarca e altri eruditi. Nelle loro opere l'uomo iniziò ad essere l'argomento centrale accanto a Dio (il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio ne sono un chiaro esempio).
In città, in concomitanza con una fioritura economica, per quanto effimera, e con alcuni successi militari e politici, si aprì una stagione in cui i legami con le origini romane, per altro mai venute meno, vennero rinsaldati e produssero un linguaggio figurativo radicalmente diverso da quello allora preponderante del gotico internazionale. Nel campo delle arti visive vissero contemporaneamente in città tre grandissimi maestri che rinnovarono in maniera irreversibile i linguaggi dell'architettura, della pittura e della scultura, rispettivamente Filippo Brunelleschi, Masaccio e Donatello[2]. Il cambiamento artistico non fu altro che un indicatore del cambiamento dei tempi e della mentalità[2].
È sbagliato però immaginare un'avanzata trionfante del linguaggio rinascimentale che procede contro una cultura sclerotica e morente, come impostato da una storiografia ormai sorpassata: il tardo gotico fu un linguaggio vivo come non mai, che in alcuni paesi venne apprezzato ben oltre il XV secolo, e la nuova proposta fiorentina fu all'inizio solo un'alternativa di netta minoranza, inascoltata e incompresa nella stessa Firenze per almeno un ventennio, come dimostra ad esempio il successo in quegli anni di artisti come Gentile da Fabriano o Lorenzo Ghiberti[2].
Rinascimento italiano [modifica]
    Per approfondire, vedi la voce Rinascimento italiano.
La diaspora degli intellettuali provenienti da Costantinopoli, dopo la conquista degli Ottomani, portò in Italia grandi personalità del mondo greco-bizantino, che insegnarono a Firenze, Ferrara, Napoli e Milano. Si diffuse la conoscenza del greco e degli studi umanistici, grazie anche alle famiglie potenti dei Medici a Firenze, degli Este a Ferrara, degli Sforza a Milano, dei Gonzaga a Mantova, dei duchi di Montefeltro a Urbino, dei nobili veneziani, della corte papale a Roma e dei d'Aragona a Napoli.
Rinascimento europeo [modifica]


Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) un'opera chiave del Rinascimento fiammingo


Erasmo da Rotterdam, fra i più illustri letterati dell'epoca
Il Rinascimento in Europa si affermò gradualmente con l'influenza dei modi italiani, nel corso dei secoli XV e XVI. Un rinnovo artistico indipendente da quello della Penisola si ebbe nelle Fiandre all'inizio del XV secolo, il cosiddetto periodo dei Primitivi fiamminghi, ed è talvolta indicato dagli storiografi come un "Rinascimento" a sua volta, condividendo alcune caratteristiche teoriche col Rinascimento italiano, quali la rinnovata ricerca di realismo nell'arte, senza però tuttavia avere un'altrettanto forte base teorica e letteraria.
Sul finire del XV secolo la fama di artisti italiani era ormai travalicato i confini della penicola, rendendoli richiesti anche dalle corti europee. Talvolta si trattò di viaggi isolati, senza conseguenze nelle vicende artistiche locali, altre volte, grazie all'interesse di re, principi e signori, si assistette a una presenza più consistente e legate nel tempo, capace di originare vere e proprie scuole di derivazione italiana. Il caso più emblematico è forse la corte di Francesco I di Francia, dove artisti come Leonardo da Vinci, Rosso Fiorentino, Francesco Primaticcio, Benvenuto Cellini e altri vennero accolti e protetti, dando il via alla cosiddetta scuola di Fontainebleau, importante fucina del tardo Rinascimento.
Altre volte furono gli artisti stranieri a recarsi in Italia per apprendere i segreti della prospettiva e del fare arte in generale. Emblematici furono in questo senso i due viaggi di Albrecht Dürer a Venezia (1494-1495 e 1506-1507), dove il geniale artista tedesco poté constatare anche, con una certa amarezza, l'alto status di cui godevano gli artefici sul suolo italiano, rispetto alla figura di semplici artigiani, di retaggio medievale, che era all'ordine del giorno, anche in una città ricca e cosmopolita come la sua Norimberga.
Nel corso del XVI secolo, anche per la presenza continua di eserciti stranieri lungo la penisola, l'Europa in generale si appassionò dello stile italiano, diventato ormai un modello imprescindibile per qualsiasi artista. Si può parlare allora in maniera equivocabile di nuove scuole rinascimentali extra-italiane, quali quella francese, tedesca, spagnola, inglese, fiamminga e olandese.
Il tramonto del Rinascimento [modifica]
Con la decadenza politica ed economica in Italia il Rinascimento entrò nella sua fase discendente, poiché si spensero quelle forze creative che gli avevano dato vigore. Le sventurate vicende politiche della penisola fecero vacillare la fede nelle capacità dell'individuo, facendo riaffiorare la superstizione e la speranza nel miracoloso, il senso della precarietà, le assillanti domande sul lecito e l'illecito. Nel frattempo il pensiero politico rifuggiva dalla chiarezza lineare di Machiavelli. Sullo scorcio del XVI secolo prevaleva ormai lo stato d'animo della Controriforma e il Tasso esprimeva il tormento dell'uomo nuovamente attanagliato dall'angoscia del peccato.
Rinascimento americano [modifica]
L'espressione "Rinascimento americano", coniata dal critico letterario Francis Otto Matthiessen, fa riferimento al movimento del trascendentalismo e al più generale movimento letterario e culturale fiorito intorno a esso alla vigilia della seconda rivoluzione industriale. I principali rappresentanti del "Rinascimento americano" sono Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman e Henry David Thoreau.
Discipline [modifica]

Storiografia e letteratura [modifica]


Machiavelli
Una delle rotture più significative con la tradizione medievale si produsse nel campo della storiografia. Gli storici, tra i quali furono insigni Flavio Biondo (nel XIV secolo), Machiavelli e Guicciardini (nel XV secolo), abbandonarono la visione medievale legata a un concetto di tempo segnato dall'avvento di Cristo, per sviluppare un'analisi degli avvenimenti concepita laicamente, con un atteggiamento critico verso le fonti. La storia divenne una branca della letteratura e non più della teologia e si rifiutò la convenzionale divisione cristiana che doveva avere inizio con la Creazione, seguita dall'Incarnazione di Gesù e dal Giudizio finale. La visione rinascimentale esaltava invece il mondo greco-romano, condannando il Medioevo come un'era di barbarie e proclamando la nuova epoca come era di luce e di rinascita del mondo classico.
Il fervido interesse per l'antichità si concretò nella ricerca e nel restauro dei manoscritti dei grandi autori greci e latini: i Dialoghi di Platone, le Storie di Erodoto e Tucidide, le opere dei drammaturghi e dei poeti greci, riscoperti e pubblicati dopo la caduta di Costantinopoli (1453), che risvegliarono in Europa occidentale un nuovo fervore filologico.
Arti figurative [modifica]


Schema prospettico del Pagamento del Tributo di Masaccio nella Cappella Brancacci (1425)


Leon Battista Alberti, facciata della chiesa di Sant'Andrea (Mantova)
    Per approfondire, vedi le voci Arte del Rinascimento e Architettura del Rinascimento.
Anche nel campo delle arti figurative le innovazioni rinascimentali affondavano le radici nel XIV secolo: ad esempio le ricerche intuitive sullo spazio di Giotto, di Ambrogio Lorenzetti o dei miniatori francesi vennero approfondite e portate a livelli di estremo rigore, che arrivarono a produrre risultati rivoluzionari[2].
Furono almeno tre gli elementi essenziali del nuovo stile[2]:
Formulazione delle regole della prospettiva lineare centrica, che organizzava lo spazio unitariamente
Attenzione all'uomo come individuo, sia nella fisionomia e anatomia che nella rappresentazione delle emozioni
Ripudio degli elementi decorativi e ritorno all'essenzialità.
L'arte del Rinascimento vede lo studio e la riscoperta dei modelli antichi, sia in architettura che in scultura. Vengono riscoperti e riutilizzati elementi architettonici dell'arte classica, e lo studio architettonico si concentra prevalentemente sull'organizzazione armonica dei volumi, degli spazi, della luce all'interno dell'edificio. L'architettura diventa armonia, proporzione, simmetria, e riflette la nuova dimensione armonica e sinergica che l'uomo ha trovato nel rapporto con la natura e con Dio, un rapporto ormai non più caratterizzato dal timor dei medievale (che veniva tradotto in architettura nella vertiginosa altezza della chiesa gotica, che faceva sentire il fedele che vi entrava piccolo di fronte all'immensità dell'Onnipotente).
La prima fase dell'arte rinascimentale è incentrata su Firenze, città che diventa uno dei centri mondiali di diffusione ed elaborazione della nuova cultura umanistico-rinascimentale. Fervida è qui l'attività di grandi artisti e letterati, in tutti i campi artistici, e proprio questo fervore artistico rende la signoria medicea principale polo culturale italiano in questo periodo. In seguito, a partire dal primo Cinquecento, Roma, capitale della controriforma, diventerà il centro indiscusso dell'arte, che acquisirà un linguaggio maturo grazie particolarmente a Michelangelo e Raffaello, che avviano il manierismo con la ricerca di un canone perfetto, che diventi modello da riprodurre (la Pietà Vaticana di Michelangelo può essere vista, in questo senso, come conclusione di questo percorso artistico). Nell'Italia settentrionale la frammentazione politica e la presenza di numerose corti, intente a primeggiare le une sulle altre anche in campo artistico, sarà uno sprone per la promozione dell'arte, in Toscana, Lombardia, Emilia e nel Veneto.
Scienze e tecnologia [modifica]


L'uomo vitruviano di Leonardo


Una pagina della prima Bibbia stampata da Gutenberg con i caratteri mobili
Il nuovo approccio verso il mondo vide il declino dell'auctoritas e della conoscenza speculativa che aveva come fine la contemplazione della verità, legata indissolubilmente a Dio. A questo concetto si affiancò quello della conoscenza funzionale, che ha validità in quanto utilizzabile in possibili sbocchi pratici: scienza e tecnologia divengono quindi un'unica disciplina, che cerca la conoscenza della natura per modificarla secondo le proprie esigenze. Non a caso i più grandi esponenti della cultura rinascimentale (Salutati, Bruni, Valla, Decembrio) erano anche uomini impegnati in politica, cioè in un'attività pratica. In questo periodo si assiste anche alla ripresa della magia e dell'alchimia, che sebbene fossero guardate con sospetto dai primi padri della Chiesa, erano di nuovo state legittimate già nel basso Medioevo dagli scolastici cristiani come Roger Bacon, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino.[4]. Esse diventano ora scienze positive della trasformazione e del dominio dell'uomo sugli elementi[2].
Il sapere scientifico (matematica, geometria, fisica) acquista una diffusione mai così capillare, con applicazioni pratiche in molte attività della borghesia[2].
L'afflusso di intellettuali provenienti da Costantinopoli, dovuto sia alla ricomposizione momentanea dello scisma tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente (1438), sia alla conquista della città compiuta dai turchi ottomani nel 1453, portò grandi personalità nelle Università di Firenze, Ferrara e Milano, diffondendo la conoscenza del greco, della filosofia, lo studio del greco tra il XV e il XVI secolo. Gli studi umanistici furono incoraggiati e sostenuti dalle famiglie dei Medici di Firenze, degli Este di Ferrara, degli Sforza di Milano, dei Gonzaga di Mantova e dei duchi di Montefeltro di Urbino, dei nobili di Venezia e della Roma papale.
Medicina [modifica]
    Per approfondire, vedi la voce medicina rinascimentale.
Il Rinascimento fece inoltre notevoli progressi nel campo della medicina e dell'anatomia, scienze per le quali venne redatta anche, tra il XV e il XVI secolo, la prima traduzione delle opere di Ippocrate e Galeno, che pur contenendo in sé poco di scientificamente applicabile, incoraggiarono lo studio della sperimentazione medica e dell'anatomia umana. Andrea Vesalio fu uno dei primi a studiare i cadaveri dissezionati.
Alcuni dei più noti trattati greci di matematica furono tradotti nel XVI secolo, mentre erano date alle stampe le opere di astronomia di Copernico, Tycho Brahe e Keplero. Verso la fine del XVI secolo, Galileo applicò i modelli matematici alla fisica. Lo studio della geografia fu trasformato dalla nuove informazioni ricavate dalle grandi esplorazioni geografiche.
In campo tecnologico, l'invenzione della stampa a caratteri mobili nel XV secolo da parte di Gutenberg rivoluzionò la diffusione del sapere e la circolazione delle informazioni. La nuova invenzione aumentò notevolmente la quantità di libri in circolazione, aiutò a eliminare gli errori di trascrizione e trasformò lo sforzo intellettuale in un'attività di confronto e di scambio piuttosto che di studi solitari e isolati. Le migliorie nella tecnologia navale aprirono alle flotte europee le rotte oceaniche, l'impiego della polvere da sparo rivoluzionò le tattiche militari tra il 1450 e il 1550, favorendo lo sviluppo dell'artiglieria che rivelò i suoi effetti devastanti contro le mura di castelli e città, distruggendo il mito atavico della cavalleria.
Filosofia [modifica]
    Per approfondire, vedi la voce Filosofia rinascimentale.
In filosofia si assiste alla rinascita del neoplatonismo, al quale si devono quel rinnovato interesse per il bello e quella fioritura di espressioni artistiche che videro l'Italia protagonista. L'amore per il bello e per l'armonia del cosmo, significati dal concetto neoplatonico di anima del mondo, originò infatti le innumerevoli opere d'arte di questo tempo. Risulta esemplare in proposito una frase di Pietro Bembo, che nel Cinquecento scriveva: «Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate scuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio».
Diritto [modifica]
Nel campo del diritto perse importanza il metodo dialettico di tradizione medievale, a favore di una più attenta interpretazione storico-filologica del diritto romano. Per i giuristi rinascimentali l'obiettivo centrale dei governo era quello di mantenere la pubblica sicurezza e la pace interna, ridimensionando il valore della libertas, del diritto e della giustizia in senso teorico.
Politica [modifica]
Grandi stravolgimenti politici interessarono sia le principali città-stato della penisola, che si svilupparono in stati regionali espandendosi a spese dei vicini, senza peraltro arrivare alla realizzazione dell'unità nazionale, sia la nascita degli stati nazionali europei in Spagna, Francia e Inghilterra. La nuova realtà fece sviluppare la diplomazia, con l'istituzione, entro il XVI secolo, di ambasciate permanenti.
Religione [modifica]
Gli uomini di Chiesa del Rinascimento, soprattutto quelli di rango elevato come papi, cardinali e vescovi, modellarono il proprio comportamento sull'etica della società laica, distinguendosi ben poco da quelle dei grandi mercanti e dei principi dell'epoca. Il cristianesimo rimase comunque un elemento vitale nella cultura dell'epoca.
Musica [modifica]


Guillaume Dufay (a sinistra) e Gilles Binchois (a destra)
    Per approfondire, vedi la voce Musica rinascimentale.
Verso la fine del Quattrocento la scuola franco fiamminga musicale, che si sviluppò finanziata nelle scuole delle cattedrali dalla borghesia benestante, prese il rinnovò grandemente le preesistenti forme della messa, del mottetto e della chanson. Ponendo le consonanze per terze (ancora oggi familiari all'orecchio occidentale) e la forma imitativa del canone alla base delle loro procedure compositive, i fiamminghi (tra cui ricordiamo il fondatore Guillaume Dufay e il grande Josquin Des Prez) rivoluzionarono la pratica della polifonia ereditata dall'Ars nova e dall'Ars antiqua. Il lavoro di questi compositori poneva le basi per lo sviluppo di quella che sarebbe stata la teoria dell'armonia.
All'inizio del Cinquecento gli eccessi della scuola fiamminga provocarono una reazione e una nuova tendenza alla semplificazione, come si può vedere nell'opera di Josquin Des Prez, dei suoi contemporanei fiamminghi e, più tardi, nell'opera di Giovanni Pierluigi da Palestrina, che era in parte spinte dalle limitazioni imposte alla musica sacra dal Concilio di Trento che scoraggiava l'eccessiva complessità. Le complessità dei canoni quattrocenteschi furono progressivamente abbandonate dai fiamminghi in favore dell'imitazione a due e tre voci (fino ad arrivare a sei voci reali) e con l'inserimento di sezioni in omofonia che sottolineavano i punti salienti della composizione. Palestrina, dal canto suo, produsse composizioni in cui un contrappunto fluido alternava fittamente consonanze e dissonanze con un suggestivo effetto di sospensione.
Protagonisti del Rinascimento [modifica]

Artisti figurativi [modifica]


Copertina delle Vite di Vasari (edizione del 1568)
Artisti italiani
Leon Battista Alberti
Giovanni Antonio Amadeo
Beato Angelico
Antonello da Messina
Amico Aspertini
Giovanni Bellini
Sandro Botticelli
Filippo Brunelleschi
Michelangelo Buonarroti
Vittore Carpaccio
Cima da Conegliano
Leonardo da Vinci
Domenico Da Tolmezzo
Donato Bramante
Donatello
Francesco Francia
Andrea Mantegna
Masaccio
Sebastiano del Piombo
Raffaello Sanzio
Giulio Romano
Tiziano
Piero della Francesca
Paolo Uccello
Antonio Allegri detto il Correggio
Fiamminghi
Hieronymus Bosch
Pieter Bruegel il Vecchio
Pieter Brueghel il Giovane
Jan Brueghel il Vecchio
Jan Brueghel il Giovane
Robert Campin
Jan van Eyck
Rogier van der Weyden
Tedeschi
Lucas Cranach il vecchio
Albrecht Dürer
Hans Holbein
Francesi
Jean Fouquet
Spagnoli
El Greco
Scrittori [modifica]
Andrea Alciato
Leon Battista Alberti
Ludovico Ariosto
Pietro Bembo
Matteo Maria Boiardo
Leonardo Bruni
Baldassarre Castiglione
Lodovico Dolce
Erasmo da Rotterdam
Francesco Guicciardini
Lorenzo de' Medici
Michel de Montaigne
Thomas More
Angelo Poliziano
Luigi Pulci
François Rabelais
Coluccio Salutati
William Shakespeare
Torquato Tasso
Danzatori [modifica]
Domenico da Piacenza
Fabritio Caroso
Filosofi [modifica]
Nicola Cusano
Marsilio Ficino
Charles de Bovelles
Francesco Bacone
Francesco Guicciardini
Niccolò Machiavelli
Giovanni Pico della Mirandola
Bernardino Telesio
Giordano Bruno
Montaigne
Tommaso Campanella
Politici [modifica]
Rinascimento italiano
Leonardo Bruni
Ercole I d'Este
Isabella d'Este
Beatrice d'Este
Francesco Foscari
Cosimo de' Medici
Lorenzo de' Medici (noto anche come Lorenzo il Magnifico)
Coluccio Salutati
Francesco Sforza
Ludovico Sforza
I Bentivoglio
Ferdinando I di Napoli
Rinascimento europeo
Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero
Caterina de' Medici
Ferdinando I di Aragona
Filippo II
Francesco I di Francia
Enrico IV d'Inghilterra
Enrico VII d'Inghilterra
Enrico VIII d'Inghilterra
Enrico il Navigatore di Portogallo
Elisabetta I Regina d'Inghilterra
Isabella di Castiglia
Ladislao II di Boemia Re di Boemia e Ungheria
Mattia Corvino Re d'Ungheria
Margherita di Valois
Sigismondo il Vecchio Re di Polonia
Sigismondo Augusto Re di Polonia
Religiosi [modifica]
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Papa Pio II
Papa Sisto IV
Papa Alessandro VI
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Papa Leone X
Papa Paolo III
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Martin Lutero
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Matematici [modifica]
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Scienziati [modifica]
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Giovanni Keplero
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Esploratori e navigatori [modifica]
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Jacques Cartier
Samuel de Champlain
Cristoforo Colombo
Hernán Cortés
Bartolomeu Dias
Francis Drake
Vasco da Gama
Ferdinando Magellano
Francisco Pizarro
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Rispondi

Da: favola della buonanotte18/10/2011 23:49:37
Il brutto anatroccolo

Fiaba di Hans Christian Andersen

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l'avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati; la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva imparato quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e al prati c'erano grandi boschi, e in mezzo al boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da profondi canali, e tra il muro e l'acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, e erano così alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all'ombra delle più grandi. Quel luogo era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un'anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai era quasi stanca, sia perché ci voleva tanto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.
Finalmente una dopo l'altra, le uova scricchiolarono. «Pip, pip» si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e sporgevano fuori la testolina.
«Qua, qua!» disse l'anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.
«Com'è grande il mondo!» esclamarono i piccoli, adesso infatti avevano molto più spazio di quando stavano nell'uovo.
«Credete forse che questo sia tutto il mondo?» chiese la madre. «Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non sono mai stata. Ci siete tutti, vero?» e intanto si alzò. «No, non siete tutti. L'uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa» e si rimise a covare.
«Allora, come va?» chiese una vecchia anatra giunta a farle visita.
«Ci vuole tanto tempo per quest'unico uovo!» rispose l'anatra che covava. «Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più deliziosi anatroccoli che io abbia mai visto assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene neppure a trovarmi.»
«Fammi vedere l'uovo che non si vuole rompere!» disse la vecchia. «Può essere un uovo di tacchina! Anch'io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura incredibile dell'acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l'uovo. Sì, è un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli.»
«Adesso lo covo ancora un po'; l'ho covato così a lungo che posso farlo ancora un po'!»
«Fai come vuoi!» commentò la vecchia anatra andandosene.
Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò.
«È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!»
Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole splendeva sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra arrivò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; «qua, qua!» disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l'altro. L'acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c'erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.
«No, non è un tacchino!» esclamò l'anatra «guarda come muove bene le zampe, come si tiene ben dritto! È proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi condurrò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre vicino a me, che nessuno vi calpesti, e fate attenzione al gatto!»
Entrarono nel pollaio. C'era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d'anguilla, che alla fine andò al gatto.
«Vedete come va il mondo!» disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d'anguilla. «Adesso muovete le zampe» aggiunse «provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. È la più distinta di tutte, è di origine spagnola, per questo è così pesante! Guardate, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. È una cosa proprio straordinaria, la massima onorificenza che un'anatra possa ottenere. Significa che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!»
E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: «Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo! Lui non lo vogliamo!» e subito un'anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.
«Lasciatelo stare» gridò la madre «non ha fatto niente a nessuno!»
«Sì, ma è troppo grosso e strano!» rispose l'anatra che lo aveva beccato «e quindi ne prenderà un bel po'!»
«Che bei piccini ha mamma anatra!» disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa «sono tutti belli, eccetto uno, che non è venuto bene. Sarebbe bello che lo potesse rifare!»
«Non è possibile, Vostra Grazia!» rispose mamma anatra «non è bello, ma è di animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po' meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. È rimasto troppo a lungo nell'uovo, per questo ha un corpo non del tutto normale». E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. «Comunque è un maschio» aggiunse «e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!».
«Gli altri anatroccoli sono graziosi» disse la vecchia. «Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d'anguilla, portatemela.»
E così fecero come se fossero a casa loro.
Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: «È troppo grosso!» dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e quindi credeva di essere imperatore, si gonfiò come un'imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.
Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: «Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!» e la madre pensava: "Se tu fossi lontano da qui!". Le anatre lo beccavano, le galline
10 colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.
Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. "È perché io sono così brutto" pensò l'anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre. Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.
11 mattino dopo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. «E tu chi sei?» gli chiesero, e l'anatroccolo si voltò da ogni parte e salutò come meglio potè.
«Sei proprio brutto!» esclamarono le anatre selvatiche «ma a noi non importa nulla, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!» Quel poveretto non pensava certo a sposarsi, gli bastava solamente poter stare tra i giunchi e bere un po' di acqua della palude.
Lì rimase due giorni, poi giunsero due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era passato poco tempo da quando erano usciti dall'uovo e per questo erano molto spavaldi.
«Ascolta, compagno» dissero «tu sei così brutto che ci piaci molto! Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un'altra palude qui vicino si trovano delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!»
"Pum, pum!" si sentì in quel momento, entrambe le anatre caddero morte tra i giunchi e l'acqua si arrossò per il sangue. "Pum, pum!» si sentì di nuovo, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere. Poi spararono di nuovo. C'era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni s'erano arrampicati sui rami degli alberi e si affacciavano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull'acqua. Nel fango giunsero i cani da caccia plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa cercando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso momento si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli pendeva fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all'anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli nulla.
«Dio sia lodato!» sospirò l'anatroccolo «sono così brutto che persino il cane non osa mordermi.»
E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si sentiva sparare un colpo dopo l'altro.
Solo a giorno inoltrato tornò la quiete, ma il povero giovane ancora non osava rialzarsi; attese ancora molte ore prima di guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude il più presto possibile. Corse per campi e prati, ma c'era molto vento e faceva fatica a avanzare.
Verso sera raggiunse una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così rimaneva in piedi. Il vento soffiava intorno all'anatroccolo, tanto che lui dovette sedere sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da un lato e era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.
Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava "figliolo", sapeva incurvare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo era chiamata "coccodè gamba corta", faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.
Al mattino si accorsero subito dell'anatroccolo estraneo, e il gatto cominciò a fare le fusa e la gallina a chiocciare.
«Che succede?» chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così credette che l'anatroccolo fosse una grassa anatra che si era smarrita. «È proprio una bella preda!» disse «ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova.»
E così l'anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina era la padrona, e sempre dicevano: «Noi e il mondo!» perché credevano di esserne la metà, e naturalmente la metà migliore. L'anatroccolo pensava che si potesse avere anche un'altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.
«Fai le uova?» chiese la gallina.
«No.»
«Allora te ne vuoi stare zitto!»
E il gatto gli disse: «Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?».
«No!»
«Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli.»
E l'anatroccolo se ne stava in un angolo, di cattivo umore. Poi cominciò a pensare all'aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell'acqua, alla fine non potè trattenersi e lo disse alla gallina.
«Cosa ti succede?» gli chiese lei. «Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!»
«Ma è così bello galleggiare sull'acqua!» disse l'anatroccolo «così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo!»
«Sì, è certo un gran divertimento!» commentò la gallina «tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull'acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama! Più intelligente di lei non c'è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l'acqua sopra la testa?»
«Voi non mi capite!» disse l'anatroccolo.
«Certo, se non ti capiamo noi chi dovrebbe capirti, allora? Non sei certo più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non sei forse stato in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. A me puoi credere: io faccio il tuo bene se ti dico cose spiacevoli; da questo si riconoscono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!»
«Credo che me ne andrò per il mondo» disse l'anatroccolo.
«Fai come vuoi!» gli rispose la gallina.
E così l'anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull'acqua e vi si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.
Venne l'autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare e su nel cielo sembrava facesse proprio freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo. Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.
Una sera che il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l'anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessibili: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, allargarono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia, si rotolò nell'acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro e emise un grido così acuto e strano, che lui stesso ne ebbe paura. Oh, non riusciva a dimenticare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò nell'acqua fino sul fondo, e tornato a galla era come fuori di sé. Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove si stavano dirigendo, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava affatto. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!
E l'inverno fu freddo, molto freddo. L'anatroccolo dovette nuotare continuamente per evitare che l'acqua ghiacciasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più stretto. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L'anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l'acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e restò intrappolato nel ghiaccio.
Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.
I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo credette che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece traboccare nella stanza. La donna gridò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c'era il burro, e poi nel barile della farina, e poi fuori di nuovo! Uh, come si era ridotto! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di afferrarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l'anatroccolo volò fuori tra i cespugli, nella neve caduta, e lì restò, stordito.
Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude tra le canne, quando il sole ricominciò a splendere caldo. Le allodole cantavano, era giunta la bella primavera!
Allora sollevò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di accorgersene si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lilla profumavano e piegavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com'era fresca l'aria di primavera! Dalle fitte piante uscirono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.
"Voglio volare da loro, da quegli uccelli reali; mi uccideranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso avvicinarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che ha cura del pollaio, e soffrire tanto d'inverno!" E volò nell'acqua e nuotò verso quei magnifici cigni questi lo guardarono e si diressero verso di lui frullando le piume. «Uccidetemi!» esclamò il povero animale e abbassò la testa verso la superfìcie dell'acqua in attesa della morte, ma, che cosa vide in quell'acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, era anche lui un cigno.
Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si e usciti da un uovo di cigno?
Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.
Nel giardino giunsero alcuni bambini e gettarono pane e grano nell'acqua; poi il più piccolo gridò: «Ce n'è uno nuovo!». E gli altri bambini esultarono con lui: «Sì, ne è arrivato uno nuovo!». Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il padre e la madre, e gettarono di nuovo pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: «Il nuovo è il più bello, così giovane e fiero!». E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui.
Allora si sentì timidissimo e infilò la testa dietro le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lilla piegarono i rami fino all'acqua e il sole splendeva caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: "Tanta felicità non l'avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!."

FINE
Rispondi

Da: x19/10/2011 07:18:04
Non ti ricordi neanche le cose che hai già copiato e pubblicato......
Rispondi

Da: favola del buongiorno19/10/2011 07:44:37
Gatto e topo in società

Fiaba dei fratelli Grimm

Un gatto aveva fatto conoscenza con un topo e gli aveva tanto vantato il grande amore e l'amicizia che gli portava, che alla fine il topo acconsentì ad abitare con lui; avrebbero governato insieme la casa. "Ma per l'inverno dobbiamo provvedere, altrimenti patiremo al fame," disse il gatto, "e tu, topolino, non puoi arrischiarti dappertutto sennò finirai col cadermi in trappola!" Il buon consiglio fu seguito e comprarono un pentolino di strutto. Ma non sapevano dove metterlo; finalmente, pensa e ripensa, il gatto disse: "Non so dove potrebbe essere più al sicuro che in chiesa; là nessuno osa commettere un furto: lo mettiamo sotto l'altare e non lo tocchiamo prima di averne bisogno." Il pentolino fu messo al sicuro ma il gatto non tardò ad avere voglia di strutto, e disse al topo: "Volevo dirti, topolino, che mia cugina mi ha pregato di farle da compare: ha partorito un piccolo, bianco con macchie brune, e devo tenerloa battesimo. Lasciami uscire oggi e sbriga da solo le faccende di casa." - "Va bene," rispose il topo, "va pure e se mangi qualcosa di buono pensa a me: un goccio di quel rosso vino puerperale lo berrei volentieri anch'io!" Ma non c'era niente di vero: il gatto non aveva cugine nè l'avevano richiesto come padrino. Andò dritto in chiesa, si avvicino quatto quatto al pentolino di strutto, si mise a lecccare e lecco via la pellicola di grasso. Poi se ne andò a zonzo per i tetti della città per tutto il resto della giornata: si guardò intorno, si mise steso al sole e continuava a leccarsi i baffi ogni qualvolta pensava al pentolino. Non ritornò a casa che alla sera. "Eccoti qua," disse il topo, "hai di certo passato una giornata allegra. Che nome hanno messo al piccolo?" - "Pellepappata," rispose il gatto tutto d'un fiato. "Che strano nome," disse il topo, "è frequente nella vostra famiglia?" - "Che c'è di strano," rispose il gatto, "non è certo peggio di Rubabriciole, il nome dei tuoi figliocci!"

Poco tempo dopo al gatto tornò la voglia di strutto. Così disse al topo: "Devi farmi un'altra volta il piacere di badare alla casa da solo; mi vogliono di nuovo come padrino e siccome il piccolo stavolta ha un cerchio bianco intorno al collo, non posso rifiutare." Ancora una volta il topo acconsentì, e di nuovo il gatto corse di soppiatto fino alla chiesa e finì col divorare metà del contenuto del pentolino. "E' proprio vero: nulla è più gustoso di quello che si mangia da soli" ed era tutto contento della sua giornata quando al tramonto rientrò a casa. Il topo gli chiese della giornata appena trascorsa e poi: "Questo piccolo qui come l'avete chiamato?" - "Mezzopappato," si lasciò scappare il gatto. "Mezzopappato! che razza di nome," esclamò il topo, "sono sicuro che non esiste nemmeno sul calendario!"

Ben presto al gatto tornò l'acquolina in bocca e, poichè non c'è due senza tre, disse al topo: "Devo fare di nuovo il padrino. Questa volta il piccolo è tutto nero e ha solo le zampe bianche: in tutto il resto del corpo non ha un solo pelo bianco. Questo capita solo una volta ogni due anni: mi lasci andare?" - "Pellepappata e Mezzopappato," rimuginò il topo a voce alta, "sono nomi che mi impensieriscono!" - "Tu te ne stai col tuo giubbone grigio scuro e la tua lunga coda tappato in casa, e va a finire che ti monti la testa! Succede così quando non si esce mai!" disse il gatto risentito e uscì. Quel golosone del gatto arrivò in chiesa e ovviamente divorò utto il pentolone di strutto: "Solo quando si è finito tutto si sta in pace!" disse a se stesso e tornò a casa solo a notte fonda e ben pasciuto. Il topo, che nel frattempo aveva sbrigato tutte le faccende e rimesso in ordine la casa, anche questa volta gli chiese che nome avessero dato al terzo piccino. "Beh, non ti piacerà di certo," disse il gatto, "si chiama Tuttopappato!" - "Tuttopappato, certo che è proprio un nome bizzarro, io non l'ho mai visto scritto. Che vorra mai dire?" ma poichè era stanco scosse il capo, si acciambellò e si addormentò.

Da allora più nessuno chiese al gatto di fare da padrino. Giunto l'inverno, quando ormai fuori non si trovavapiù nulla, il topo si ricordo della loro provvista di strutto e disse: "Vieni gatto, andiamo dove abbiamo messo in serbo il nostro pentolino di grasso, ce la godremo." - "Certo," rispose il gatto aggiungendo tra sè e sè "te la godrai come a mangiar aria fritta!" Si missero in cammino e quando arrivarono la pentola era ancora al suo posto, ma completamente vuota. "Ah," esclamò il topo, "ora capisco quel che è successo, ora mi è tutto chiaro. Bell'amico che sei! Hai divorato tutto quando hai fatto da compare: prima pellepappata, poi mezzopappato poi..." - "Vuoi tacere," disse il gatto, "ancora una parola e ti mangio!"

"Tuttopappato," finì di dire in quell'istante il topo. Così il gatto con un balzo l'afferrò e ne fece un sol boccone. Vedi, così va il mondo.

FINE
Rispondi

Da: .....19/10/2011 09:22:06
forse il tuo compagno è l'ultima gioiosa preda della Mantide
Rispondi

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