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14 dicembre 2017: Atto giudiziario CIVILE
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 12:45:04 |
| Cass. Sez. I, Sent., (ud. 20-05-2015) 17-06-2015, n. 12508 | |
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| Da: gfisitno | 14/12/2017 12:46:18 |
| Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, in latino Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus, meglio noto come Giustiniano I il Grande (Tauresio, 482 - Costantinopoli, 14 novembre 565), è stato un imperatore bizantino, dal 1º agosto 527 al suo decesso. Giustiniano, ultimo imperatore bizantino educato nel seno di una famiglia di lingua e cultura latine, è considerato uno dei più grandi sovrani di età tardo-antica e altomedievale. Il suo governo coincise con un periodo d'oro per l'Impero romano d'Oriente, dal punto di vista civile, economico e militare. Nell'ambito della Restauratio Imperii, le vittoriose campagne dei generali Belisario e Narsete permisero il ricongiungimento all'Impero di parte dei territori dell'Occidente romano; venne portato a compimento un progetto di edilizia civile che ha lasciato opere architettoniche di eccezionale importanza come la chiesa di Hagia Sophia a Costantinopoli; il patronato imperiale diede inoltre nuova linfa alla cultura, con la fioritura di celebri storici e letterati, fra cui Procopio di Cesarea, Agazia, Giovanni Lido e Paolo Silenziario. La maggiore eredità lasciata da Giustiniano è la raccolta normativa del 535, poi conosciuta come Corpus iuris civilis, una compilazione omogenea della legge romana che è tutt'oggi alla base del diritto civile, l'ordinamento giuridico più diffuso al mondo. In occidente, il Corpus iuris venne preso come testo di riferimento solo a partire dal Basso Medioevo, dato che nell'Alto Medioevo sia sul diritto germanico sia sul diritto in uso presso le genti di espressione e cultura latine, ebbe maggiore influenza il Codex Theodosianus, emanato nel periodo di costituzione dei regni romano-barbarici entro un Impero d'Occidente in pieno smembramento. La peste che, durante il regno di Giustiniano, colpì lo Stato bizantino e l'intero bacino mediterraneo segnò la fine di un'epoca di splendore. Indice [nascondi] 1 Biografia 1.1 Giovinezza e ascesa al potere (482-527) 1.2 Regno 1.2.1 Amministrazione interna e provinciale 1.2.1.1 Protezione degli Azzurri 1.2.1.2 Riforme provinciali 1.2.1.3 Abolizione del consolato 1.2.1.4 Riforme contro gli abusi 1.2.1.5 Politica finanziaria 1.2.1.6 Politica commerciale 1.2.2 L'attività legislativa 1.2.3 Le attività militari e le campagne di Belisario 1.2.3.1 Guerre in Africa 1.2.3.2 Guerre in Italia 1.2.3.3 Conquista della Spagna meridionale 1.2.3.4 Il rovescio della medaglia: le guerre in Oriente e nei Balcani 1.2.4 Persecuzioni delle religioni non cristiane 1.2.4.1 La repressione dei Samaritani 1.2.4.2 Le persecuzioni dei Manichei 1.2.5 Politica ecclesiastica 1.2.6 Relazioni con Roma 1.2.7 Scritti religiosi 2 Giudizi 2.1 Fonti primarie 2.1.1 Elogi 2.1.2 Critiche 2.2 Storici successivi 3 Note 4 Bibliografia 5 Voci correlate 6 Altri progetti 7 Collegamenti esterni Biografia[modifica | modifica wikitesto] Giovinezza e ascesa al potere (482-527)[modifica | modifica wikitesto] Le rovine della città di Tauresio, città natale di Giustiniano I. Giustiniano I nacque in un piccolo villaggio chiamato Tauresio, in Dardania, nel 482, da Vigilanza, sorella dello stimato generale Giustino, che fece carriera tra i gradi dell'esercito fino a diventare imperatore.[1] Suo zio lo adottò assicurandogli una buona educazione.[1] Giustiniano completò il classico corso di studi, dedicandosi alla giurisprudenza e alla filosofia.[1] La sua carriera militare fu contrassegnata da rapidi avanzamenti, favoriti dalla proclamazione di Giustino ad imperatore, nel 518. Giustiniano venne nominato console nel 521, e più tardi comandante dell'esercito d'Oriente.[1] Funse da reggente molto prima che Giustino lo associasse a sé come imperatore il 1º aprile 527.[2] Tra il 524 e il 525 Giustiniano sposò Teodora, un'attrice teatrale con trascorsi da prostituta.[3] Giustiniano, per sposarla, dovette superare parecchi ostacoli, il più importante dei quali era una legge che proibiva agli uomini di alto rango di sposare serve o attrici.[4] Il futuro imperatore, tuttavia, riuscì a vincere le resistenze della madre e della zia, contrarie a un matrimonio con una prostituta, e superò l'ostacolo della legge, persuadendo lo zio imperatore ad abrogarla; l'editto che abrogò la legge permise alle ex attrici di sposare i cittadini di alto rango, portando a sfumare la distinzione di classe alla corte bizantina.[4] Teodora sarebbe divenuta molto influente nelle politiche dell'impero, e gli imperatori successivi avrebbero seguito l'esempio di Giustiniano, sposandosi al di fuori della classe aristocratica. Il 1º agosto dell'anno 527, per la morte di Giustino, Giustiniano restò l'unico imperatore.[1] Regno[modifica | modifica wikitesto] Ricostruzione di una moneta di Giustiniano I, che commemorava la riconquista dell'Africa, nel 535. Il suo regno ebbe un impatto mondiale, segnando un'epoca distinta nella storia dell'Impero bizantino e della Chiesa ortodossa. Giustiniano fu uomo di insolita abilità nel lavoro e dotato di un carattere moderato, affabile e vitale, ma all'occorrenza scaltro e privo di scrupoli. Fu l'ultimo imperatore a tentare di restaurare l'antico Impero romano, impadronendosi di gran parte dei territori che facevano parte dell'Impero romano d'Occidente; a questo scopo diresse le sue guerre e la sua colossale attività di costruzione. Partendo dalla premessa che l'esistenza del bene comune era affidata alle armi e alla legge, prestò particolare attenzione alla legislazione e fece redarre quello che sarebbe diventato un monumento a sua perenne memoria, codificando il diritto romano nel Corpus iuris civilis. Nel 535, Giustiniano fondò Giustiniana Prima, nei pressi della sua città natale. Procopio di Cesarea costituisce la fonte primaria per la storia del regno di Giustiniano, anche se le cronache di Giovanni da Efeso (che sopravvive come base per molte cronache successive) forniscono molti ulteriori dettagli. Entrambi gli storici ebbero toni aspri nei confronti di Giustiniano e Teodora: a fianco della sua opera principale, Procopio scrisse anche una Storia Segreta, che relaziona dei molti scandali alla corte di Giustiniano. Teodora morì nel 548; Giustiniano le sopravvisse per quasi 20 anni e morì il 13 o il 14 novembre 565. Amministrazione interna e provinciale[modifica | modifica wikitesto] Protezione degli Azzurri[modifica | modifica wikitesto] Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Rivolta di Nika. Auriga del circo. Le fazioni del circo generarono enormi disordini a Costantinopoli, minacciando persino di deporre Giustiniano. Varie fonti, come Procopio ed Evagrio Scolastico, affermano che Giustiniano nel corso del suo regno garantì l'immunità alla fazione dell'ippodromo degli Azzurri (anche detti Veneti), permettendo loro ogni crimine e punendo duramente i magistrati che cercavano di punirli. Il seguente è un passo tratto dal capitolo 31 del IV libro delle Storie di Evagrio: « Debbo dire di altro fatto di Giustiniano, il quale non so indicare se dalla viziosa sua natura, o da timore e spavento nascesse. Questo fatto ebbe il suo principio da quella sedizione popolare, che si chiamò Nika, cioè Vinci. Piacque sì fortemente a Giustiniano favorire la fazione di quelli, che diconsi Veneti, che costoro potevano impunemente trucidare in pien meriggio, e in mezzo alla città , i loro avversarii; e non solamente non temendo per ciò le pene dovute a tali delitti, ma standosi anzi sicuri di ottenere onori: d'onde venne che furonvi molti omicidii. A costoro era fatto lecito entrare violentemente nelle altrui case, rapire i tesori in esse nascosti, vendere alle persone la loro stessa salvezza e vita e se alcun magistrato cercasse frenarli, egli per quel fatto chiamava sopra il suo capo la sua ruina. E così accadde a certo personaggio, il quale era stato magistrato in Oriente: chi avendo voluto gastigare, facendo loro dare la frusta, alcuni di coloro, che a queste novità applicavansi, onde meglio in appresso si conducessero, fu per tutta la città strascinato e frustato egli medesimo gravissimamente. Callinico poi prefetto della Cilicia, perché due Cilici, Paolo e Faustino di nome, entrambi omicidi, i quali lui aveano assaltato e tentato d'uccidere, punì a tenor delle leggi, fu pubblicamente crocifisso; e s'ebbe un tale supplizio in mercede della sua buona coscienza, e di avere osservata la legge. Da queste cose nacque che quelli, i quali erano dell'altra fazione, fuggironsi dai loro domicilii, né trovarono ricovero presso alcuno. Così che cacciati da tutti come malfattori, incominciarono poi a darsi alla strada, ad assaltare i viandanti e a derubarli, e ad ammazzarli: a segno tale che tutti i luoghi furono pieni di morti immature, di rubamenti e di simili misfatti. Altre volte Giustiniano mutata affezione e parte, uccise gli uomini che prima avea favoriti, e diede in potere delle leggi anche coloro, ai quali avea per lo innanzi all'uso de' Barbari permesso di commettere nelle città ogni empio delitto. Ma per esporre in particolare queste cose né ho tempo conveniente, né forza; e quanto ne dissi potrà bastare per vedere tutti gli altri suoi misfatti. » Tuttavia, secondo J.B. Bury, Giustiniano avrebbe favorito gli Azzurri, che condividevano le sue idee politiche ed ecclesiastiche,[5] solo durante il regno di Giustino, mentre, una volta diventato ufficialmente Imperatore, promulgò una legge con la quale dichiarava l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro fazione. Le repressioni, che colpirono ambedue le fazioni, suscitarono il malcontento di entrambe, e a ciò si unì l'aumento delle tasse imposto da Giustiniano per ottenere il denaro necessario per portare avanti la propria politica restauratrice dell'Impero romano universale.[5] Dittico consolare che mostra il nome completo di Giustiniano I. La conseguenza di ciò fu una seria rivolta scoppiata durante i giochi dell'ippodromo alle idi di gennaio del 532. Tre giorni prima il praefectus urbi condannò a morte sette esponenti di entrambe le fazioni, presumibilmente per dimostrare ai Verdi, che si erano lamentati per il favore imperiale goduto dagli Azzurri,[6] l'imparzialità del governo. Tuttavia due dei faziosi (uno appartenente agli Azzurri e l'altro ai Verdi) condannati all'impiccagione si salvarono perché la corda si spezzò e riuscirono a fuggire trovando rifugio in una chiesa. Tre giorni dopo, ai giochi dell'ippodromo, le due fazioni chiesero la grazia dei due criminali scampati ma, non ricevendo risposta, si rivoltarono entrambe. Ebbe così inizio la rivolta di Nika, dal grido con cui le due fazioni diedero inizio alla rivolta ("Nika", cioè "Vinci"). L'Imperatore tentò di trattare coi rivoltosi, destituendo i ministri Triboniano e Giovanni di Cappadocia, invisi ai faziosi, ma ciò non bastò a spegnere la rivolta e le due fazioni proclamarono imperatore Ipazio, nipote di Anastasio I.[7] Giustiniano, disperato, aveva già pronte le navi per fuggire dalla capitale ma Teodora riuscì a dissuaderlo affermando che avrebbe preferito morire da imperatrice piuttosto che perdere il trono fuggendo.[8] Incoraggiato dalle parole di Teodora, Giustiniano diede a Narsete il compito di corrompere gli Azzurri col denaro, mentre Belisario e Mundo dovevano sedare la rivolta con le armi; la vicenda si concluse col massacro di oltre 30.000 persone nell'ippodromo.[9] Il giorno successivo vennero giustiziati l'usurpatore Ipazio e il complice Pompeo. Negli anni successivi alla rivolta sembra che le fazioni si comportassero bene e occasionali disordini furono stroncati sul nascere.[10] L'Imperatore riedificò Santa Sofia e le altre chiese ed edifici danneggiati durante la rivolta. Con la morte di Giustiniano e l'ascesa di Giustino II, il nuovo imperatore giurò che avrebbe punito con uguale vigore sia i Verdi che gli Azzurri. Queste furono le sue parole alle due fazioni: «Azzurri, Giustiniano non c'è più! Verdi, egli è ancora vivo!»[11] Riforme provinciali[modifica | modifica wikitesto] Giustiniano apportò alcune modifiche al sistema provinciale che si discostarono dai principi di Diocleziano e che, secondo J. B. Bury, anticiparono la riforma dei temi: queste riforme prevedevano infatti per determinate regioni dell'Impero l'accentramento del potere amministrativo e militare (che secondo Diocleziano dovevano rimanere separati) nelle mani di un'unica persona, la soppressione di alcuni vicari e l'accorpamento di province più piccole in province più grandi.[12] Queste riforme risalgono agli anni 535 e 536 e sono motivate dal tentativo di porre fine ai conflitti tra autorità civile e autorità militare.[12] Mosaico della Basilica di Sant'Apollinare Nuovo raffigurante Giustiniano I. Cipro e Rodi, le Cicladi, la Caria, la Mesia e la Scizia vennero unite nella cosiddetta "Prefettura delle Isole" e posta sotto il comando di un quaestor exercitui residente a Odesso.[13] Giustiniano, inoltre, elevò i praeses della Fenicia Libanese al rango di spectabilis e i praeses della Palestina Salutare a proconsoli, il che illustra la volontà dell'Imperatore di incrementare i poteri delle autorità minori. Nello stesso tempo diminuì i poteri dei governatori più potenti, per esempio il Prefetto del pretorio d'Oriente e il Conte d'Oriente, quest'ultimo degradato a semplice governatore provinciale.[14] Anche le diocesi di Asia e Ponto vennero abolite, anche se quest'ultima, tredici anni dopo, venne ripristinata per gravi problemi interni.[15] I vicari di queste due diocesi divennero, coil titolo di Comes Iustinianus e con poteri sia civili che militari, governatori rispettivamente delle province di Frigia Pacatiana e Galazia Prima.[15] Quando la diocesi del Ponto venne ripristinata, il vicario ottenne poteri anche militari, per poter contrastare meglio i banditi che infestavano la regione.[13] Giustiniano abolì inoltre il titolo di vicario di Tracia e di vicario delle Lunghe Mura, affidando l'amministrazione della diocesi di Tracia al Praetor Iustinianus di Tracia.[13] In Egitto, ritenendo troppo gravoso per un solo uomo il governo della diocesi egiziana, limitò l'autorità del Prefetto Augusteo (il vicario d'Egitto) alle sole province di Alessandria e di Aegyptus I e II con il titolo di dux e con autorità sia civile che militare.[16] Le province della Tebaide vennero invece affidate al dux di Tebaide mentre le due Libie vennero governate dal dux di Libia. Il risultato fu che la diocesi d'Egitto venne scissa in cinque circoscrizioni (gruppi di province) indipendenti tra loro, governate da duci con autorità sia civile sia militare e dipendenti dal prefetto d'Oriente.[16] Quando Africa e Italia vennero riconquistate, Giustiniano ripristinò la prefettura del pretorio d'Africa mentre la prefettura del pretorio d'Italia ritornò in mano imperiale dopo averla strappata ai Goti. Abolizione del consolato[modifica | modifica wikitesto] Nel 541 Giustiniano abolì il consolato. Il motivo di tale provvedimento era il fatto che tale carica, oltre ad essere puramente onorifica, portava al dispendio di grandi somme di denaro.[17] Infatti i consoli dovevano assumersi le spese per le celebrazioni all'inizio dell'anno, che ammontavano a 2.000 libbre d'oro, una cifra che non tutti potevano permettersi, per cui divenne sempre più difficile trovare persone disposte a spendere una tale quantità di denaro per assumere la carica.[17] In alcuni casi era l'Imperatore stesso a pagare le spese per il consolato al posto del console. Nel 538 Giustiniano promulgò una legge che abbreviò la durata delle feste per festeggiare il console e rese facoltativa la distribuzione di denaro alla popolazione, stabilendo che, nel caso ci fosse stata, sarebbero state distribuite non monete d'oro ma monete d'argento.[17] Nonostante ciò, nel 541, dopo il consolato di Basilio, la carica di console venne abolita. Da allora in poi il titolo di console divenne una carica che poteva essere assunta soltanto dall'Imperatore nel primo anno di regno. Riforme contro gli abusi[modifica | modifica wikitesto] Durante la prefettura di Giovanni di Cappadocia, il prefetto d'Oriente e Giustiniano promulgarono alcune leggi per contrastare gli abusi e le iniquità commesse a danno dei sudditi. Una di queste prevedeva l'abolizione della suffragia, una somma di denaro che i governatori di provincia dovevano sborsare per ottenere il posto: secondo l'Imperatore, i governatori, per rifarsi della spesa, spesso estorcevano ai cittadini una somma da tre a dieci volte maggiore.[18] L'Imperatore proibì inoltre ai governatori di comprare le cariche e i contravventori venivano puniti con l'esilio, la perdita delle proprietà o con punizioni corporali.[19] Confermò inoltre una legge che proibiva ai governatori che si dimettevano di lasciare la provincia prima di 50 giorni dalle dimissioni, in modo che potessero essere giudicati per eventuali reati commessi.[19] Cercò anche di dare maggiore autorità al difensor civitatis, il magistrato che avrebbe dovuto difendere i diritti dei più deboli ma che era diventato pressoché ininfluente e impotente; stabilì che il difensor civitatis sarebbe stato eletto tra gli individui più influenti della città , sarebbe stato in carica non più di due anni e avrebbe giudicato anche i casi minori e non coinvolgenti non più di 300 numismata.[19] Istituì anche la figura del quaesitor, un magistrato che aveva l'incarico di indagare i motivi per cui i provinciali si fossero trasferiti a Costantinopoli e, nel caso non fossero validi, rispedirli nelle loro province natie. Una tale carica fu istituita per contrastare il trasferimento dei provinciali nella capitale, dove un aumento del proletariato avrebbe potuto causare numerosi problemi di ordine pubblico.[20] Abolì inoltre la carica di praefectus vigilum, un ufficiale subordinato al praefectus urbi che aveva il compito di arrestare i malviventi, sostituendola con la carica di pretore dei demi. Quest'ultima carica, a differenza del praefectus vigilum, era indipendente dal praefectus urbi ed era sia giudice sia capo della polizia.[20] Tuttavia queste leggi non riuscirono a eliminare la corruzione; fonti contemporanee parlano infatti di compravendita delle cariche e di altri casi di corruzione, spesso ad opera dei ministri di Giustiniano (ad esempio il prefetto del pretorio Pietro Barsime). Politica finanziaria[modifica | modifica wikitesto] Giustiniano viene accusato da Procopio di aver dilapidato le casse statali, lasciate piene da Anastasio, con le sue guerre di conquista e con la sua attività edilizia e, una volta svuotatele, di aver oppresso i sudditi facendosi erede di ricchi senatori con falsi testamenti, confiscando con pretesti vari le ricchezze di vari senatori e tassando i poveri.[21] Inoltre, a dire di Procopio, il denaro accumulato in tal modo veniva elargito, sotto forma di tributi, ai Barbari, rendendo così l'Impero loro tributario.[21] Pur essendo presente nella Storia segreta di Procopio un fondo di verità , va detto che è una fonte di parte e che Procopio tenta di screditare Giustiniano facendo apparire come suoi peculiari abusi già esistenti sotto i suoi predecessori.[22][23] Secondo J.B. Bury il sistema fiscale tardo-romano era per sua stessa natura così oppressivo che qualunque occhio critico avrebbe potuto raccogliere vari casi di oppressione (omettendo tutti i tentativi per alleviarla) per attaccare un sovrano facendolo apparire un tiranno.[24] Giustiniano tra l'altro tentò di combattere tali abusi e molte delle confische di terreni ai senatori erano giustificate dal fatto che essi avevano cospirato contro di lui. Le accuse che Giustiniano avrebbe sfruttato le leggi per arricchirsi tramite la confisca di proprietà ai senatori giudicati colpevoli sembrano trovare smentite nel fatto che restituì ai senatori coinvolti nella rivolta di Nika le proprietà a loro confiscate e che negli ultimi anni, nonostante fosse in impellenti necessità di soldi, abolì la confisca di proprietà come pena per crimini ordinari.[25] Analisi moderne hanno calcolato che il bilancio statale ai tempi di Anastasio era di circa 8 milioni di nomismata con una riserva di 23 milioni.[26] Secondo Warren Treadgold,[27] a smentita di quanto affermato da Procopio, Giustiniano spese sì grandi somme di denaro sfruttando le riserve di denaro ereditate da Anastasio ma non in maniera sconsiderata come lo storico tardo-antico affermava. Sotto l'amministrazione di Giovanni di Cappadocia finì la compravendita delle cariche e, grazie ai tesori dei Goti e dei Vandali, nel 541 il bilancio sembra essere aumentato a 11,3 milioni di nomismata, circa un terzo in più rispetto ad Anastasio.[28] La catastrofica epidemia di peste del 542 cambiò le carte in tavola.[29] Probabilmente circa un quarto della popolazione dell'Impero venne uccisa dalla pestilenza e lo stesso Imperatore cadde malato.[29] Inoltre la caduta in disgrazia del prefetto del pretorio Giovanni di Cappadocia, accusato di avere congiurato contro l'Imperatore, privò Giustiniano di un abile consigliere seppur impopolare. Per mantenere in attivo il bilancio statale, con le entrate in forte calo a causa della peste, l'Imperatore nominò Prefetto del pretorio Pietro Barsime, un banchiere disonesto.[30] Pietro riuscì a mantenere in attivo il bilancio statale riprendendo la compravendita delle cariche e opprimendo i senatori con confische e altre iniquità .[30] Per risparmiare smise inoltre di pagare i limitanei (cioè le truppe di frontiera) con il risultato che nel 545 numerosi soldati disertarono.[30] Giustiniano comunque cercò di venire incontro ai suoi sudditi: poiché gli abitanti delle province erano gravati dall'onere di fornire cibo agli eserciti ivi stanziati e trasportare le scorte negli accampamenti, egli con una legge del 545 stabilì che da in quel momento in poi sarebbero stati pagati in pieno per il cibo fornito agli eserciti e che gli eserciti non avrebbero potuto più prelevare dalla popolazione cibo gratuitamente o senza autorizzazione scritta.[31] Tentò anche di combattere gli abusi nella riscossione dell'epibola, una tassa gravosa pagata dai proprietari terrieri per le terre non coltivabili adiacenti ai loro latifondi; la peste e le devastazioni apportate dai Persiani sembrano tuttavia aver reso la riscossione dell'epibola frequente e gravosa.[31] Nel 558 scoppiò di nuovo la peste, che probabilmente vanificò ogni tentativo di ripresa demografica ed economica e che spinse il prefetto del pretorio Pietro Barsime (al suo secondo mandato) ad adottare gli stessi metodi impopolari del suo primo mandato pur di mantenere in attivo il bilancio statale.[32] Nel 565, alla morte di Giustiniano, il bilancio statale era di 8,3 milioni di nomismata, quasi lo stesso dei tempi di Anastasio.[28] La peste aveva impoverito lo Stato e costretto, insieme alle guerre di conquista e all'attività edilizia, Giustiniano a metodi oppressivi che lo resero impopolare. Secondo Warren Treadgold Giustiniano ebbe il merito di aver saputo affrontare efficacemente la forte crisi provocata dalla peste, impedendo, seppur a malapena e con metodi impopolari, il completo collasso economico e militare dello Stato bizantino.[33] Politica commerciale[modifica | modifica wikitesto] Ai tempi di Giustiniano Costantinopoli, grazie alla sua posizione geografica privilegiata, dominava i traffici commerciali nel mediterraneo.[34] I Bizantini non erano granché interessati a commerciare con nazioni europee, ormai impoverite dalle invasioni barbariche; preferirono piuttosto stringere contatti commerciali con le nazioni dell'Estremo Oriente, come India e Cina, dove veniva prodotta la seta.[34] I Cinesi importavano dai Bizantini vasellame e stoffe prodotte in Siria ed esportavano la seta.[34] Giustiniano I, raffigurato su una moneta dell'epoca. Un grosso ostacolo ai traffici con l'Estremo Oriente era però rappresentato dalla Persia, nemico giurato dell'Impero, sul cui territorio era necessario passare per giungere in Cina. Una conseguenza di ciò è che durante i frequenti conflitti con i Persiani Sasanidi i traffici con Cina e India non erano possibili.[34] Giustiniano cercò di ovviare a questo problema tentando di aprirsi un passaggio per la Cina attraverso la Crimea, e in questa occasione i Bizantini avviarono delle relazioni diplomatiche con i Turchi, anch'essi venuti in conflitto commerciale con i Sasanidi.[34] Sotto il successore di Giustiniano, Giustino II, Bizantini e Turchi si allearono contro i Persiani. Un altro modo con cui Giustiniano cercò di commerciare con la Cina senza passare per la Persia fu giungere via mare passando per il Mar Rosso e per l'Oceano Indiano.[34] In quest'occasione strinse rapporti commerciali con gli Etiopi del Regno di Aksum.[34] Tuttavia entrambe le vie alternative presentavano inconvenienti: l'Oceano Indiano era dominato dai mercanti sasanidi mentre la via asiatica era impervia e piena di pericoli.[34] Il problema fu risolto dall'astuzia di alcuni agenti bizantini che, in un viaggio in Oriente, riuscirono ad impadronirsi del segreto della produzione della seta e riuscirono a portare di nascosto a Costantinopoli dei bachi da seta.[35][36] La fioritura della produzione della seta nell'Impero che ne seguì fece sì che la produzione della seta divenne uno dei settori più importanti dell'industria bizantina e portò a un considerevole aumento delle entrate.[35] I principali centri di produzione della seta nell'Impero erano Costantinopoli, Antiochia, Tiro, Beirut e Tebe.[35] I Bizantini esportavano dai popoli delle steppe stoffe, ornamenti e vino e importavano pelli, cuoio e schiavi.[34] L'Egitto importava dall'India le spezie. Il commercio delle spezie potrebbe aver contribuito alla diffusione dell'epidemia di peste che colpì l'Impero durante il regno di Giustiniano; sembra infatti che l'epidemia si sia originata dall'Etiopia e da lì, tramite il commercio, sarebbe giunta in Egitto da dove si sarebbe diffusa per tutto l'Impero.[37] La peste colpì duramente soprattutto i commerci, che entrarono in crisi.[37] L'attività legislativa[modifica | modifica wikitesto] Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Corpus Iuris Civilis. L'imperatore Giustiniano I con il suo seguito, Ravenna, Basilica di San Vitale. « Cesare fui e son Iustiniano, che, per voler del primo amor ch'i' sento, d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. » (Dante, Divina Commedia - Paradiso, Canto VI, 10-12) Se i piani militari o le sue risposte alle gravi crisi demografica, economica e sociale non ebbero particolare successo, Giustiniano conquistò una fama duratura per la sua rivoluzione giuridica, che organizzò il diritto romano in una forma e uno schema organico rimasto alla base della legge di diverse nazioni odierne. La sua attività può essere opportunamente suddivisa in tre periodi. Il "primo" periodo, dal 528 al 534, fu caratterizzato dalle grandi compilazioni, con la preparazione e la pubblicazione di:[38] Il primo Codice (Novus Iustinianus Codex), dal 528 al 529. Il Digesto, o Pandette (Digestum, seu Pandectae), dal 530 al 533, una raccolta di iura (opere di giuristi presieduti da Triboniano). Le Istituzioni (Institutiones Iustiniani sive Elementa), 533, destinate all'insegnamento del diritto nelle scuole. Il secondo Codice (Codex repetitae praelectionis), 534, ossia il Codice vero e proprio con la raccolta delle leges imperiali. Il lavoro compiuto in questo periodo risentì positivamente del coordinamento operato da Triboniano: il quaestor sacri palatii era infatti un esperto e colto giurista, perfettamente a suo agio anche nel maneggiare leggi vecchie di secoli. Il "secondo periodo", dal 535 al 542, fu caratterizzato da un'intensa legislazione "corrente" (per mezzo delle Novellae constitutiones, che raccolsero i frutti dell'intensa stagione legislativa tra il 535 e il 542).[38] Il "terzo periodo", infine, dal 543 al 565, anche per la minore, o diversa, qualità dei collaboratori, vide l'attività legislativa (sempre per mezzo di Novellae) farsi sempre più scarsa e scadente.[38] Il Corpus Iuris Civilis fu formato da tali opere, nelle quali le nuove leggi si armonizzavano con quelle antiche. Nel primo periodo furono scritte in latino, lingua ufficiale dell'impero ma scarsamente conosciuto dai cittadini delle province orientali (anche se lo stesso Giustiniano era di lingua, cultura e mentalità latine e parlava con difficoltà il greco). Il latino infatti era sostanzialmente la lingua dell'amministrazione, della giustizia e dell'esercito, mentre le principali lingue d'uso nella parte orientale dell'impero erano il greco e, in minor misura, il copto, l'aramaico e l'armeno (rispettivamente in Egitto, Siria e alcune regioni dell'Asia Minore).[39] Se il dominio romano, repubblicano prima e imperiale dopo, era riuscito ad imporre con successo il proprio diritto e le proprie istituzioni politiche e militari, il sostrato culturale delle province orientali dell'impero continuò ad essere improntato in larga misura a forme e moduli di tipo tardo-ellenistico. Per ovviare a ciò, le opere successive (dalle Novellae in poi) vennero redatte pragmaticamente in greco, lingua più utilizzata dal popolo e dalla pratica amministrativa quotidiana.[35] Il Corpus forma la base della giurisprudenza latina (compreso il diritto canonico: ecclesia vivit lege romana) e, per gli storici, fornisce una preziosa visione dall'interno, delle preoccupazioni e delle attività dei resti dell'Impero Romano. Raccoglie assieme le molte fonti in cui le leges (leggi) e le altre regole erano espresse o pubblicate: leggi vere e proprie, senatoconsulti (senatusconsulta), decreti imperiali, rescritti, opinioni e interpretazioni dei giuristi (responsa prudentium). Il Corpus viene definito un "monumento alla sapienza giuridica di Roma"[40] e fu alla base della rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche in Europa, tanto che ancora oggi costituisce il fondamento di molti sistemi giuridici nazionali nel mondo. Anche in campo amministrativo la sua attività fu notevole: dopo la rivolta di Nika iniziò a rinnovare l'impero coadiuvato dal prefetto Giovanni di Cappadocia, accorpando province, potenziando l'accentramento amministrativo e iniziando una rigorosa politica finanziaria improntata al taglio degli sprechi e al recupero sistematico delle somme dovute allo Stato. Le attività militari e le campagne di Belisario[modifica | modifica wikitesto] Mappa dell'impero bizantino: Prima dell'avvento di Giustiniano I (527). Dopo la sua morte (565). Come i suoi predecessori romani e successori bizantini, Giustiniano si impegnò in guerra contro la Persia della dinastia sasanide. Comunque, le sue principali ambizioni militari si concentrarono sul Mediterraneo occidentale, dove il suo generale Belisario guidò la riconquista di parti del territorio del vecchio Impero Romano. Belisario ottenne questo compito come ricompensa per esser riuscito a sedare la rivolta di Nika, a Costantinopoli, nel gennaio del 532, nella quale fanatici della corsa con le bighe avevano costretto Giustiniano a dimettere l'impopolare Triboniano, e avevano tentato di rovesciare l'imperatore stesso. Guerre in Africa[modifica | modifica wikitesto] Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra vandalica e Prefettura del pretorio d'Africa. Nel 533 Giustiniano trovò un pretesto per dichiarare guerra ai Vandali: nel 530 il loro re Ilderico, di fede cattolica, era stato infatti rovesciato dal cugino (di fede ariana) Gelimero, che assunse il potere. Giustiniano, in buoni rapporti con Ilderico, intimò a Gelimero di restituire il trono al legittimo re, ma al suo rifiuto, dichiarò guerra ai Vandali. Belisario ottenne il comando della spedizione e, arrivato in Africa, riuscì a infliggere una seria sconfitta alla popolazione barbarica presso Ad Decimum, poco distante da Cartagine.[41] Due giorni dopo Belisario entrò a Cartagine e, infliggendo un'altra sconfitta ai Vandali a Tricamaro, li costrinse infine alla resa.[41] L'Impero ritornò così in possesso dell'Africa vandalica, Sardegna, Corsica e Isole Baleari.[41] L'avorio Barberini, raffigurante probabilmente Giustiniano trionfante sul nemico persiano. Immediatamente dopo la vittoria, nell'aprile 534, l'imperatore Giustiniano promulgò una legge riguardante l'organizzazione amministrativa dei nuovi territori. L'Augusto ripristinò la vecchia amministrazione, ma promosse il governatore a Cartagine a prefetto del pretorio: « Dall'anzidetta città , con l'aiuto di Dio, sette province con i loro magistrati verranno controllate, di cui Tingi, Cartagine, Byzacium e Tripoli, in precedenza sotto la giurisdizione di un proconsole, saranno governate da consolari; mentre le altre, cioè la Numidia, Mauritania e Sardegna saranno, con l'aiuto di Dio, governate da governatori. » (Codex Iustinianus, I.XXVII) L'intento di Giustiniano fu, sostiene lo storico J.B. Bury, quello di «cancellare ogni traccia della conquista vandala, come se non ci fosse mai stata».[42] Il cattolicesimo ritornò ad essere la religione ufficiale delle nuove province e gli Ariani vennero perseguitati. Anche la proprietà terriera venne riportata a com'era prima della conquista vandalica, ma la scarsità di validi titoli di proprietà dopo 100 anni di dominio vandalico provocarono un caos amministrativo e giuridico. A capo dell'amministrazione militare venne posto il magister militum Africae, con un subordinato magister peditum e quattro comandi regionali di frontiera (Tripolitania, Byzacena, Numidia e Mauretania) sotto il comando di un dux. Questa organizzazione venne introdotta gradualmente, poiché a quel tempo i Romani erano impegnati nella lotta contro i Mauri.[43] Le campagne successive in Africa, volte soprattutto a difendere i territori bizantini dagli attacchi dei Mauri, culminarono nel 548 in una campagna vittoriosa di Giovanni Troglita, cantata da Corippo nel poema Ioanneide. Guerre in Italia[modifica | modifica wikitesto] Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra gotica (535-553). Giustiniano trovò quindi il pretesto per dichiarare guerra agli Ostrogoti, che governavano a quei tempi l'Italia, nell'assassinio della reggente Amalasunta compiuto da Teodato per impadronirsi del trono. Secondo la Storia segreta - fonte non completamente attendibile in quanto un libello diffamatorio contro Giustiniano - ad ordire l'assassinio di Amalasunta sarebbe stata addirittura Teodora.[44] L'imperatore affidò l'impresa di riconquistare l'Italia a Belisario, console per l'anno 535, mentre Mundo ricevette l'incarico di invadere la Dalmazia. Presunto ritratto di Belisario in un mosaico della Basilica di San Vitale a Ravenna Belisario avanzò in Sicilia, conquistandola in breve tempo, mentre contemporaneamente Mundo riuscì a soggiogare la Dalmazia. Allarmato per i primi successi bizantini, il re goto Teodato avviò le trattative di pace con Giustiniano promettendo di consegnare il regno ostrogoto all'Impero in cambio di una pensione annuale.[45] Tuttavia una vittoria in Dalmazia dei Goti sulle truppe imperiali fece recuperare le speranze a Teodato che cambiò idea, decretando il proseguimento delle ostilità .[46] Nel 536 Belisario attraversò lo stretto di Messina, sottomise senza trovare opposizione l'Italia meridionale e si diresse a Roma, che conquistò. Nel frattempo i Goti, insoddisfatti della passività di Teodato, lo uccisero per eleggere re Vitige, il quale preparò la controffensiva gota che si manifestò nell'assedio di Roma protrattosi per un anno. Durante l'assedio di Roma del 537-538, l'assediato Belisario chiese, ottenendoli, nuovi rinforzi all'imperatore. Il comandante dei rinforzi, l'eunuco Narsete, non era tuttavia disposto ad obbedire agli ordini di Belisario e, sentendosi legittimato dalla discrezionalità accordatagli da Giustiniano, intraprese la conquista dell'Emilia nonostante il disaccordo di Belisario.[47] La conseguente disunione dell'esercito imperiale, diviso in una fazione fedele a Belisario e l'altra al seguito di Narsete, comportò la riconquista gota di Milano, in seguito alla quale Giustiniano richiamò Narsete a Costantinopoli. Senza più Narsete ad ostacolarlo, Belisario poté riprendere la riconquista dell'Italia, impadronendosi con l'inganno della capitale dei Goti Ravenna e facendo prigioniero il re Vitige, che portò con sé a Costantinopoli. Belisario era in disaccordo con Giustiniano sul che fare dei territori riconquistati: Giustiniano avrebbe voluto lasciare che gli Ostrogoti governassero uno Stato a nord del Po, mentre Belisario avrebbe preferito fare dell'intera Italia un territorio imperiale romano-bizantino.[48] Deluso da Belisario, Giustiniano inviò quest'ultimo ad oriente, a difendere l'impero dai rinnovati attacchi dei Persiani. Il Colosso di Barletta: secondo alcune teorie rappresenterebbe Giustiniano I. Dopo aver stabilito una nuova pace sul fronte orientale, Belisario fece ritorno in Italia (544), dove gli Ostrogoti, condotti dal loro nuovo re Totila, avevano recuperato terreno. Lo scarso numero di truppe fornitegli dall'imperatore impedì però al generale bizantino di contrastare efficacemente Totila: per tale motivo, egli non osò mai avventurarsi nell'interno della penisola, ma piuttosto preferì spostamenti marittimi navigando lungo le coste.[49] Nonostante tali difficoltà , Belisario riuscì a riconquistare Roma, riuscendo perfino a resistere ad un tentativo di riconquista della città da parte di Totila. Infine, Giustiniano, su richiesta della consorte di Belisario, lo richiamò a Costantinopoli, dove lo accolse con grandi onori (548). Dopo la partenza di Belisario dall'Italia, Totila riconquistò Roma e altre città , giungendo a invadere persino la Sicilia e la Sardegna. Giustiniano, a questo punto, inviò in Italia il generale eunuco Narsete per cercare di concludere una volta per tutte la guerra gotica. Narsete, supportato da truppe adeguate allo scopo, riuscì a sconfiggere definitivamente i Goti (uccidendo prima Totila e poi il suo successore Teia), e a conquistare tutta l'Italia (553); la conquista non si rivelò però salda, dal momento che la parte settentrionale della penisola venne invasa dai Franchi e Alamanni mentre alcune fortezze gote ancora resistevano. Narsete riuscì a superare anche questi nuovi ostacoli, e nel 555 l'ultima fortezza gota a sud del Po capitolò.[50] Gli anni successivi furono dedicati alla conquista delle città a nord del Po rimaste in mano gota e franca: nel 559 Milano e la Venezia risultavano già essere in mano imperiale, mentre nel 562, con la resa di Brescia e Verona, la conquista dell'Italia poté dirsi completa.[50] Ma le conquiste di Narsete non furono durature e, a causa dello spopolamento e delle frequenti razzie di Franchi e Alamanni, non si ebbe mai un'ordinata gestione dei territori recuperati. Con la Prammatica Sanzione del 554 la legislazione imperiale fu estesa all'Italia. La Dalmazia entrò a far parte della prefettura del pretorio dell'Illirico mentre la Sicilia non entrò a far parte di nessuna prefettura. La prefettura del pretorio d'Italia fu ristretta quindi alla penisola italiana, escludendo le isole.[51] La massima autorità civile era in teoria il prefetto del pretorio risiedente a Ravenna ma nei fatti l'autorità civile fu sempre limitata fin dal principio da quella militare. Fu infatti il generalissimo (strategos autokrator) Narsete ad assumere il governo effettivo dell'Italia. Pare che la prefettura d'Italia fu suddivisa in due diocesi, come nel tardo impero romano.[51] L'Imperatore, mostrando soddisfazione per la fine del "tiranno Totila", annullò tutti i provvedimenti di quel re goto, confermando però le leggi dei suoi predecessori: questi provvedimenti erano volti ad annullare la riforma sociale di Totila, che aveva colpito gli interessi della classe senatoria con confische e l'affrancamento dei servi, e restaurare l'ordine preesistente alla guerra.[52] Inoltre promise a Roma fondi per la ricostruzione dei danni della guerra, e tentò di porre fine agli abusi fiscali compiuti dai suoi sottoposti nella penisola,[53] ma questi provvedimenti non ebbero molto effetto. Anche se alcune fonti contemporanee propagandistiche parlano di un Italia florida e rinata dopo la conclusione del conflitto,[53] la realtà doveva essere ben diversa: la guerra aveva infatti inflitto all'Italia danni che non fu possibile cancellare in breve tempo, e, anche se Narsete e i suoi sottoposti ricostruirono numerose città distrutte dai Goti,[54] la situazione dell'Italia era comunque disastrosa, dato che, come ammise in due lettere Papa Pelagio, le campagne erano talmente devastate da essere irrecuperabili e la Chiesa riceveva proventi solo dalle isole o da zone esterne alla Penisola;[55] inoltre i tentativi di Giustiniano di porre fine agli abusi nella riscossione delle tasse in Italia non ebbero effetto, poiché ancora esistevano, mentre il senato romano entrò in una crisi irreversibile e scomparve agli inizi del VII secolo.[56] La conquista dell'Italia fu tuttavia effimera: infatti tre anni dopo la morte di Giustiniano, nel 568, i Longobardi invasero la penisola e in pochi anni riuscirono ad occuparne circa due terzi. Conquista della Spagna meridionale[modifica | modifica wikitesto] Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Spagna bizantina. Nel corso del 551 il regno visigoto fu colpito da una grave guerra civile: un pretendente al trono, Atanagildo, era infatti insorto contro il re legittimo Agila I, chiedendo aiuti militari proprio all'Impero romano d'Oriente per rovesciare il legittimo sovrano; Giustiniano decise di accettare la richiesta di aiuto giuntagli da Atanagildo, intendendo approfittare della guerra civile tra i Visigoti per strappare loro territori in Spagna meridionale; affidò il comando della spedizione a Liberio, che invase la Spagna meridionale in supporto di Atanagildo; sullo svolgimento della guerra le cronache dell'epoca non sono molto dettagliate, ma intorno al 555 la guerra civile terminò con l'uccisione di Agila e l'ascesa al trono di Atanagildo, che però non riuscì a ottenere il ritiro delle truppe imperiali dalle città da esse occupate.[57] I territori occupati dalle truppe imperiali (che comprendevano parte della Spagna meridionale) formarono la nuova provincia di Spania, che resistette agli assalti visigoti fino al 624, anno in cui i Bizantini furono espulsi dalla Spagna. Sembra che i Bizantini abbiano occupato parte della Spagna, non solo per portare avanti il progetto di restauratio imperii giustinianea, ma anche per formare una zona "cuscinetto" (la Spagna bizantina appunto) per impedire ai Visigoti di invadere l'Africa bizantina. Il rovescio della medaglia: le guerre in Oriente e nei Balcani[modifica | modifica wikitesto] Gli Imperi romano-orientale e sasanide sotto il regno di Giustiniano Impero romano d'Oriente Conquiste di Giustiniano Impero sasanide Vassalli dei Sasanidi Lo squilibrio creato a oriente dalle campagne in Europa occidentale fu subito colto dai Persiani, che tra il 540 e il 562 invasero l'Armenia e la Siria, espugnando anche la metropoli di Antiochia la cui popolazione venne deportata in Persia.[58] Giustiniano fu costretto a richiamare Belisario a Costantinopoli per inviarlo contro i Persiani nel 541 ma il generale, pur ottenendo qualche successo, non riuscì a ottenere una vittoria definitiva.[59] Nel 545 Giustiniano riuscì a ottenere una tregua a caro prezzo, non valida tuttavia per la Lazica, dove la guerra riprese con intensità nel 549, dopo la rivolta della popolazione locale, oppressa dai Persiani, che chiese aiuto a Bisanzio. Il conflitto che ne risultò, detta guerra lazica, durò fino al 557 ma fu solo nel 561 che venne firmata la pace con la quale i Bizantini riottenevano il controllo della regione ma al prezzo di un tributo da versare ai Persiani.[60] Inoltre anche le frontiere balcaniche erano messe a rischio dalle popolazioni di Slavi che, nonostante la robustezza delle fortezze imperiali, sulle quali Giustiniano aveva investito molti soldi, invadevano quasi ogni anno i Balcani massacrando e saccheggiando le province bizantine senza incontrare quasi alcuna resistenza.[61] Infatti, a causa delle campagne in Occidente, le frontiere balcaniche furono sguarnite di truppe e di ciò ne approfittarono i Barbari che nel 559 giunsero a minacciare direttamente Costantinopoli e furono respinti solo per merito di Belisario.[62] Della politica espansionistica di Giustiniano ne fecero dunque le spese gli abitanti dell'Impero come afferma Procopio nella Storia segreta: « [...]Nessuno, mi pare, se non Dio, potrebbe riferire con esattezza l'ammontare delle vittime sue: si conterebbe prima quanti granelli ha la sabbia, che non le vittime di questo imperatore. A una considerazione sommaria della terra ch'egli lasciò deserta d'abitanti, direi che siano morti milioni e milioni di persone. La sconfinata Libia si era svuotata a tal punto, che anche affrontando un lungo cammino era arduo imbattersi in anima viva. [...] Insomma, a stimar 5 milioni i morti in Libia, non si sarebbe ancora al livello dei fatti. [...] Incapace di lasciare le cose come stavano, era nato per rovesciare tutto nel caos. L'Italia, che è almeno tre volte la Libia, divenne ovunque un deserto, ancor peggio dell'altra. [...] Prima della guerra, il regno dei Goti andava dalla Gallia ai confini della Dacia, dove si trova la città di Sirmio; quando l'esercito romano giunse in Italia, erano i Germani a detenere la maggior parte e della Gallia e del territorio dei Veneti; quanto a Sirmio e ai suoi dintorni, è nelle mani dei Gepidi; ma tutto, a dirla in breve, è un assoluto deserto. Alcuni erano stati uccisi dalla guerra, altri dalla malattia e dalla fame, consueto corredo della guerra. Dacché Giustiniano ascese al trono, l'Illiria con la Tracia tutta subì pressoché annualmente le scorrerie di Unni, Sclaveni e Anti: alla popolazione furono inflitti scempi fatali. Ritengo che ad ogni loro invasione fossero più di duecentomila i Romani che finivano per morire, o in schiavitù. Il risultato fu che tutta quella regione divenne una vera desolazione scitica. Tali gli esiti della guerra in Libia e in Europa. In tutto questo periodo, i Saraceni compirono continue scorrerie contro i Romani in Oriente, dall'Egitto ai confini della Persia; scorrerie tanto devastanti che tutta quell'area ne restò pressoché spopolata. Né ritengo sia possibile, a chiunque indaghi, appurare il numero di quanti così persero la vita. I Persiani, con Cosroe, attaccarono per tre volte le altre zone dell'impero; distrussero le città e dei prigionieri catturati nelle città conquistate e nelle restanti aree, parte ne uccisero, parte ne portarono via con sé. In qualunque terra facessero irruzione, la lasciavano spopolata.[...] » (Procopio, Storia Segreta, 18.) Persecuzioni delle religioni non cristiane[modifica | modifica wikitesto] Giustiniano I ricostruì in modo grandioso la basilica di Santa Sofia, facendola diventare la più grande chiesa della cristianità . Egli dopo dirà : "Salomone ti ho superato". La politica religiosa di Giustiniano rifletteva la convinzione imperiale che l'unità dell'impero presupponesse incondizionatamente l'unità della fede; e con lui sembrò un dato di fatto che questa fede potesse essere solo l'ortodossia. Gli appartenenti ad un credo differente dovettero riconoscere che il processo iniziato a partire da Costantino II sarebbe continuato con vigore. Il Codice Giustiniano conteneva due statuti (Cod., I., xi. 9 e 10) i quali decretavano la totale distruzione dell'Ellenismo, anche nella vita civile; queste disposizioni vennero attuate con zelo. Le fonti contemporanee (Giovanni Malala, Teofane Confessore, Giovanni di Efeso) ci parlano di gravi persecuzioni, anche di uomini altolocati. Forse, l'evento più degno di nota avvenne nel 529, quando gli insegnamenti dell'Accademia di Atene di Platone vennero posti sotto il controllo dello Stato per ordine di Giustiniano, soffocando in pratica questa scuola di formazione dell'ellenismo. Il Paganesimo venne soppresso attivamente. Solo in Asia Minore, Giovanni di Efeso sostenne di aver convertito 70.000 pagani.[63] Altre popolazioni accettarono la cristianità : gli Eruli,[64] gli Unni che dimoravano nei pressi del Don[65], gli Abasgi[66] e gli Tzani[67] in Caucasia. L'adorazione di Amon ad Augila, nel deserto libico,[68] venne abolita; così come i resti del culto di Iside sull'isola di Philae, sulle prime cataratte del Nilo.[69] Il Presbitero Giuliano[70] e il Vescovo Longino[71] condussero una missione tra i Nabatei e Giustiniano tentò di rafforzare la cristianità nello Yemen inviandovi un ecclesiastico dall'Egitto.[72] Anche gli Ebrei soffrirono; non solo le autorità restrinsero i loro diritti civili,[73] e minacciarono i loro privilegi religiosi;[74] ma l'imperatore interferì negli affari interni della sinagoga,[75] vietando ad esempio l'uso della lingua ebraica nel culto. I recalcitranti vennero minacciati con punizioni corporali, esilio e perdita delle proprietà . Gli ebrei di Borium, non lontano dalla Syrtis Major, che resistettero a Belisario nella sua campagna contro i Vandali, dovettero abbracciare la cristianità ; la loro sinagoga divenne una chiesa.[76] La repressione dei Samaritani[modifica | modifica wikitesto] L'imperatore ebbe molti problemi con i Samaritani, considerati refrattari alla cristianità e ripetutamente in insurrezione. Questo gruppo etnico religioso, che alle soglie dei VI secolo era divenuto dominante in Samaria, era avversato dai cristiani e anche dagli Ebrei. In quanto di religione non accettabile, essi subirono le stesse restrizioni di diritti civili subite dagli eretici. Una prima rivolta samaritana scoppiò nel 529, a causa dell'usanza da parte dei bambini cristiani di lanciare sassi contro le sinagoghe dei Samaritani dopo la messa della domenica; i Samaritani, che in genere sopportavano questa usanza, in quell'occasione reagirono rivoltandosi e massacrando la popolazione cristiana; nominarono successivamente imperatore un brigante di nome Giuliano, ma la loro rivolta venne rapidamente repressa nel sangue.[77] I superstiti della rivolta tentarono senza successo di consegnare la Palestina ai Persiani (con cui l'Impero era in guerra) l'anno successivo. Giustiniano punì i Samaritani con una legge del 531 che ordinava la distruzione delle sinagoghe samaritane e li privava del diritto di lasciare in eredità i propri beni a meno che gli eredi non fossero cristiani ortodossi. Successivamente, nel 551, l'Imperatore, dopo aver avuto dal vescovo di Cesarea Sergio assicurazioni che la conversione dei Samaritani era a un buon punto e sarebbero rimasti tranquilli, rimosse con la legge Novella 129 alcune restrizioni civili che gravavano sui Samaritani tra cui il divieto di lasciare in eredità i loro beni ad altri samaritani (anche se nel caso uno degli eredi fosse stato cristiano ortodosso questi avrebbe ereditato tutto).[78] Alla metà dell'estate del 556, tuttavia, scoppiò la seconda rivolta samaritana. I Samaritani, che erano già stati decimati circa tre decenni prima, insorgevano in Cesarea, uniti questa volta ad alcuni alleati Ebrei. Anche questa rivolta fu annientata senza pietà .[78] Le persecuzioni dei Manichei[modifica | modifica wikitesto] L'uniformità della politica di Giustiniano significò che anche i Manichei (che credevano in una religione dualista basata sulla Luce e le Tenebre) soffrirono dure persecuzioni, sperimentando sia l'esilio che la minaccia della pena capitale.[73] A Costantinopoli, in un'occasione, molti manichei, dopo una dura ma manipolata inquisizione, vennero giustiziati alla presenza di Giustiniano in persona: alcuni sul rogo, altri per affogamento.[79] Politica ecclesiastica[modifica | modifica wikitesto] Ricostruzione della colonna di Giustiniano I di Bisanzio a Costantinopoli. (Il disegno è però errato poiché la colonna non era coclide, ovvero era priva di fregi) Come per l'amministrazione secolare, il dispotismo apparve anche nella politica ecclesiastica dell'imperatore. Egli regolava tutto, sia nella religione che nella legge. Agli inizi del suo regno, ritenne appropriato promulgare per legge il suo credo nella Trinità e nell'Incarnazione; e di minacciare tutti gli eretici con delle punizioni.[80]; dove successivamente dichiarava che aveva stabilito di privare tutti i disturbatori dell'ortodossia dell'opportunità , per tale offesa, di un giusto processo di legge[81] Giustiniano rese il credo niceno-costantinopolitano l'unico simbolo della Chiesa[82] e concesse valore legale ai canoni dei quattro concili ecumenici.[83] I vescovi che parteciparono al Secondo concilio di Costantinopoli del 553, riconobbero che non poteva essere fatto niente nella Chiesa, che fosse contrario alla volontà e agli ordini dell'imperatore;[84] mentre, da parte sua, l'imperatore, nel caso del Patriarca Antimo, rafforzò il bando della Chiesa con la proscrizione temporale.[85] Diversi vescovi dovettero subire l'ira del tiranno. D'altra parte è vero che non negò alcuna opportunità per assicurare i diritti della Chiesa e del clero e per proteggere e favorire il monachesimo. In realtà , se il carattere dispotico delle sue misure non fosse stato così discutibile, si potrebbe essere tentati di chiamarlo un padre della Chiesa. Sia il Codex che le Novellae contengono molti decreti riguardanti donazioni, fondazioni, e l'amministrazione della proprietà ecclesiastica; elezioni e diritti di vescovi, sacerdoti e abati; vita monastica, obblighi residenziali del clero, condotta del servizio divino, giurisdizione episcopale, ecc. Giustiniano inoltre ricostruì la Chiesa di Hagia Sophia, il cui sito originale era stato distrutto durante la rivolta Nika. La nuova Hagia Sophia, con le sue numerose cappelle e sacrari, la cupola ottagonale dorata, e i mosaici, divenne il centro e il monumento più visibile del cristianesimo ortodosso a Costantinopoli. Relazioni con Roma[modifica | modifica wikitesto] Dalla metà del V secolo in poi, compiti sempre più ardui dovettero essere affrontati dagli imperatori d'oriente, nella provincia della gestione ecclesiastica. I radicali di tutte le parti sentivano la costante repulsione per il credo che era stato adottato dal concilio di Calcedonia, con lo scopo di mediare tra le parti dogmatiche. La lettera di Papa Leone I a Flaviano di Costantinopoli, ad oriente veniva ampiamente considerata come opera di Satana, quindi nessuno si curava di dare ascolto a ciò che proveniva dalla Chiesa di Roma. Gli imperatori, comunque, dovevano lottare con un duplice problema. In primo luogo avevano una politica di preservare l'unione tra Oriente e Occidente, tra Bisanzio e Roma; questo rimaneva possibile solo se non si discostavano dalla linea definita a Calcedonia. In secondo luogo, le fazioni ad oriente, che erano divenute inquiete e disaffezionate a causa di Calcedonia, richiedevano di essere tenute sotto controllo e pacificate. Questo problema si dimostrò il più difficile, poiché i gruppi dissidenti ad Oriente, eccedevano il partito che appoggiava Calcedonia, sia in termini di numeri, sia di abilità intellettuale. Il corso degli eventi dimostrò l'incompatibilità dei due obbiettivi: chiunque sceglieva Roma e l'Occidente doveva rinunciare all'Oriente e viceversa.[86] Giustiniano entrò nell'arena dello statismo ecclesiastico poco dopo l'ascesa dello zio, nel 518, ponendo fine allo scisma acaciano, che durava, tra Roma e Bisanzio, sin dal 483. I vescovi monofisiti vennero privati della loro carica ed esiliati, mentre le comunità monastiche eretiche in Oriente vennero disperse e i loro conventi chiusi. Il riconoscimento della sede romana come della più alta autorità ecclesiastica,[87] rimase la chiave di volta della sua politica occidentale, nonostante suonasse offensiva a molti ad oriente. Comunque Giustiniano, una volta salito al trono, non rinunciò a trovare una formula teologica compromissoria che potesse andare bene sia per i Calcedoniani che per i monofisiti moderati. Nel 529 permise ai vescovi esiliati di ritornare, e li invitò a partecipare a un'assemblea che avrebbe dovuto risolvere la questione. L'assemblea, tenutasi nel 531, non portò però a risultati.[88] Giustiniano però non desistette dal tentativo di conciliazione e trovò una possibile formula teologica compromissoria nella dottrina teopaschita. All'inizio era dell'opinione che la questione rivolgeva attorno a parole di poca importanza. Per gradi comunque, Giustiniano venne a comprendere che la formula in questione non solo appariva ortodossa, ma poteva anche servire come misura conciliatoria nei confronti dei monofisiti, e fece un vano tentativo per usarla nella conferenza religiosa con i seguaci di Severo di Antiochia, nel 533. Ancora, Giustiniano rivide la stessa con approvazione nell'editto religioso del 15 marzo 533 (Cod., L, i. 6), e si congratulò con sé stesso poiché Papa Giovanni II aveva ammesso l'ortodossia della confessione imperiale.[89] Questo tentativo di compromesso non toccava però la questione principale e non ebbe grande successo. L'Imperatrice Teodora era una convinta monofisita e influenzò la politica del marito. Nei primi anni della guerra gotica combattuta contro i Goti per la riconquista dell'Italia, l'Imperatore, evidentemente per mantenere il favore degli italici di fede calcedoniana, abbandonò ogni tentativo di compromesso avviando una nuova persecuzione contro i monofisiti.[90] Nel 536, su pressioni di Papa Agapito I, il patriarca di Costantinopoli Antimo, monofisita, venne deposto e sostituito dal calcedoniano Mena, che nel maggio dello stesso anno convocò un sinodo che condannò gli scritti dei patriarchi monofisiti Antimo e Severo (eletti per volere di Teodora). Gli atti del sinodo vennero poi ratificati con un editto dall'Imperatore, che proibì con la stessa legge ai deposti patriarchi Antimo e Severo di risiedere nelle grandi città .[91] L'Imperatrice Teodora, convinta monofisita, allora, si oppose alla politica ostile del marito ponendo sotto la sua protezione i membri più eminenti della Chiesa monofisita e tramando per porre sul seggio papale un pontefice che appoggiasse il monofisismo. Si mise in contatto con l'apocrisario papale Vigilio, promettendogli che avrebbe fatto in modo che divenisse Papa ma solo a condizione che avrebbe ripudiato il Concilio di Calcedonia e avrebbe ristabilito Antimo come patriarca. Nello stesso tempo ordinò al generale Belisario e a sua moglie Antonina, in quel momento a Roma (che avevano strappato ai Goti), di deporre con l'accusa di tradimento Papa Silverio. Dopo la deposizione di detto papa, Teodora fece in modo che il suo successore fosse proprio Vigilio. Questi però non mantenne la promessa fatta a Teodora per ottenere il papato, e si mantenne ligio all'ortodossia.[92] Successivamente scoppiò la controversia dei Tre Capitoli, che significò nuovi contrasti con Roma. L'Imperatore fu infatti convinto che, per ottenere la conciliazione con i monofisiti, bisognasse condannare alcuni scritti contro il monofisismo, ovvero quelli di Teodoreto di Cirro, di Iba di Edessa e di Teodoro di Mopsuestia, in quanto, pur essendo stati accettati dal concilio di Calcedonia, erano accusati dai monofisiti di essere nestoriani. Seppur con iniziali esitazioni, i patriarchi orientali approvarono la condanna dei Tre Capitoli, ma a condizione che anche il Papa fosse d'accordo.[93] La condanna di questi scritti non fu però accettata in Occidente, e di fronte al silenzio papale, Giustiniano passò alle maniere forti deportando Papa Vigilio a Costantinopoli per costringerlo ad approvare l'editto dei Tre Capitoli. Nel 548 infine, Vigilio, cedendo alle pressioni dell'Imperatore, approvò la condanna seppur con riserve, anche se la protesta dei vescovi occidentali (che minacciavano lo scisma) lo spinse a tornare sui propri passi, riuscendo a persuadere l'Imperatore a convocare un concilio che ponesse fine alla questione evitando al contempo un possibile scisma. Prima di convocare tale concilio, però, l'Imperatore si volle assicurare che nulla andasse contro i suoi piani e, a tal fine, depose i patriarchi di Alessandria e di Gerusalemme perché rei di non aver approvato la condanna. Nel 551, infine, emise un nuovo editto dei Tre Capitoli, che però non ricevette l'approvazione del Papa, il quale per questo motivo subì un tentativo di aggressione da parte della polizia imperiale e venne trattato per i successivi due anni come un prigioniero.[94] Nel 553, infine, si tenne il concilio di Costantinopoli II, che, in assenza del papa (che si era rifiutato di prendere parte al concilio), sancì la condanna dei Tre Capitoli. Nella condanna dei tre capitoli Giustiniano cercò di soddisfare sia l'Oriente che l'Occidente, ma finì col non soddisfare nessuno. Anche se il Papa acconsentì alla condanna, l'Occidente credeva che l'imperatore avesse agito in maniera contraria ai decreti di Calcedonia; e anche se molti delegati ad Oriente risultarono asserviti a Giustiniano, molti altri, specialmente i monofisiti, rimasero insoddisfatti. Così l'imperatore sprecò i suoi sforzi per un compito impossibile; il più amaro per lui poiché durante i suoi ultimi anni ebbe grande interesse per le questioni teologiche. Scritti religiosi[modifica | modifica wikitesto] Mezzo follis di Giustiniano I. Giustiniano mise mano personalmente a manifesti teologici che portò avanti come imperatore; anche se, in ragione della posizione dell'autore, diventa difficile discernere se i documenti attualmente attribuiti al suo nome provenivano anche dalla sua penna. Ad eccezione delle lettere ai Papi Ormisda, Giovanni II, Agapito I, e Vigilio, e a varie altre composizioni (raccolte in MPL, lxiii., lxvi. e lxix.), i seguenti documenti sono degni di nota (trovabili tutti in MPG, lxxxvi. 1, pp. 945-1152): L'editto sulle eterodossie di Origene, del 543 o 544; richiami ai vescovi riuniti a Costantinopoli in occasione del concilio del 553, con riferimento alla loro seduta di giudizio degli errori circolanti tra i seguaci monastici di Origene (Origenisti) a Gerusalemme; un editto sulla controversia dei Tre Capitoli, probabilmente emesso nel 551; un discorso al concilio del 553, riguardante la teologia antiochena; un documento, probabilmente antedatato al 550, indirizzato ad alcuni difensori innominati dei tre capitoli; uno scritto di scomunica contro Antimo, Severo e compagni; un appello ai monaci egiziani, con una confutazione degli errori monofisiti; un frammento di un documento, inviato al Patriarca Zoilo di Alessandria. La teologia sostenuta in questi scritti concordava, in generale, con quella di Leonzio di Bisanzio; in quanto mirava alla soluzione finale del problema, interpretando il simbolo calcedoniano in termini della teologia di Cirillo di Alessandria. Due punti si devono notare al riguardo; la furbizia con cui l'imperatore, o i suoi rappresentanti, riuscirono a difendere la reputazione e la teologia di Cirillo e l'antagonismo con Origene, un chiaro segno della caratteristica mancanza di inclinazione di quell'epoca per il pensiero indipendente, almeno tra personaggi influenti. Si deve anche menzionare l'Aftartodocetismo, una dottrina professata dall'imperatore verso la fine della sua vita. Evagrio riporta (e altre fonti confermano) che Giustiniano promulgò un editto nel quale dichiarava il corpo di Cristo incorruttibile | |
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| Da: Vertigo70. | 14/12/2017 12:46:42 |
| Corte Costituzionale Sentenza 23 maggio 2008, n. 169 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), promosso con ordinanza del 16 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Pisa nel procedimento civile vertente tra C. S. e C. C., iscritta al n. 586 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale ordinario di Pisa, nel corso del procedimento promosso con ricorso depositato in data 17 marzo 2007 per la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto tra il ricorrente e la resistente, ha sollevato, con l'ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), «nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi». Il giudice a quo riferisce che il Presidente del Tribunale di Pisa ha rilevato d'ufficio la incompetenza territoriale di detto Tribunale, la cui competenza per territorio non coincide con il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi, che è, come risulta dalle allegazioni delle parti, Napoli, mentre il ricorrente risiede attualmente in Misano Adriatico (Rimini) e la resistente, unitamente al figlio minore, in S. Giuliano Terme (Pisa). Aggiunge il rimettente che le parti hanno insistito per trattare la causa dinanzi al Tribunale di Pisa, e che il ricorrente ha eccepito la illegittimità costituzionale del censurato art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970, per violazione del diritto al giusto processo (art. 111 della Costituzione), del diritto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25 della Costituzione), del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione). Ciò posto, il Tribunale rimettente ritiene la questione di costituzionalità non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Osserva, al riguardo, il giudice a quo che la disposizione denunciata pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel procedimento, e che, di conseguenza, essa appare del tutto irragionevole, pregiudizievole per l'esercizio del diritto di difesa e suscettibile di creare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferimento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune) e dall'art. 709-ter, primo comma, del codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori). Né, ad avviso del giudice a quo, stante il chiaro ed inequivoco tenore letterale della disposizione in questione, vi sarebbe spazio per una diversa interpretazione costituzionalmente orientata. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale ordinario di Pisa, investito di un ricorso per la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), «nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi», per violazione: a) dell'art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della irragionevolezza della disposizione, la quale pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel procedimento, sia sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferimento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune) e dall'art. 709-ter, primo comma, del codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori); b) dell'art. 24 della Costituzione, per il pregiudizio all'esercizio del diritto di difesa. 2. - La questione sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione è fondata. 2.1. - L'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, ha sostituito, a decorrere dal 1° marzo 2006, l'art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 già riportato, fissando, tra l'altro, nuove regole per la individuazione del giudice territorialmente competente in ordine ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Il richiamato art 4, primo comma, della legge n. 898 del 1970, nella sua formulazione originaria, individuava, quale foro dei procedimenti di cui si tratta, il tribunale del luogo in cui il convenuto aveva la residenza, oppure, nel caso di irreperibilità o di residenza all'estero, quello del luogo di residenza del ricorrente. L'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nel sostituire l'intero art. 4 della legge n. 898 del 1970, aveva, poi, introdotto, quale criterio alternativo alla residenza quello del domicilio (del convenuto, come del ricorrente), contemplando, altresì, l'ipotesi di residenza all'estero di entrambi i coniugi e prevedendo, in tal caso, che la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio potesse essere proposta innanzi a qualunque tribunale della Repubblica. La novella del 2005 ha introdotto un diverso criterio, fissando quale foro competente il «tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi, ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio», e mantenendo, per il resto, gli altri criteri di competenza individuati dal richiamato art. 8 della legge n. 74 del 1987. I criteri di individuazione di tale competenza per territorio sono inderogabili e successivi, nel senso che non è consentito al ricorrente fare riferimento ad uno di essi se non nell'ipotesi in cui il precedente non ricorra. Pertanto, perché il ricorrente possa proporre la domanda innanzi al tribunale del luogo in cui il convenuto abbia residenza o domicilio, non è sufficiente che la residenza comune dei coniugi sia venuta meno, ma è necessario che essa non sia mai esistita, non potendosi interpretare l'espressione «in mancanza» come equivalente a quella «qualora sia successivamente venuta meno», sia perché vi osta il dato letterale, che allude, inequivocabilmente, ad una situazione mai realizzatasi, sia perché è pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che i coniugi possano anche non avere mai avuto una residenza comune - e questa è la fattispecie ipotizzata dal legislatore - dal momento che l'art. 144, primo comma, del codice civile, nel prevedere l'obbligo della fissazione della residenza della famiglia, non esclude che, in concreto, i coniugi, per motivi legittimi, possano non procedere a tale fissazione. Da quanto precede deriva che, qualora i coniugi abbiano avuto, per il passato, una residenza comune, occorre fare capo, ai fini della individuazione del giudice competente sulla domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, al tribunale del luogo ove detta residenza si trovava, e ciò anche nella ipotesi - ricorrente nella specie - che, al momento dell'introduzione del giudizio, nessuna delle parti abbia alcun rapporto con quel luogo. L'individuazione di tale criterio di competenza è manifestamente irragionevole, non sussistendo alcuna valida giustificazione della adozione dello stesso, ove si consideri che, in tema di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione - giudiziale o consensuale - sono stati autorizzati a vivere separatamente, con la conseguenza che, tenute presenti le condizioni per proporre la successiva domanda di divorzio, non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma. Seppure è vero che rientra nella discrezionalità del legislatore la determinazione della competenza territoriale, è però necessario che tale discrezionalità sia esercitata nel rispetto del criterio di ragionevolezza che, nella specie, risulta, per quanto esposto, palesemente violato. Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata limitatamente alle parole «del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,». L'accoglimento della questione in riferimento all'art. 3 della Costituzione comporta l'assorbimento della censura di incostituzionalità proposta con riferimento all'art. 24 della Costituzione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale) comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), limitatamente alle parole «del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA | |
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 12:50:18 |
| Quel povero sfigato posta sentenze a mio nome, come quest'ultima della Corte Costituzionale. Povero fallito morto di fame, mi fa pena. | |
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Da: sissigoR12 ![]() | 14/12/2017 12:53:02 |
| ok facciamo uno schema: quindi la domanda è infondata in fatto ed in diritto perchè la società beta è decaduta dalla possibilità di far valere il proprio diritto in giudizio per scadenza del termine semestrale previsto dalla norma? | |
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| Da: Vertigo70. | 14/12/2017 12:53:40 |
| La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d'Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l'assegno divorzile in quanto quest'ultima non aveva dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell'art. 384, 4° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell'art. 5, comma 6°, L.div. impone di individuare quale parametro per l'attribuzione dell'assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all'ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente. La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l'assegno, all'entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che - afferma la Corte - deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso. La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell'ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell'art. 5, comma 6, L.div. Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, "sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi «persone singole», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale", la Corte sottolinea come l'attribuzione dell'assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di "mezzi adeguati", rilevando gli ulteriori criteri enumerati all'art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno. In altri termini, il giudizio sull'assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur), dall'altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur). Il parametro di riferimento per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell'assegno dovrà , secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l'art. 337septies fa riferimento per l'individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l'art. 5 comma 6° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell'autoresponsabilità economica. Nella fase dell'accertamento dell'an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi propri e dell'impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all'autosufficienza e all'indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi. Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l'assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel: 1) possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari; 3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. In altre parole, solo l'ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all'assegno post-matrimoniale. Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente. Occorre innanzitutto chiedersi se la soglia della "autosufficienza economica" possa essere ritenuta coincidente con quella dei "mezzi atti a garantire un'esistenza autonoma e dignitosa" che la stessa Sezione Prima della Corte (C. 1652/1990) aveva già ritenuto costituire il parametro di riferimento per l'attribuzione dell'assegno di divorzio. In altri termini, occorre chiedersi se, in conformità del recente insegnamento della Corte, sia consentito fare riferimento alla normativa sociale e previdenziale per determinare in concreto quale sia la soglia dell'indipendenza economica. Questo sembra peraltro essere l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito che, proprio all'indomani della pubblicazione di Cass. n. 11504/17, ha individuato quale parametro la "capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)" indicando quale criterio, sia pur non esclusivo, "quello rappresentato dall'ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato - soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili". La base normativa del riferimento al parametro dell'indipendenza economica, peraltro, è stata individuata dalla recente sentenza della Corte nell'art. 337-septies, 1° comma, che prevede che possa essere disposto un assegno in favore dei figli maggiorenni, ove questi non siano "indipendenti economicamente". Secondo quanto affermato dalla Corte, in assenza di una definizione normativa della nozione di inadeguatezza dei mezzi, sarebbe infatti legittimo ricorrere all'analogia legis e dunque al parametro di cui all'art. 337septies,stante che in entrambi i casi - assegno post-matrimoniale e assegno a favore del figlio maggiorenne - si tratterebbe di "prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia". In altre parole, e proseguendo nel ragionamento della Corte: se il legislatore ha ritenuto corretta l'erogazione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne ove questo non sia economicamente indipendente, a maggior ragione tale dovrebbe essere il presupposto dell'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, tenuto altresì conto che, mentre la relazione filiale non cessa con la maggiore età , la relazione di coniugio cessa certamente con il divorzio. Principio regolatore di entrambe le ipotesi sarebbe pertanto il principio di autoresponsabilità , già evidenziato dalla giurisprudenza proprio in materia di mantenimento del figlio maggiorenne, laddove esclude il diritto all'assegno a favore del figlio, pur disoccupato, ma che rifiuti ingiustificatamente l'impegno lavorativo (C. 22.6.2016 n. 12952). L'accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l'autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne. In conclusione, se con riferimento al figlio maggiorenne la soglia dell'indipendenza economica non è uguale per tutti, e ciò, non in base al tenore di vita della famiglia, ma in base alle scelte compiute, altrettanto potrà essere con riferimento alla situazione dell'ex coniuge, al quale non necessariamente basterà disporre di quanto necessario per mantenersi nelle sue primarie esigenze di vita per dover essere considerato autosufficiente. Come per il figlio, potrà rilevare il contesto socio-economico, la professionalità acquisita o non acquisita sulla base di scelte concordate e condivise. Chiaro essendo che, se così non fosse, si arriverebbe all'illogica conclusione che se l'ex coniuge potesse disporre di un reddito minimo, nessuna considerazione potrebbe essere attribuita all'impegno familiare da questi speso, diversamente da quanto accadrebbe con riferimento a colui che di nulla disponga. Il che rischierebbe di indurre a ritenere preferibile l'assenza di redditi e di lavoro, proprio laddove viceversa si cerchi di incentivare la partecipazione di entrambi i coniugi al mondo del lavoro e di consentire un pieno sviluppo della personalità di entrambi. Anche la mera potenzialità del conseguimento dell'indipendenza economica potrà certamente essere sufficiente per escludere il diritto all'assegno post-matrimoniale, così come è stata riconosciuta sufficiente ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, ma dovrà essere vagliata attentamente sempre in relazione all'età , al titolo di studio, all'esperienza maturata, ma anche alle scelte condivise nel corso del matrimonio (non così ponderata sembra essere stata la decisione di Trib. Venezia 24.5.2017, laddove parrebbe essere stata attribuita rilevanza al semplice possesso della laurea in scienze politiche in capo al coniuge richiedente l'assegno). Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell'art. 9 L. div. E' noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l'implicita clausola rebus sic stantibus. L'art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi. La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull'evoluzione della situazione familiare, ossia sull'allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l'ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell'assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell'assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell'attribuzione dell'assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787). Occorre pertanto chiedersi se l'onerato della prestazione dell'assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell'indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l'assegno fosse stato pronunciato sulla base dell'accertamento dell'insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l'autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l'insegnamento di Cass. 11504/17? La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che - pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l'attribuzione dell'assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell'ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente. Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell'attribuzione dell'assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173). Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c'è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l'assegno possa essere richiesto attraverso l'instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell'art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l'ex coniuge possa richiedere l'assegno sul presupposto del venir meno di un'indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile. Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell'ex coniuge, cui fosse stato negato l'assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell'assegno, non così evidente l'accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell'assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne. E' noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l'indipendenza economica e l'abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell'art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all'art. 337septies, 1° comma. Proseguendo lungo la strada dell'analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all'assegno in capo all'ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all'ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell'art. 433 c.c. La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio. Come è stato autorevolmente rilevato, l'introduzione nell'ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L'abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l'art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l'operatività dell'abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l'art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l'istruzione sull'eventuale richiesta di addebito, sull'affidamento dei figli e sulle questioni economiche. Nell'ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione - peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) - la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all'affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all'assegnazione della casa familiare. Sul presupposto dell'identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che "dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio" (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell'opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002). Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull'attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt'ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all'attribuzione dell'assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all'assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull'assegno di divorzio, mancherebbe l'interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio. E' pur vero, peraltro, che l'eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell'assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l'art. 156, 6° comma, c.c. e non le misure previste dall'art. 8, 3° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990). D'altro canto, l'assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l'opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l'assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell'art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990). Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164). Tuttavia, partendo dall'assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall'irrilevanza ai fini della concessione dell'assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull'assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l'insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata. La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l'interesse del coniuge "debole" a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell'eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell'uguale tenore di vita e, dall'altro, l'interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l'indipendenza economica del coniuge. Non meno complessa la situazione nell'ipotesi della separazione consensuale. Secondo quanto previsto dall'art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile. Si pone dunque con evidenza la necessità /opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli. E' altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell'assegno di mantenimento e dell'assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi. In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall'altro lato il coniuge forte vorrà "chiudere" prima possibile l'intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L'orientamento della giurisprudenza, tutt'ora assestata sull'affermazione dell'indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l'affidamento dei figli. Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l'accentuazione del profilo assistenziale dell'assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull'indisponibilità del diritto. L'importanza di una negoziazione che metta al centro l'interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell'accertamento dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza. | |
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| Da: lisa | 14/12/2017 12:57:42 |
| potete bannare questo coglione nordista ? | |
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Da: Skapello79 ![]() | 14/12/2017 12:58:01 |
| che la forza sia con voi! | |
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| Da: TheDamic | 14/12/2017 12:58:50 |
| Che la Forza sia con voi tutti | |
| Rispondi | |
| Da: ilariocaimano | 14/12/2017 12:58:55 |
| si vede che hanno tempo da perdere...ma un lavoro non lo avete invece di rompere? io il mio contributo l'ho dato ai miei amici perche essere avvocato e anche far parte di un gruppo...ed ora torno a dedicarmi al lavoro...ciaoooo | |
| Rispondi | |
| Da: essere avvocato | 14/12/2017 13:03:05 |
| Essere avvocato vuol dire rispettare le regole. Vatti a riprendere i manuali ne hai bisogno forse | |
| Rispondi | |
| Da: dex | 14/12/2017 13:03:36 |
| Postate la soluzione dell'atto di civile | |
| Rispondi | |
| Da: @lisa | 14/12/2017 13:03:51 |
| Che classe Lisa. Altro elemento indegno e motivo di vergogna per noi veri avvocati. | |
| Rispondi | |
| Da: 77 | 14/12/2017 13:04:41 |
| sentenza di riferimento e come inserirla | |
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| Da: Soluzione1 | 14/12/2017 13:04:56 |
| La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d'Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l'assegno divorzile in quanto quest'ultima non aveva dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell'art. 384, 4�° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell'art. 5, comma 6�°, L.div. impone di individuare quale parametro per l'attribuzione dell'assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all'ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente. La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l'assegno, all'entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che - afferma la Corte - deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso. La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell'ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell'art. 5, comma 6, L.div. Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, "sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi �«persone singole�», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale", la Corte sottolinea come l'attribuzione dell'assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di "mezzi adeguati", rilevando gli ulteriori criteri enumerati all'art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno. In altri termini, il giudizio sull'assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur), dall'altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur). Il parametro di riferimento per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell'assegno dovrà , secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l'art. 337septies fa riferimento per l'individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l'art. 5 comma 6�° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell'autoresponsabilità economica. Nella fase dell'accertamento dell'an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi propri e dell'impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all'autosufficienza e all'indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi. Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l'assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel: 1) possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari; 3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. In altre parole, solo l'ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all'assegno post-matrimoniale. Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente. Occorre innanzitutto chiedersi se la soglia della "autosufficienza economica" possa essere ritenuta coincidente con quella dei "mezzi atti a garantire un'esistenza autonoma e dignitosa" che la stessa Sezione Prima della Corte (C. 1652/1990) aveva già ritenuto costituire il parametro di riferimento per l'attribuzione dell'assegno di divorzio. In altri termini, occorre chiedersi se, in conformità del recente insegnamento della Corte, sia consentito fare riferimento alla normativa sociale e previdenziale per determinare in concreto quale sia la soglia dell'indipendenza economica. Questo sembra peraltro essere l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito che, proprio all'indomani della pubblicazione di Cass. n. 11504/17, ha individuato quale parametro la "capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)" indicando quale criterio, sia pur non esclusivo, "quello rappresentato dall'ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato - soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili". La base normativa del riferimento al parametro dell'indipendenza economica, peraltro, è stata individuata dalla recente sentenza della Corte nell'art. 337-septies, 1�° comma, che prevede che possa essere disposto un assegno in favore dei figli maggiorenni, ove questi non siano "indipendenti economicamente". Secondo quanto affermato dalla Corte, in assenza di una definizione normativa della nozione di inadeguatezza dei mezzi, sarebbe infatti legittimo ricorrere all'analogia legis e dunque al parametro di cui all'art. 337septies,stante che in entrambi i casi - assegno post-matrimoniale e assegno a favore del figlio maggiorenne - si tratterebbe di "prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia". In altre parole, e proseguendo nel ragionamento della Corte: se il legislatore ha ritenuto corretta l'erogazione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne ove questo non sia economicamente indipendente, a maggior ragione tale dovrebbe essere il presupposto dell'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, tenuto altresì conto che, mentre la relazione filiale non cessa con la maggiore età , la relazione di coniugio cessa certamente con il divorzio. Principio regolatore di entrambe le ipotesi sarebbe pertanto il principio di autoresponsabilità , già evidenziato dalla giurisprudenza proprio in materia di mantenimento del figlio maggiorenne, laddove esclude il diritto all'assegno a favore del figlio, pur disoccupato, ma che rifiuti ingiustificatamente l'impegno lavorativo (C. 22.6.2016 n. 12952). L'accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l'autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne. In conclusione, se con riferimento al figlio maggiorenne la soglia dell'indipendenza economica non è uguale per tutti, e ciò, non in base al tenore di vita della famiglia, ma in base alle scelte compiute, altrettanto potrà essere con riferimento alla situazione dell'ex coniuge, al quale non necessariamente basterà disporre di quanto necessario per mantenersi nelle sue primarie esigenze di vita per dover essere considerato autosufficiente. Come per il figlio, potrà rilevare il contesto socio-economico, la professionalità acquisita o non acquisita sulla base di scelte concordate e condivise. Chiaro essendo che, se così non fosse, si arriverebbe all'illogica conclusione che se l'ex coniuge potesse disporre di un reddito minimo, nessuna considerazione potrebbe essere attribuita all'impegno familiare da questi speso, diversamente da quanto accadrebbe con riferimento a colui che di nulla disponga. Il che rischierebbe di indurre a ritenere preferibile l'assenza di redditi e di lavoro, proprio laddove viceversa si cerchi di incentivare la partecipazione di entrambi i coniugi al mondo del lavoro e di consentire un pieno sviluppo della personalità di entrambi. Anche la mera potenzialità del conseguimento dell'indipendenza economica potrà certamente essere sufficiente per escludere il diritto all'assegno post-matrimoniale, così come è stata riconosciuta sufficiente ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, ma dovrà essere vagliata attentamente sempre in relazione all'età , al titolo di studio, all'esperienza maturata, ma anche alle scelte condivise nel corso del matrimonio (non così ponderata sembra essere stata la decisione di Trib. Venezia 24.5.2017, laddove parrebbe essere stata attribuita rilevanza al semplice possesso della laurea in scienze politiche in capo al coniuge richiedente l'assegno). Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell'art. 9 L. div. E' noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l'implicita clausola rebus sic stantibus. L'art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi. La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull'evoluzione della situazione familiare, ossia sull'allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l'ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell'assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell'assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell'attribuzione dell'assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787). Occorre pertanto chiedersi se l'onerato della prestazione dell'assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell'indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l'assegno fosse stato pronunciato sulla base dell'accertamento dell'insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l'autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l'insegnamento di Cass. 11504/17? La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che - pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l'attribuzione dell'assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell'ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente. Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell'attribuzione dell'assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173). Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c'è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l'assegno possa essere richiesto attraverso l'instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell'art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l'ex coniuge possa richiedere l'assegno sul presupposto del venir meno di un'indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile. Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell'ex coniuge, cui fosse stato negato l'assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell'assegno, non così evidente l'accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell'assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne. E' noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l'indipendenza economica e l'abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell'art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all'art. 337septies, 1�° comma. Proseguendo lungo la strada dell'analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all'assegno in capo all'ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all'ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell'art. 433 c.c. La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio. Come è stato autorevolmente rilevato, l'introduzione nell'ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L'abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l'art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l'operatività dell'abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l'art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l'istruzione sull'eventuale richiesta di addebito, sull'affidamento dei figli e sulle questioni economiche. Nell'ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione - peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) - la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all'affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all'assegnazione della casa familiare. Sul presupposto dell'identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che "dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio" (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell'opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002). Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull'attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt'ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all'attribuzione dell'assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all'assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull'assegno di divorzio, mancherebbe l'interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio. E' pur vero, peraltro, che l'eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell'assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l'art. 156, 6�° comma, c.c. e non le misure previste dall'art. 8, 3�° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990). D'altro canto, l'assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l'opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l'assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell'art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990). Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13�° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164). Tuttavia, partendo dall'assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall'irrilevanza ai fini della concessione dell'assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull'assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l'insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata. La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l'interesse del coniuge "debole" a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell'eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell'uguale tenore di vita e, dall'altro, l'interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l'indipendenza economica del coniuge. Non meno complessa la situazione nell'ipotesi della separazione consensuale. Secondo quanto previsto dall'art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile. Si pone dunque con evidenza la necessità /opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli. E' altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell'assegno di mantenimento e dell'assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi. In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall'altro lato il coniuge forte vorrà "chiudere" prima possibile l'intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L'orientamento della giurisprudenza, tutt'ora assestata sull'affermazione dell'indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l'affidamento dei figli. Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l'accentuazione del profilo assistenziale dell'assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull'indisponibilità del diritto. L'importanza di una negoziazione che metta al centro l'interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell'accertamento dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza. | |
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 13:06:03 |
| Ragazzi lo schema è semplice: 1. improcedibilità ai sensi dell'art. 3 D.L. 132/2014 per omesso esperimento negoziazione assistita (trattandosi di obbligazione pecuniaria per euro  8.000,00); 2. decadenza ex art. 1957 c.c. (l'obbligazione ex art. 38 di chi spende il nome dell'associazione è, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Sez. I, n. 12508/2015; Sez. III, n. 29733/2011; Sez. III, n. 25748/2008) obbligazione per debito altrui assimilabile ad una fideiussione ex lege, con conseguente decadenza ex art. 1957 c.c. del creditore che non abbia iniziato e coltivato le iniziative giudiziarie nei confronti del debitore principale). | |
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 13:06:37 |
| tutto ciò, ovviamente, in culo al coglione polentone di cui sopra. | |
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| Da: lisa | 14/12/2017 13:06:40 |
| bellino io sono uno psichiatra e sto studiando il tuo caso... purtroppo con te non posso far nulla.. desisti, poni fine ;) | |
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 13:07:48 |
| ... e ai leghisti ladroni amici suoi che rubavano i suoi soldi del partito per prendersi le lauree in Albania. Fai una cosa, vai a laurearti anche tu in Albania ahahah | |
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| Da: HELP63 | 14/12/2017 13:08:31 |
| La responsabilità personale e solidale prevista dall'art. 38 c.c. per colui che agisce in nome e per conto dell'associazione non riconosciuta non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell'associazione, bensì all'attività negoziale concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa ed i terzi. Pertanto, chi invoca in giudizio tale responsabilità è gravato dall'onere di provare la concreta attività negoziale svolta in nome e nell'interesse dell'associazione, non essendo sufficiente la prova in ordine alla carica rivestita all'interno dell'ente. | |
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| Da: Ufolan | 14/12/2017 13:09:23 |
| a che ora consegna Roma? | |
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| Da: Sentenza commento | 14/12/2017 13:10:28 |
| La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d'Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l'assegno divorzile in quanto quest'ultima non aveva dimostrato l'inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell'art. 384, 4�° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell'art. 5, comma 6�°, L.div. impone di individuare quale parametro per l'attribuzione dell'assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all'ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente. La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l'assegno, all'entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che - afferma la Corte - deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso. La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell'ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell'art. 5, comma 6, L.div. Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, "sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi �«persone singole�», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale", la Corte sottolinea come l'attribuzione dell'assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di "mezzi adeguati", rilevando gli ulteriori criteri enumerati all'art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno. In altri termini, il giudizio sull'assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell'an debeatur), dall'altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur). Il parametro di riferimento per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell'assegno dovrà , secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l'indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l'art. 337septies fa riferimento per l'individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l'art. 5 comma 6�° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell'autoresponsabilità economica. Nella fase dell'accertamento dell'an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi propri e dell'impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all'autosufficienza e all'indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi. Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l'assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel: 1) possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari; 3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. In altre parole, solo l'ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all'assegno post-matrimoniale. Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente. Occorre innanzitutto chiedersi se la soglia della "autosufficienza economica" possa essere ritenuta coincidente con quella dei "mezzi atti a garantire un'esistenza autonoma e dignitosa" che la stessa Sezione Prima della Corte (C. 1652/1990) aveva già ritenuto costituire il parametro di riferimento per l'attribuzione dell'assegno di divorzio. In altri termini, occorre chiedersi se, in conformità del recente insegnamento della Corte, sia consentito fare riferimento alla normativa sociale e previdenziale per determinare in concreto quale sia la soglia dell'indipendenza economica. Questo sembra peraltro essere l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di merito che, proprio all'indomani della pubblicazione di Cass. n. 11504/17, ha individuato quale parametro la "capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)" indicando quale criterio, sia pur non esclusivo, "quello rappresentato dall'ammontare degli introiti che, secondo la legge dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato - soglia che ad oggi è di 11.528,41 euro annui ossia mille euro mensili". La base normativa del riferimento al parametro dell'indipendenza economica, peraltro, è stata individuata dalla recente sentenza della Corte nell'art. 337-septies, 1�° comma, che prevede che possa essere disposto un assegno in favore dei figli maggiorenni, ove questi non siano "indipendenti economicamente". Secondo quanto affermato dalla Corte, in assenza di una definizione normativa della nozione di inadeguatezza dei mezzi, sarebbe infatti legittimo ricorrere all'analogia legis e dunque al parametro di cui all'art. 337septies,stante che in entrambi i casi - assegno post-matrimoniale e assegno a favore del figlio maggiorenne - si tratterebbe di "prestazioni economiche regolate nell'ambito del diritto di famiglia". In altre parole, e proseguendo nel ragionamento della Corte: se il legislatore ha ritenuto corretta l'erogazione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne ove questo non sia economicamente indipendente, a maggior ragione tale dovrebbe essere il presupposto dell'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, tenuto altresì conto che, mentre la relazione filiale non cessa con la maggiore età , la relazione di coniugio cessa certamente con il divorzio. Principio regolatore di entrambe le ipotesi sarebbe pertanto il principio di autoresponsabilità , già evidenziato dalla giurisprudenza proprio in materia di mantenimento del figlio maggiorenne, laddove esclude il diritto all'assegno a favore del figlio, pur disoccupato, ma che rifiuti ingiustificatamente l'impegno lavorativo (C. 22.6.2016 n. 12952). L'accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l'autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell'autosufficienza economica del figlio maggiorenne. In conclusione, se con riferimento al figlio maggiorenne la soglia dell'indipendenza economica non è uguale per tutti, e ciò, non in base al tenore di vita della famiglia, ma in base alle scelte compiute, altrettanto potrà essere con riferimento alla situazione dell'ex coniuge, al quale non necessariamente basterà disporre di quanto necessario per mantenersi nelle sue primarie esigenze di vita per dover essere considerato autosufficiente. Come per il figlio, potrà rilevare il contesto socio-economico, la professionalità acquisita o non acquisita sulla base di scelte concordate e condivise. Chiaro essendo che, se così non fosse, si arriverebbe all'illogica conclusione che se l'ex coniuge potesse disporre di un reddito minimo, nessuna considerazione potrebbe essere attribuita all'impegno familiare da questi speso, diversamente da quanto accadrebbe con riferimento a colui che di nulla disponga. Il che rischierebbe di indurre a ritenere preferibile l'assenza di redditi e di lavoro, proprio laddove viceversa si cerchi di incentivare la partecipazione di entrambi i coniugi al mondo del lavoro e di consentire un pieno sviluppo della personalità di entrambi. Anche la mera potenzialità del conseguimento dell'indipendenza economica potrà certamente essere sufficiente per escludere il diritto all'assegno post-matrimoniale, così come è stata riconosciuta sufficiente ad ottenere la declaratoria di cessazione dell'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, ma dovrà essere vagliata attentamente sempre in relazione all'età , al titolo di studio, all'esperienza maturata, ma anche alle scelte condivise nel corso del matrimonio (non così ponderata sembra essere stata la decisione di Trib. Venezia 24.5.2017, laddove parrebbe essere stata attribuita rilevanza al semplice possesso della laurea in scienze politiche in capo al coniuge richiedente l'assegno). Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell'art. 9 L. div. E' noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l'implicita clausola rebus sic stantibus. L'art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi. La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull'evoluzione della situazione familiare, ossia sull'allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l'ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell'assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell'assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell'attribuzione dell'assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787). Occorre pertanto chiedersi se l'onerato della prestazione dell'assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell'indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l'assegno fosse stato pronunciato sulla base dell'accertamento dell'insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l'autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l'insegnamento di Cass. 11504/17? La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che - pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l'attribuzione dell'assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell'ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente. Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell'attribuzione dell'assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173). Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c'è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l'assegno possa essere richiesto attraverso l'instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell'art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l'ex coniuge possa richiedere l'assegno sul presupposto del venir meno di un'indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile. Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell'ex coniuge, cui fosse stato negato l'assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell'assegno, non così evidente l'accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell'assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne. E' noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l'indipendenza economica e l'abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell'art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all'art. 337septies, 1�° comma. Proseguendo lungo la strada dell'analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all'assegno in capo all'ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all'ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell'art. 433 c.c. La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio. Come è stato autorevolmente rilevato, l'introduzione nell'ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L'abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l'art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l'operatività dell'abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l'art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l'istruzione sull'eventuale richiesta di addebito, sull'affidamento dei figli e sulle questioni economiche. Nell'ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione - peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) - la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all'affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all'assegnazione della casa familiare. Sul presupposto dell'identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che "dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio" (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell'opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002). Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull'attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt'ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all'attribuzione dell'assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all'assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell'assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull'assegno di divorzio, mancherebbe l'interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio. E' pur vero, peraltro, che l'eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell'assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l'art. 156, 6�° comma, c.c. e non le misure previste dall'art. 8, 3�° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990). D'altro canto, l'assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l'opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l'assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell'art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990). Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13�° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164). Tuttavia, partendo dall'assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall'irrilevanza ai fini della concessione dell'assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull'assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l'insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata. La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l'interesse del coniuge "debole" a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell'eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell'uguale tenore di vita e, dall'altro, l'interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l'indipendenza economica del coniuge. Non meno complessa la situazione nell'ipotesi della separazione consensuale. Secondo quanto previsto dall'art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile. Si pone dunque con evidenza la necessità /opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli. E' altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell'assegno di mantenimento e dell'assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi. In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall'altro lato il coniuge forte vorrà "chiudere" prima possibile l'intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L'orientamento della giurisprudenza, tutt'ora assestata sull'affermazione dell'indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l'affidamento dei figli. Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l'accentuazione del profilo assistenziale dell'assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull'indisponibilità del diritto. L'importanza di una negoziazione che metta al centro l'interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell'accertamento dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza. | |
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| Da: tuttsjdh | 14/12/2017 13:13:42 |
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| Da: tuttsjdh | 14/12/2017 13:15:37 |
| chiamata in causa si o no? | |
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| Da: lisa | 14/12/2017 13:15:46 |
| comunque tornando all'atto, questa traccia è scritta con i piedi. | |
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| Da: Vertigo70 | 14/12/2017 13:16:51 |
| nessuna chiamata in causa, a mio avviso. | |
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Da: Pisellino58 ![]() | 14/12/2017 13:17:03 |
| Vi decantate da soli come veri avvocati, quel che conta sono i fatti e certo non ho visto nessuno di voi fare fatti. Qui si tenta di dare una mano ad altre persone, se voi non avete intenzione di farlo almeno non state qui a fracassarci le palle con i vostri moralismi del cazzo che non servono a nulla. Credo che ognuno sia libero di fare quello che vuole (purtroppo anche voi potete stare qui a perdere tempo e a darci fastidio). L'abilitazione è tutto un giro di soldi ormai lo sappiamo e proprio per questo la gente si adatta a quello che ci fornisce il nostro stato. Certo non sarete voi (4 idioti) a salvare l'italia o noi a distruggerla. Vi chiedo, quindi, cortesemente di smettare di romperci le palle, in caso contrario fatte quello che cazzo vi pare, tanto tranne qualche sporadica risposta come la mia non riceverete mai attenzioni dagli utenti di questo forum e, mi dispiace per voi, da parte di altre gente del mondo. Tranne coglioni come voi ovvio | |
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| Da: Sentenza | 14/12/2017 13:18:19 |
| Terzogenito (ha un fratello e una sorella), Vendola è cresciuto a Terlizzi col padre impiegato alle poste e la madre casalinga[4]. Il diminutivo Nichi gli venne dato dai genitori in omaggio all'ex presidente sovietico Nikita Krusciov[5], di cui avevano simpatia in quanto promotore della cosiddetta destalinizzazione alla fine degli anni cinquanta[5]. Laureato in Lettere all'Università di Bari con una tesi su Pier Paolo Pasolini[4][6], in gioventù fu allievo di mons. Tonino Bello[6]. Nel 1978 si dichiarò omosessuale[7]. Negli anni ottanta fu tra i promotori e fondatori dell'associazione Arcigay e della Lega italiana per la lotta contro l'AIDS (Lila)[4]. Gioventù (1972-1991) Modifica Impegnato in campo politico e sociale, nel 1972 s'iscrisse alla FGCI militando nella sezione del Partito Comunista Italiano di Terlizzi fino al 1984, quando si trasferì a Roma[4]. Il padre Francesco era anch'egli comunista e nel 1970 era stato eletto sindaco di Terlizzi[8]. Al congresso di Napoli della FGCI che elesse Pietro Folena segretario generale nel 1985, Vendola alla fine del suo intervento congressuale come delegato di Reggio Emilia e dirigente Arcigay[9], raccolse un applauso di due minuti[10]. Poche settimane dopo venne quindi chiamato a far parte dell'esecutivo nazionale come responsabile centri per l'ambiente[11]. In tale veste si schierò subito nel suo partito coi contrari all'uso di centrali nucleari[12]. Il 27 aprile 1987 L'Espresso pubblicò un'intervista di Gad Lerner con Jurij Sotzov, caporedattore di Komsomol'skaja Pravda, la rivista dei giovani del PCUS. In essa Lerner fece notare al suo interlocutore che nella FGCI vi era il gay militante Vendola e che quindi gli poteva toccare di doverlo ricevere ufficialmente. La risposta di Sotzov, dopo un lungo silenzio imbarazzato, fu: «sinceramente proverei solo della repulsione». Vendola ebbe la solidarietà immediata del suo partito, e l'Unità definì il giorno dopo «oscurantista e grossolana» la battuta del giornalista sovietico[13]. Vendola per l'episodio provò «fastidio e stupore», visto che due anni prima era già stato a Mosca in visita ufficiale senza alcun problema[14][15]. Alle elezioni politiche del 1987 Vendola era candidato deputato alla Camera nelle liste del PCI del Lazio[16]. Era uno dei quattro omosessuali dichiarati appoggiati dall'Arcigay e dalla rivista Babilonia[17]. Ottenne 10.764 preferenze e non venne eletto[18]. L'anno dopo lasciò la sua carica nella FGCI[19], diventando giornalista per il settimanale comunista Rinascita. Contrario alla svolta della Bolognina promossa da Achille Occhetto nel novembre 1989, al penultimo congresso del PCI del marzo 1990 Vendola era tra i 105 dirigenti eletti nel comitato centrale per la mozione Ingrao[20]. Nel PRC accanto a Garavini (1991-1995) Modifica Sciolto il PCI, Vendola aderì al Movimento per la Rifondazione Comunista[21] e qui lavora nella prima redazione di Liberazione[22], il settimanale del futuro Partito della Rifondazione Comunista nel quale Vendola fu dirigente nazionale fino al 2009, quando guidò la scissione del Movimento per la Sinistra. Nel 1992 fu eletto alla Camera dei Deputati essendo il candidato del PRC più votato a Bari e Foggia[23]. Da allora rimase alla Camera fino al 2005, quando si dimise per fare il Presidente della Regione Puglia. Nel 1993 dentro Rifondazione era vicino alle posizioni del segretario Sergio Garavini, antagonista di Armando Cossutta[24]. Nel 1994 entrò nella Commissione parlamentare Antimafia e venne eletto segretario[25]. Nel marzo 1995 era tra i garaviniani che, in dissenso con quanto deciso dal partito, votarono in Parlamento in favore della manovra economica del governo Dini insieme con PDS, Lega Nord e PPI[26]. Giorni dopo fu proprio Vendola a nome dei dissidenti a difendere quella scelta in Comitato Politico Nazionale sostenendo che «l'affossamento della manovra economica avrebbe aperto una voragine incolmabile nella storia democratica di questo Paese»[27]. Tuttavia due mesi dopo non partecipò alla scissione del Movimento dei Comunisti Unitari, promossa dagli altri dissidenti. In tale occasione disse che «ogni atto di separazione è un grave errore»[28] e che «tra PDS e PRC non credo possa nascere un'altra forza politica radicata e strutturata»[29]. Nel PRC accanto a Bertinotti (1996-2005) Modifica | |
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| Da: traccia molto molto difficle | 14/12/2017 13:18:29 |
| scritta coi piedi, difficile una m....a! | |
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| Da: Sentenza | 14/12/2017 13:22:08 |
| Egregio Avv. Pisellino, Sentirmi insultare da uno che si firma come Pisellino58 ti lascio immaginare quanto mi tocchi... Mi permetto di dirti che non state aiutando... piuttosto state violando la legge ed in particolare l'articolo 3 della costituzione che se non lo conosci è il principio di uguaglianza. Ci sono 4 capre che in questo momento copiano da questo forum su suggerimento di altre 4 capre e altri che stanno seriamente facendo questo esame. Manifesta dunque è la violazione di legge da voi commessa. | |
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