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14 dicembre 2017: Atto giudiziario CIVILE
461 messaggi, letto 45492 volte

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Da: 7714/12/2017 15:11:04
scusate ma altalex che dice? io sono l avv. di tizio
Rispondi

Da: bididibodidibu14/12/2017 15:12:20
NO NO NO CHIAMATA DI TERZO!
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:13:45
Ti sei dato la risposta da solo. Peccato che non te ne sei accorto. Il consumatore è LA PERSONA FISICA...
Il contratto è stato concluso da una associazione, cioè da una persona giuridica. La qualità soggettiva dell'obbligato principale, del quale Tizio è fideiussore ex lege, esclude che si possa parlare di obbligazione del consumatore.
Rispondi

Da: avv70 14/12/2017 15:14:27
no riconvenzionale
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:16:51
È la tesi del cosiddetto professionista di riflesso: leggi  Cass., 11 gennaio 2001, n. 314; Cass., 6 ottobre 2010, n. 19484; Cass., 29 novembre 2011, n. 25212)
Rispondi

Da: bididibodidibu14/12/2017 15:18:26
inserisco anche la resp. aggravata ex art. 96
che ne pensate?
Rispondi

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Da: Vertigo7014/12/2017 15:18:40
Se non è consumatore l'obbligato principale, non può mai considerarsi tale il fideiussore. Ti ho illuminato? :-)
Rispondi

Da: spasmex14/12/2017 15:19:29
non penso proprio
Tizio agisce per conto di un'associazione che benchè non riconosciuta non è considerata consumatore.
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:19:38
Niente responsabilità aggravata. Evitare di strafare.
Rispondi

Da: Nick1814/12/2017 15:26:10
Avete informazioni sull'orario di consegna di Roma?
Rispondi

Da: boberserk14/12/2017 15:26:37
perchè l'associazione "non inmprenditore" non è consumatore?
Rispondi

Da: cicciouno 14/12/2017 15:28:37
ma una domanda, da quando decorrono i sei mesi dall'obbligazione principale?
Rispondi

Da: XXXX.14/12/2017 15:28:55
Il procedimento di notificazione in ambito prefallimentare sottostà ad una disciplina speciale (art. 15, co. 3, L. Fall.) del tutto distinta da quella prevista nel codice di rito per le notificazioni degli atti del processo. I tentativi di svilirne il carattere di specialità attraverso la creazione di commistioni tra le due discipline, sono stati prontamente bloccati dai giudici di legittimità, anche sulla scorta dell'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 146/2016.

La disciplina in esame può dirsi abbastanza giovante (l'art. 15, co. 3, L. Fall. è stato riformulato con D.L. 18.10.2012, n. 179, conv. in L. 17.12.2012, n. 221, ed è entrato in vigore l'1.1.2014), tuttavia già si registrano importanti interventi della Cassazione tesi a marcare in modo da non far residuare dubbi la specialità ed esclusività di questa disciplina rispetto a quella ordinaria. Da ultimo è intervenuta la Sesta Sezione, con l'ordinanza n. 23728 del 10.10.2017, che qui passeremo in rassegna.

Inquadramento normativo

Il novellato art. 15, co. 3, L. Fall. introduce un procedimento di notificazione dell'istanza di fallimento ad esclusiva cura dell'Ufficio al fine di dare adeguata risposta a due esigenze specifiche, di segno opposto: l'esigenza del debitore di essere messo a conoscenza della procedura fallimentare e di poter svolgere le attività a propria difesa, nonché l'esigenza degli istanti acché le procedure si svolgano in tempi accettabili. È stato quindi previsto che "il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. L'esito della comunicazione è trasmesso, con modalità automatica, all'indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell'atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso".

La notifica a mezzo PEC da parte dell'Ufficio è quindi il nuovo ed indispensabile strumento di notificazione dell'istanza di fallimento. Sul suo ruolo in posizione di primazia e sulla possibilità di utilizzo in funzione surrogatoria anche degli strumenti contenuti nel codice di rito, sono sorti i principali dubbi applicativi.

Nell'ipotesi in cui la notifica a mezzo PEC non sia possibile, è il ricorrente a dover provvedere al nuovo tentativo di notificazione, sempre secondo le procedure previste dall'art. 15, co. 3, L. Fall. e non secondo le norme generali del codice di procedura civile (in particolare, se il debitore è una società, nelle forme previste dall'art. 145 cpc). In questo secondo caso, la notifica va eseguita "esclusivamente di persona" a norma dell'art. 107, co. 1, dpr 1959/1229, ossia a mani proprie mediante accesso diretto dell'ufficiale giudiziario alla sede dell'impresa risultante dal registro delle imprese, con espressa esclusione della possibilità di eseguire la notifica a mezzo del servizio postale. Nell'ulteriore ipotesi in cui la notificazione presso la sede risultante dal registro delle imprese non sia possibile, ossia quando l'impresa risulti irreperibile all'indirizzo della sede, è obbligo dell'ufficiale giudiziario di eseguire il deposito dell'atto presso la casa comunale del luogo in cui ha sede la società e la notifica "si perfeziona nel momento del deposito stesso".

Come già detto, il fine perseguito dal legislatore è stato quello di accelerare i tempi del procedimento per la dichiarazione di fallimento e di alleggerire gli adempimenti a carico del ricorrente, contemporaneamente riconoscendo al debitore la garanzia della conoscibilità del procedimento e quindi la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa. Del resto, la frequenza del fenomeno dell'irreperibilità dell'impresa debitrice all'indirizzo della sede e l'irreperibilità dello stesso legale rappresentante della società hanno rappresentato per lungo tempo caratteristiche patologiche della fase prefallimentare, comportando, per la necessità di più rinvii d'udienza, un'eccessiva dilatazione dei tempi occorrenti per la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, con conseguente grave pregiudizio per i creditori. È nella constatazione di questi fenomeni (che minavano il funzionamento del processo fallimentare) che risiede la ratio dell'intervento legislativo.

Oggi, invece, con l'introduzione di un termine di fissazione dell'udienza molto contenuto e con l'estrema semplificazione delle modalità della notificazione, incentrata anzitutto sulla notifica all'indirizzo PEC dell'impresa debitrice a cura della cancelleria, si è inteso garantire uno svolgimento snello delle procedure, nella certezza della corretta instaurazione del contraddittorio.

La norma è uscita indenne da un giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte d'Appello di Catanzaro per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione. La Corte calabrese aveva argomentato che la possibilità prevista dalla norma che la notifica, in caso di irreperibilità del destinatario, potesse perfezionarsi col solo deposito presso la casa comunale e dunque senza le ulteriori cautele previste dall'art. 145 cpc per le notifiche alle persone giuridiche, vale a dire senza alcuna necessità di dar conto e notizia dell'incombente e senza la previsione alternativa della notifica alla persona fisica del legale rappresentante della società, potesse configurare una disparità di trattamento "né ragionevole, né motivata" rispetto alle notifiche ordinarie, e tanto in violazione dell'art. 3 della Costituzione. Per altro verso, doveva ritenersi violato l'art. 24 Cost. per lesione del diritto di difesa della persona giuridica debitrice, non rappresentando il mero deposito presso la casa comunale "un mezzo idoneo a rendere conoscibile l'atto al suo destinatario, mancando qualsiasi altra cautela diretta a rendere edotto il notificato".

La Corte costituzionale ha respinto le conclusioni della Corte rimettente, dapprima precisando l'insussistenza della violazione dell'art. 3 Cost. poiché il nuovo art. 15 L. Fall. si propone di coniugare la finalità di tutela del diritto di difesa dell'imprenditore collettivo "con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale", quindi esonerando il tribunale da ulteriori formalità quando la situazione di irreperibilità deve imputarsi all'imprenditore medesimo, a differenza dell'art. 145 cpc che è esclusivamente finalizzato "all'esigenza di assicurare alla persona giuridica l'effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati ed alle connesse procedure".

I Giudici delle Leggi hanno sottolineato "la specialità e la complessità degli interessi (comuni ad una pluralità di operatori economici), ed anche la natura pubblica in ragione delle connotazioni soggettive del debitore e della dimensione oggettiva del debito), che il legislatore del 2012 ha inteso tutelare con l'introdotta semplificazione del procedimento notificatorio nell'ambito della procedura fallimentare", e quindi "l'innegabile diversità tra il suddetto procedimento e quello ordinario" ex art. 145 cpc.

È stata giudicata infondata anche la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 24 Cost., atteso che il diritto di difesa, nella sua declinazione di conoscibilità da parte del debitore dell'attivazione del procedimento fallimentare a suo carico, è comunque adeguatamente tutelato dalla norma, in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca della società. Il sistema di notificazione a mezzo PEC "consente di giungere ad una conoscibilità effettiva dell'atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari". Solo nell'ipotesi di non utile attivazione del primo meccanismo deve provvedersi alla notificazione presso la sede legale (conosciuta poiché presente nei pubblici registri) dell'impresa collettiva. In caso di fallimento di questo duplice meccanismo, il deposito dell'atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale "ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione da parte dell'impresa collettiva degli ordini derivanti dalla legge".

La stessa Corte Costituzionale ha altresì argomentato che, ben prima dell'entrata in vigore della novella, era consolidato l'orientamento per cui le esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa e gli obiettivi di speditezza ed operatività, ai quali deve essere improntato il procedimento concorsuale, giustificavano l'esonero per il tribunale da ulteriori formalità, "ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell'imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico" (Cass. 32/2008; Cass. 3062/2011).
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:29:28
Calcolatelo da solo
Rispondi

Da: cicciouno 14/12/2017 15:31:02
dalla consegna?
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:32:11
no dal momento dell'accordo
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:34:10
C'è un deficiente che posta col mio Nick. Vi accorgete che è il solito idiota. L'associazione non può essere consumatore perché il consumatore è solo persona fisica.
Quanto al dies a quo del termine di sei mesi, se non è diversamente specificato l'obbligazione pecuniaria scade immediatamente, quindi il giorno stesso dell'emissione della fattura (art. 1183 cc)
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:35:12
Il procedimento di notificazione in ambito prefallimentare sottostà ad una disciplina speciale (art. 15, co. 3, L. Fall.) del tutto distinta da quella prevista nel codice di rito per le notificazioni degli atti del processo. I tentativi di svilirne il carattere di specialità attraverso la creazione di commistioni tra le due discipline, sono stati prontamente bloccati dai giudici di legittimità, anche sulla scorta dell'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 146/2016.

La disciplina in esame può dirsi abbastanza giovante (l'art. 15, co. 3, L. Fall. è stato riformulato con D.L. 18.10.2012, n. 179, conv. in L. 17.12.2012, n. 221, ed è entrato in vigore l'1.1.2014), tuttavia già si registrano importanti interventi della Cassazione tesi a marcare in modo da non far residuare dubbi la specialità ed esclusività di questa disciplina rispetto a quella ordinaria. Da ultimo è intervenuta la Sesta Sezione, con l'ordinanza n. 23728 del 10.10.2017, che qui passeremo in rassegna.

Inquadramento normativo

Il novellato art. 15, co. 3, L. Fall. introduce un procedimento di notificazione dell'istanza di fallimento ad esclusiva cura dell'Ufficio al fine di dare adeguata risposta a due esigenze specifiche, di segno opposto: l'esigenza del debitore di essere messo a conoscenza della procedura fallimentare e di poter svolgere le attività a propria difesa, nonché l'esigenza degli istanti acché le procedure si svolgano in tempi accettabili. È stato quindi previsto che "il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all'indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. L'esito della comunicazione è trasmesso, con modalità automatica, all'indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 107, comma 1, presso la sede risultante dal registro delle imprese. Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell'atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso".

La notifica a mezzo PEC da parte dell'Ufficio è quindi il nuovo ed indispensabile strumento di notificazione dell'istanza di fallimento. Sul suo ruolo in posizione di primazia e sulla possibilità di utilizzo in funzione surrogatoria anche degli strumenti contenuti nel codice di rito, sono sorti i principali dubbi applicativi.

Nell'ipotesi in cui la notifica a mezzo PEC non sia possibile, è il ricorrente a dover provvedere al nuovo tentativo di notificazione, sempre secondo le procedure previste dall'art. 15, co. 3, L. Fall. e non secondo le norme generali del codice di procedura civile (in particolare, se il debitore è una società, nelle forme previste dall'art. 145 cpc). In questo secondo caso, la notifica va eseguita "esclusivamente di persona" a norma dell'art. 107, co. 1, dpr 1959/1229, ossia a mani proprie mediante accesso diretto dell'ufficiale giudiziario alla sede dell'impresa risultante dal registro delle imprese, con espressa esclusione della possibilità di eseguire la notifica a mezzo del servizio postale. Nell'ulteriore ipotesi in cui la notificazione presso la sede risultante dal registro delle imprese non sia possibile, ossia quando l'impresa risulti irreperibile all'indirizzo della sede, è obbligo dell'ufficiale giudiziario di eseguire il deposito dell'atto presso la casa comunale del luogo in cui ha sede la società e la notifica "si perfeziona nel momento del deposito stesso".

Come già detto, il fine perseguito dal legislatore è stato quello di accelerare i tempi del procedimento per la dichiarazione di fallimento e di alleggerire gli adempimenti a carico del ricorrente, contemporaneamente riconoscendo al debitore la garanzia della conoscibilità del procedimento e quindi la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa. Del resto, la frequenza del fenomeno dell'irreperibilità dell'impresa debitrice all'indirizzo della sede e l'irreperibilità dello stesso legale rappresentante della società hanno rappresentato per lungo tempo caratteristiche patologiche della fase prefallimentare, comportando, per la necessità di più rinvii d'udienza, un'eccessiva dilatazione dei tempi occorrenti per la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, con conseguente grave pregiudizio per i creditori. È nella constatazione di questi fenomeni (che minavano il funzionamento del processo fallimentare) che risiede la ratio dell'intervento legislativo.

Oggi, invece, con l'introduzione di un termine di fissazione dell'udienza molto contenuto e con l'estrema semplificazione delle modalità della notificazione, incentrata anzitutto sulla notifica all'indirizzo PEC dell'impresa debitrice a cura della cancelleria, si è inteso garantire uno svolgimento snello delle procedure, nella certezza della corretta instaurazione del contraddittorio.

La norma è uscita indenne da un giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte d'Appello di Catanzaro per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione. La Corte calabrese aveva argomentato che la possibilità prevista dalla norma che la notifica, in caso di irreperibilità del destinatario, potesse perfezionarsi col solo deposito presso la casa comunale e dunque senza le ulteriori cautele previste dall'art. 145 cpc per le notifiche alle persone giuridiche, vale a dire senza alcuna necessità di dar conto e notizia dell'incombente e senza la previsione alternativa della notifica alla persona fisica del legale rappresentante della società, potesse configurare una disparità di trattamento "né ragionevole, né motivata" rispetto alle notifiche ordinarie, e tanto in violazione dell'art. 3 della Costituzione. Per altro verso, doveva ritenersi violato l'art. 24 Cost. per lesione del diritto di difesa della persona giuridica debitrice, non rappresentando il mero deposito presso la casa comunale "un mezzo idoneo a rendere conoscibile l'atto al suo destinatario, mancando qualsiasi altra cautela diretta a rendere edotto il notificato".

La Corte costituzionale ha respinto le conclusioni della Corte rimettente, dapprima precisando l'insussistenza della violazione dell'art. 3 Cost. poiché il nuovo art. 15 L. Fall. si propone di coniugare la finalità di tutela del diritto di difesa dell'imprenditore collettivo "con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale", quindi esonerando il tribunale da ulteriori formalità quando la situazione di irreperibilità deve imputarsi all'imprenditore medesimo, a differenza dell'art. 145 cpc che è esclusivamente finalizzato "all'esigenza di assicurare alla persona giuridica l'effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati ed alle connesse procedure".

I Giudici delle Leggi hanno sottolineato "la specialità e la complessità degli interessi (comuni ad una pluralità di operatori economici), ed anche la natura pubblica in ragione delle connotazioni soggettive del debitore e della dimensione oggettiva del debito), che il legislatore del 2012 ha inteso tutelare con l'introdotta semplificazione del procedimento notificatorio nell'ambito della procedura fallimentare", e quindi "l'innegabile diversità tra il suddetto procedimento e quello ordinario" ex art. 145 cpc.

È stata giudicata infondata anche la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 24 Cost., atteso che il diritto di difesa, nella sua declinazione di conoscibilità da parte del debitore dell'attivazione del procedimento fallimentare a suo carico, è comunque adeguatamente tutelato dalla norma, in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca della società. Il sistema di notificazione a mezzo PEC "consente di giungere ad una conoscibilità effettiva dell'atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari". Solo nell'ipotesi di non utile attivazione del primo meccanismo deve provvedersi alla notificazione presso la sede legale (conosciuta poiché presente nei pubblici registri) dell'impresa collettiva. In caso di fallimento di questo duplice meccanismo, il deposito dell'atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale "ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione da parte dell'impresa collettiva degli ordini derivanti dalla legge".

La stessa Corte Costituzionale ha altresì argomentato che, ben prima dell'entrata in vigore della novella, era consolidato l'orientamento per cui le esigenze di compatibilità tra il diritto di difesa e gli obiettivi di speditezza ed operatività, ai quali deve essere improntato il procedimento concorsuale, giustificavano l'esonero per il tribunale da ulteriori formalità, "ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell'imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico" (Cass. 32/2008; Cass. 3062/2011).
Rispondi

Da: 1014/12/2017 15:36:58
se non c'è beneficio preventiva escussione la chiamata in causa non va fatta ?
Rispondi

Da: 1014/12/2017 15:37:10
se non c'è beneficio preventiva escussione la chiamata in causa non va fatta ?
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:37:15
Povero idiota fallito che usi il mio nick per ingenerare confusione, ti darei tanti di quei calci in culo da farti passare la voglia.
Rispondi

Da: 1014/12/2017 15:37:23
se non c'è beneficio preventiva escussione la chiamata in causa non va fatta ?
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:38:14
DALLE SEZIONI UNITE ALCUNI PUNTI FERMI IN TEMA DI RECIDIVA REITERATA

Nota a Cass., Sez. Un., 27.5.2010 (dep. 5.10.2010), n. 35738, ric. Calibè

La sentenza delle Sezioni Unite qui annotata fornisce l'occasione per porre alcuni punti fermi nella controversa materia della recidiva, con specifico riguardo alla recidiva reiterata ex art. 99, c. 4, c.p.


1. La prima e più importante questione che viene risolta con questa pronuncia attiene alla nota problematica inerente la natura obbligatoria o facoltativa della recidiva reiterata, a seguito della nuova formulazione dell'art. 99, c. 4, c.p. conseguente alla l. 205/2005.

Come già affermato da diverse pronunce (Cass., sez. IV, 11 aprile 2007, CED 236412; sez. IV, 19 aprile 2007, CED 235835), la Corte ribadisce che la recidiva, anche quella reiterata di cui all'art. 99, c. 4, c.p., conserva tuttora natura di circostanza aggravante facoltativa, con conseguente possibilità per il giudice di escluderla laddove la ricaduta nel reato, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, non appaia in realtà sintomatica di una maggiore colpevolezza e pericolosità dell'agente.

L'unica eccezione è costituita dall'art. 99, c. 5, c.p. che disciplina l'ipotesi in cui il nuovo delitto non colposo rientri tra quelli indicati nell'art. 407, c. 2, lett. a) del codice di rito (tra i quali, ad es., associazione mafiosa e delitti commessi dagli associati, delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, traffico di stupefacenti, strage, omicidio doloso, rapina aggravata ed estorsione aggravata); con riguardo a tale peculiare ipotesi, infatti, il legislatore ha espressamente qualificato l'aumento di pena ivi previsto come "obbligatorio". Da ciò, peraltro, si evince a contrario che, con riferimento alle figure di recidiva di cui ai commi da uno a quattro dell'art. 99 c.p., l'aumento di pena deve considerarsi facoltativo.

Alla base del dictum delle Sezioni Unite vi sono ragioni sia di ordine testuale sia di ordine costituzionale. La lettura che la Cassazione dà dell'art. 99, c. 4, c.p. risulta in effetti la più aderente alla formulazione testuale della norma.

L'unico aspetto su cui risulta aver inciso il legislatore del 2005, infatti, è relativo al solo quantum dell'aumento di pena (oggi, a differenza che in passato, previsto in misura fissa, anziché variabile tra un minino ed un massimo), e non già all'an dello stesso, il quale deve essere oggetto di un concreto apprezzamento da parte del giudice.

Inoltre, la Cassazione ricorda che le varie figure speciali di recidiva "non costituiscono autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa, dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano", cioè, come visto, un aumento di pena nella misura determinata ope legis e non ope iudicis.

Infine, tale interpretazione è imposta anche dai principi costituzionali di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria. Affidare al mero dato oggettivo della reiterazione degli illeciti il prodursi delle plurime conseguenze pregiudizievoli che discendono dall'applicazione della recidiva reiterata significa, infatti, introdurre una sorta di automatismo punitivo che risulta del tutto incompatibile con i fondamenti costituzionali della materia penale, poiché l'irrigidimento della risposta sanzionatoria non verrebbe ad essere agganciato ad una maggior colpevolezza e pericolosità dell'agente accertata in concreto dal giudice.


2. Ribadita quindi la natura facoltativa della recidiva, la Corte ha cura di affrontare un'ulteriore questione connessa a quella appena descritta e sulla quale persisteva un contrasto giurisprudenziale. Contrariamente a quanto si era sostenuto in alcune pronunce (Cass., sez. VI, 27 febbraio 2007, CED 236426), infatti, la Corte esclude che il principio di facoltatività della recidiva possa subire "scissioni" con riferimento agli effetti che conseguono al riconoscimento della stessa; non è cioè ammissibile che il giudice riconosca la recidiva in capo al condannato, aumentando la pena, ma si astenga dall'applicare tutte le altre conseguenze che dal riconoscimento della stessa derivano (ad es., non aumenti la nella misura prevista dall'art. 81 c.p. in caso di reato continuato).

Più in particolare, si afferma in sentenza - sulla scia di quanto aveva già osservato il Giudice delle leggi (sent. n. 192/2007) - che il giudice è sì titolare di un potere discrezionale in merito all'applicazione o meno della recidiva, ma se, nel caso concreto, egli ritiene che l'aggravante in parola debba essere applicata, questa opera necessariamente e determina tutte le conseguenze pregiudizievoli previste dalla legge.

Il giudice, quindi, se ritiene di applicare all'imputato la recidiva reiterata:

a) dovrà aumentare la pena nella misura prevista dalla legge (art. 99, c. 4, c.p.);

b) non potrà dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alla recidiva in sede di giudizio di comparazione (art. 69, c. 4, c.p.);

c) non potrà determinare l'aumento di pena previsto in caso di concorso formale o reato continuato in misura inferiore ad un terzo della pena stabilita per la violazione più grave (art. 81, c. 4, c.p.);

d) se ritiene che la pena da irrogare in concreto sia superiore a due anni, non potrà ammettere l'imputato al c.d. "patteggiamento allargato" (art. 444, c. 1-bis, c.p.).

Il giudice, in definitiva, è posto dinnanzi ad un'alternativa "secca": o esclude la recidiva reiterata, ed essa non spiegherà quindi nessuno degli effetti pregiudizievoli che ad essa la legge riconnette; ovvero la ritiene sussistente, e in tal caso procederà alla commisurazione della pena nel rispetto di tutte le limitazioni conseguenti al riconoscimento dello status di recidivo reiterato.


3. Da ultimo, la Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che, ai fini dell'operatività delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'applicazione dell'aggravante della recidiva reiterata, è sufficiente che essa sia, oltre che ritualmente contestata dal pubblico ministero in omaggio al principio del contraddittorio, ritenuta sussistente dal giudice in sentenza; non è cioè necessario che all'imputato l'aggravante in parola sia già stata applicata con una precedente sentenza. Le Sezioni Unite hanno peraltro cura di chiarire, in adesione all'orientamento dominante (Cass., Sez. Un., 18 giugno 1991, CED 187856), che la recidiva, al pari delle altre circostanze aggravanti, si deve ritenere "applicata" anche quando, in sede di giudizio di comparazione, è stata ritenuta equivalente alle eventuali circostanze attenuanti, poiché essa ha quanto meno avuto l'effetto di paralizzare la riduzione di pena.

Tale questione si era posta, in particolare, con riferimento alla preclusione al c.d. patteggiamento allargato prevista dall'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. per coloro che siano stati, come recita testualmente tale norma, "dichiarati" recidivi reiterati; la formulazione letterale, infatti, inclinava l'interprete a ritenere che l'imputato, per vedersi precluso l'accesso al rito speciale, dovesse essere già stato riconosciuto recidivo reiterato con una precedente sentenza. La Corte, però, respinge tale lettura, in quanto ritiene che il termine di cui sopra sia stato utilizzato impropriamente dal legislatore con riferimento alla recidiva; tecnicamente, infatti, questa è una circostanza del reato, e quindi si applica, non si "dichiara". Il legislatore ha verosimilmente utilizzato tale termine, in quanto l'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. inibisce l'accesso al c.d. patteggiamento allargato non solo a coloro ai quali è stata applicata l'aggravante della recidiva reiterata, ma anche ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, cioè con riferimento a qualifiche soggettive per le quali, invece, si prevede espressamente un'apposita "dichiarazione" con la sentenza di condanna. Il legislatore sembra dunque aver utilizzato un unico termine per tutti gli status soggettivi richiamati dalla norma (compresa la recidiva), e per questo si deve ritenere che la preclusione di cui alla norma processuale in esame operi già nel momento in cui il giudice accerta i presupposti per applicare la recidiva reiterata, senza che sia necessaria una precedente condanna che tale forma di recidiva abbia già applicato.

Sulla scorta dei principi così enunciati, la Corte previene agevolmente alla soluzione del caso di specie. Si trattava, in particolare, di valutare la legittimità di una sentenza di patteggiamento che condannava a pene superiori ai due anni due imputati per reati in materia di stupefacenti, nella quale il giudice aveva (motivatamente) escluso la recidiva reiterata per un imputato, mentre nessuna indicazione sul punto aveva fornito con riferimento all'altro, al quale pure era stata contestata la recidiva qualificata. In applicazione del principio di diritto da ultimo affermato, la Corte evidenzia che, mentre nessun problema si pone per il primo imputato, in quanto il giudice ha ritenuto di escludere la recidiva ex art. 99, c. 4, c.p. e quindi ha legittimamente ammesso quest'ultimo al c.d. patteggiamento allargato, diverso è il discorso con riferimento alla condanna del secondo imputato, poiché in quest'ultimo caso la recidiva non era stata esclusa dal giudice e quindi essa doveva ritenersi operante, con la conseguenza che l'imputato non poteva avere accesso al rito speciale ed alla relativa riduzione di pena. Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla condanna del secondo imputato, per essere stata a questi irrogata una pena inferiore al minimo previsto dalla legge.

* * * *

4. La sentenza in commento fornisce, infine, occasione per riflettere su un nodo ancora aperto in tema di recidiva - peraltro non affrontato nella pronuncia -, relativo ai dubbi di legittimità costituzionale dell'unica residua ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista in termini inequivoci dall'art. 99, c. 5, c.p. ("l'aumento della pena per la recidiva è obbligatorio").

Nel motivare il normale regime di facoltatività della recidiva in tutte le altre ipotesi contemplate dall'art. 99 c.p., le Sezioni Unite evidenziano come tale facoltatività sia una diretta conseguenza dell'operare del principio di colpevolezza. Non è infatti sufficiente, perché sia applicabile l'aggravante della recidiva, il dato meramente oggettivo rappresentato dalla reiterazione dell'illecito, ma è necessario che il nuovo delitto risulti in concreto espressivo di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo, sì da giustificare in concreto l'aumento della pena, nonché l'irrigidimento della disciplina processuale e penitenziaria. Diversamente, la produzione delle conseguenze sfavorevoli previste dalla legge per il recidivo reiterato verrebbe ad essere priva di un legame soggettivamente rilevante con l'agente, con conseguente pregiudizio dei principi di personalizzazione e necessaria finalizzazione della risposta sanzionatoria al reato.

Tuttavia, se il principio di facoltatività della recidiva risulta intimamente connesso con il principio (costituzionale) di colpevolezza, non è chiaro come tale principio possa essere derogato con riferimento alla recidiva ex art. 99, c. 5, c.p.

Non pare infatti potersi sostenere che, essendo la recidiva di cui al c. 5 fondata sulla particolare gravità del nuovo delitto commesso (uno tra quelli previsti dall'art. 407, c. 2, lett. a), c.p.p.), sarebbe ragionevole ritenerlo senz'altro espressivo di una maggiore riprovevolezza della condotta dell'agente, senza necessità di un accertamento in concreto da parte del giudice.

La recidiva ex art. 99, c. 5, infatti, si applica anche a coloro che sono stati riconosciuti recidivi ex art. 99, c. 1, c.p., cioè ai recidivi semplici, i quali potrebbero quindi aver commesso in precedenza un qualunque delitto non colposo, per nulla connesso a quello che dà luogo alla forma obbligatoria di recidiva; senza considerare poi che quest'ultimo potrebbe essere stato commesso svariati anni addietro.

Per tali ragioni, l'art. 99, c. 5, c.p. sembra porre seri problemi di compatibilità con il quadro costituzionale, che l'interprete difficilmente potrebbe risolvere mediante una interpretazione costituzionalmente conforme di tale norma che abbia l'effetto di estendere il principio di facoltatività della recidiva anche all'ipotesi ivi prevista. Il testo dell'art. 99, c. 5, infatti, risulta inequivoco sul punto, ed una diversa ipotesi ricostruttiva del suo significato si risolverebbe inevitabilmente in un'interpretazione contra legem. La sola strada percorribile, pertanto, sembra quella di sollevare un'eccezione di incostituzionalità della norma innanzi alla Corte costituzionale per contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 co. 1 Cost, nonché con lo stesso principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in relazione alla irragionevolezza della presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e pericolosità sottesa al regime di obbligatorietà dell'ipotesi di recidiva in parola.
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:38:59
Nessuna chiamata in causa. Essendoci la decadenza ex art. 1957 cc viene meno l'obbligazione solidale. Non vi complicate la  vita.
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:39:45
DALLE SEZIONI UNITE ALCUNI PUNTI FERMI IN TEMA DI RECIDIVA REITERATA

Nota a Cass., Sez. Un., 27.5.2010 (dep. 5.10.2010), n. 35738, ric. Calibè

La sentenza delle Sezioni Unite qui annotata fornisce l'occasione per porre alcuni punti fermi nella controversa materia della recidiva, con specifico riguardo alla recidiva reiterata ex art. 99, c. 4, c.p.


1. La prima e più importante questione che viene risolta con questa pronuncia attiene alla nota problematica inerente la natura obbligatoria o facoltativa della recidiva reiterata, a seguito della nuova formulazione dell'art. 99, c. 4, c.p. conseguente alla l. 205/2005.

Come già affermato da diverse pronunce (Cass., sez. IV, 11 aprile 2007, CED 236412; sez. IV, 19 aprile 2007, CED 235835), la Corte ribadisce che la recidiva, anche quella reiterata di cui all'art. 99, c. 4, c.p., conserva tuttora natura di circostanza aggravante facoltativa, con conseguente possibilità per il giudice di escluderla laddove la ricaduta nel reato, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, non appaia in realtà sintomatica di una maggiore colpevolezza e pericolosità dell'agente.

L'unica eccezione è costituita dall'art. 99, c. 5, c.p. che disciplina l'ipotesi in cui il nuovo delitto non colposo rientri tra quelli indicati nell'art. 407, c. 2, lett. a) del codice di rito (tra i quali, ad es., associazione mafiosa e delitti commessi dagli associati, delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, traffico di stupefacenti, strage, omicidio doloso, rapina aggravata ed estorsione aggravata); con riguardo a tale peculiare ipotesi, infatti, il legislatore ha espressamente qualificato l'aumento di pena ivi previsto come "obbligatorio". Da ciò, peraltro, si evince a contrario che, con riferimento alle figure di recidiva di cui ai commi da uno a quattro dell'art. 99 c.p., l'aumento di pena deve considerarsi facoltativo.

Alla base del dictum delle Sezioni Unite vi sono ragioni sia di ordine testuale sia di ordine costituzionale. La lettura che la Cassazione dà dell'art. 99, c. 4, c.p. risulta in effetti la più aderente alla formulazione testuale della norma.

L'unico aspetto su cui risulta aver inciso il legislatore del 2005, infatti, è relativo al solo quantum dell'aumento di pena (oggi, a differenza che in passato, previsto in misura fissa, anziché variabile tra un minino ed un massimo), e non già all'an dello stesso, il quale deve essere oggetto di un concreto apprezzamento da parte del giudice.

Inoltre, la Cassazione ricorda che le varie figure speciali di recidiva "non costituiscono autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa, dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano", cioè, come visto, un aumento di pena nella misura determinata ope legis e non ope iudicis.

Infine, tale interpretazione è imposta anche dai principi costituzionali di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria. Affidare al mero dato oggettivo della reiterazione degli illeciti il prodursi delle plurime conseguenze pregiudizievoli che discendono dall'applicazione della recidiva reiterata significa, infatti, introdurre una sorta di automatismo punitivo che risulta del tutto incompatibile con i fondamenti costituzionali della materia penale, poiché l'irrigidimento della risposta sanzionatoria non verrebbe ad essere agganciato ad una maggior colpevolezza e pericolosità dell'agente accertata in concreto dal giudice.


2. Ribadita quindi la natura facoltativa della recidiva, la Corte ha cura di affrontare un'ulteriore questione connessa a quella appena descritta e sulla quale persisteva un contrasto giurisprudenziale. Contrariamente a quanto si era sostenuto in alcune pronunce (Cass., sez. VI, 27 febbraio 2007, CED 236426), infatti, la Corte esclude che il principio di facoltatività della recidiva possa subire "scissioni" con riferimento agli effetti che conseguono al riconoscimento della stessa; non è cioè ammissibile che il giudice riconosca la recidiva in capo al condannato, aumentando la pena, ma si astenga dall'applicare tutte le altre conseguenze che dal riconoscimento della stessa derivano (ad es., non aumenti la nella misura prevista dall'art. 81 c.p. in caso di reato continuato).

Più in particolare, si afferma in sentenza - sulla scia di quanto aveva già osservato il Giudice delle leggi (sent. n. 192/2007) - che il giudice è sì titolare di un potere discrezionale in merito all'applicazione o meno della recidiva, ma se, nel caso concreto, egli ritiene che l'aggravante in parola debba essere applicata, questa opera necessariamente e determina tutte le conseguenze pregiudizievoli previste dalla legge.

Il giudice, quindi, se ritiene di applicare all'imputato la recidiva reiterata:

a) dovrà aumentare la pena nella misura prevista dalla legge (art. 99, c. 4, c.p.);

b) non potrà dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alla recidiva in sede di giudizio di comparazione (art. 69, c. 4, c.p.);

c) non potrà determinare l'aumento di pena previsto in caso di concorso formale o reato continuato in misura inferiore ad un terzo della pena stabilita per la violazione più grave (art. 81, c. 4, c.p.);

d) se ritiene che la pena da irrogare in concreto sia superiore a due anni, non potrà ammettere l'imputato al c.d. "patteggiamento allargato" (art. 444, c. 1-bis, c.p.).

Il giudice, in definitiva, è posto dinnanzi ad un'alternativa "secca": o esclude la recidiva reiterata, ed essa non spiegherà quindi nessuno degli effetti pregiudizievoli che ad essa la legge riconnette; ovvero la ritiene sussistente, e in tal caso procederà alla commisurazione della pena nel rispetto di tutte le limitazioni conseguenti al riconoscimento dello status di recidivo reiterato.


3. Da ultimo, la Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che, ai fini dell'operatività delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'applicazione dell'aggravante della recidiva reiterata, è sufficiente che essa sia, oltre che ritualmente contestata dal pubblico ministero in omaggio al principio del contraddittorio, ritenuta sussistente dal giudice in sentenza; non è cioè necessario che all'imputato l'aggravante in parola sia già stata applicata con una precedente sentenza. Le Sezioni Unite hanno peraltro cura di chiarire, in adesione all'orientamento dominante (Cass., Sez. Un., 18 giugno 1991, CED 187856), che la recidiva, al pari delle altre circostanze aggravanti, si deve ritenere "applicata" anche quando, in sede di giudizio di comparazione, è stata ritenuta equivalente alle eventuali circostanze attenuanti, poiché essa ha quanto meno avuto l'effetto di paralizzare la riduzione di pena.

Tale questione si era posta, in particolare, con riferimento alla preclusione al c.d. patteggiamento allargato prevista dall'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. per coloro che siano stati, come recita testualmente tale norma, "dichiarati" recidivi reiterati; la formulazione letterale, infatti, inclinava l'interprete a ritenere che l'imputato, per vedersi precluso l'accesso al rito speciale, dovesse essere già stato riconosciuto recidivo reiterato con una precedente sentenza. La Corte, però, respinge tale lettura, in quanto ritiene che il termine di cui sopra sia stato utilizzato impropriamente dal legislatore con riferimento alla recidiva; tecnicamente, infatti, questa è una circostanza del reato, e quindi si applica, non si "dichiara". Il legislatore ha verosimilmente utilizzato tale termine, in quanto l'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. inibisce l'accesso al c.d. patteggiamento allargato non solo a coloro ai quali è stata applicata l'aggravante della recidiva reiterata, ma anche ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, cioè con riferimento a qualifiche soggettive per le quali, invece, si prevede espressamente un'apposita "dichiarazione" con la sentenza di condanna. Il legislatore sembra dunque aver utilizzato un unico termine per tutti gli status soggettivi richiamati dalla norma (compresa la recidiva), e per questo si deve ritenere che la preclusione di cui alla norma processuale in esame operi già nel momento in cui il giudice accerta i presupposti per applicare la recidiva reiterata, senza che sia necessaria una precedente condanna che tale forma di recidiva abbia già applicato.

Sulla scorta dei principi così enunciati, la Corte previene agevolmente alla soluzione del caso di specie. Si trattava, in particolare, di valutare la legittimità di una sentenza di patteggiamento che condannava a pene superiori ai due anni due imputati per reati in materia di stupefacenti, nella quale il giudice aveva (motivatamente) escluso la recidiva reiterata per un imputato, mentre nessuna indicazione sul punto aveva fornito con riferimento all'altro, al quale pure era stata contestata la recidiva qualificata. In applicazione del principio di diritto da ultimo affermato, la Corte evidenzia che, mentre nessun problema si pone per il primo imputato, in quanto il giudice ha ritenuto di escludere la recidiva ex art. 99, c. 4, c.p. e quindi ha legittimamente ammesso quest'ultimo al c.d. patteggiamento allargato, diverso è il discorso con riferimento alla condanna del secondo imputato, poiché in quest'ultimo caso la recidiva non era stata esclusa dal giudice e quindi essa doveva ritenersi operante, con la conseguenza che l'imputato non poteva avere accesso al rito speciale ed alla relativa riduzione di pena. Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla condanna del secondo imputato, per essere stata a questi irrogata una pena inferiore al minimo previsto dalla legge.

* * * *

4. La sentenza in commento fornisce, infine, occasione per riflettere su un nodo ancora aperto in tema di recidiva - peraltro non affrontato nella pronuncia -, relativo ai dubbi di legittimità costituzionale dell'unica residua ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista in termini inequivoci dall'art. 99, c. 5, c.p. ("l'aumento della pena per la recidiva è obbligatorio").

Nel motivare il normale regime di facoltatività della recidiva in tutte le altre ipotesi contemplate dall'art. 99 c.p., le Sezioni Unite evidenziano come tale facoltatività sia una diretta conseguenza dell'operare del principio di colpevolezza. Non è infatti sufficiente, perché sia applicabile l'aggravante della recidiva, il dato meramente oggettivo rappresentato dalla reiterazione dell'illecito, ma è necessario che il nuovo delitto risulti in concreto espressivo di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo, sì da giustificare in concreto l'aumento della pena, nonché l'irrigidimento della disciplina processuale e penitenziaria. Diversamente, la produzione delle conseguenze sfavorevoli previste dalla legge per il recidivo reiterato verrebbe ad essere priva di un legame soggettivamente rilevante con l'agente, con conseguente pregiudizio dei principi di personalizzazione e necessaria finalizzazione della risposta sanzionatoria al reato.

Tuttavia, se il principio di facoltatività della recidiva risulta intimamente connesso con il principio (costituzionale) di colpevolezza, non è chiaro come tale principio possa essere derogato con riferimento alla recidiva ex art. 99, c. 5, c.p.

Non pare infatti potersi sostenere che, essendo la recidiva di cui al c. 5 fondata sulla particolare gravità del nuovo delitto commesso (uno tra quelli previsti dall'art. 407, c. 2, lett. a), c.p.p.), sarebbe ragionevole ritenerlo senz'altro espressivo di una maggiore riprovevolezza della condotta dell'agente, senza necessità di un accertamento in concreto da parte del giudice.

La recidiva ex art. 99, c. 5, infatti, si applica anche a coloro che sono stati riconosciuti recidivi ex art. 99, c. 1, c.p., cioè ai recidivi semplici, i quali potrebbero quindi aver commesso in precedenza un qualunque delitto non colposo, per nulla connesso a quello che dà luogo alla forma obbligatoria di recidiva; senza considerare poi che quest'ultimo potrebbe essere stato commesso svariati anni addietro.

Per tali ragioni, l'art. 99, c. 5, c.p. sembra porre seri problemi di compatibilità con il quadro costituzionale, che l'interprete difficilmente potrebbe risolvere mediante una interpretazione costituzionalmente conforme di tale norma che abbia l'effetto di estendere il principio di facoltatività della recidiva anche all'ipotesi ivi prevista. Il testo dell'art. 99, c. 5, infatti, risulta inequivoco sul punto, ed una diversa ipotesi ricostruttiva del suo significato si risolverebbe inevitabilmente in un'interpretazione contra legem. La sola strada percorribile, pertanto, sembra quella di sollevare un'eccezione di incostituzionalità della norma innanzi alla Corte costituzionale per contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 co. 1 Cost, nonché con lo stesso principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in relazione alla irragionevolezza della presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e pericolosità sottesa al regime di obbligatorietà dell'ipotesi di recidiva in parola.
Rispondi

Da: Vertigo7014/12/2017 15:42:39
Tutti i post di Vertigo70. con il punto finale non sono miei. Questo coglione è così idiota da non essere capace neppure di copiare un nick.
Rispondi

Da: rod14/12/2017 15:44:23
difetto di legittimazione passiva art 38?
Rispondi

Da: Vertigo70.14/12/2017 15:44:32
DALLE SEZIONI UNITE ALCUNI PUNTI FERMI IN TEMA DI RECIDIVA REITERATA

Nota a Cass., Sez. Un., 27.5.2010 (dep. 5.10.2010), n. 35738, ric. Calibè

La sentenza delle Sezioni Unite qui annotata fornisce l'occasione per porre alcuni punti fermi nella controversa materia della recidiva, con specifico riguardo alla recidiva reiterata ex art. 99, c. 4, c.p.


1. La prima e più importante questione che viene risolta con questa pronuncia attiene alla nota problematica inerente la natura obbligatoria o facoltativa della recidiva reiterata, a seguito della nuova formulazione dell'art. 99, c. 4, c.p. conseguente alla l. 205/2005.

Come già affermato da diverse pronunce (Cass., sez. IV, 11 aprile 2007, CED 236412; sez. IV, 19 aprile 2007, CED 235835), la Corte ribadisce che la recidiva, anche quella reiterata di cui all'art. 99, c. 4, c.p., conserva tuttora natura di circostanza aggravante facoltativa, con conseguente possibilità per il giudice di escluderla laddove la ricaduta nel reato, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, non appaia in realtà sintomatica di una maggiore colpevolezza e pericolosità dell'agente.

L'unica eccezione è costituita dall'art. 99, c. 5, c.p. che disciplina l'ipotesi in cui il nuovo delitto non colposo rientri tra quelli indicati nell'art. 407, c. 2, lett. a) del codice di rito (tra i quali, ad es., associazione mafiosa e delitti commessi dagli associati, delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, traffico di stupefacenti, strage, omicidio doloso, rapina aggravata ed estorsione aggravata); con riguardo a tale peculiare ipotesi, infatti, il legislatore ha espressamente qualificato l'aumento di pena ivi previsto come "obbligatorio". Da ciò, peraltro, si evince a contrario che, con riferimento alle figure di recidiva di cui ai commi da uno a quattro dell'art. 99 c.p., l'aumento di pena deve considerarsi facoltativo.

Alla base del dictum delle Sezioni Unite vi sono ragioni sia di ordine testuale sia di ordine costituzionale. La lettura che la Cassazione dà dell'art. 99, c. 4, c.p. risulta in effetti la più aderente alla formulazione testuale della norma.

L'unico aspetto su cui risulta aver inciso il legislatore del 2005, infatti, è relativo al solo quantum dell'aumento di pena (oggi, a differenza che in passato, previsto in misura fissa, anziché variabile tra un minino ed un massimo), e non già all'an dello stesso, il quale deve essere oggetto di un concreto apprezzamento da parte del giudice.

Inoltre, la Cassazione ricorda che le varie figure speciali di recidiva "non costituiscono autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa, dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano", cioè, come visto, un aumento di pena nella misura determinata ope legis e non ope iudicis.

Infine, tale interpretazione è imposta anche dai principi costituzionali di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria. Affidare al mero dato oggettivo della reiterazione degli illeciti il prodursi delle plurime conseguenze pregiudizievoli che discendono dall'applicazione della recidiva reiterata significa, infatti, introdurre una sorta di automatismo punitivo che risulta del tutto incompatibile con i fondamenti costituzionali della materia penale, poiché l'irrigidimento della risposta sanzionatoria non verrebbe ad essere agganciato ad una maggior colpevolezza e pericolosità dell'agente accertata in concreto dal giudice.


2. Ribadita quindi la natura facoltativa della recidiva, la Corte ha cura di affrontare un'ulteriore questione connessa a quella appena descritta e sulla quale persisteva un contrasto giurisprudenziale. Contrariamente a quanto si era sostenuto in alcune pronunce (Cass., sez. VI, 27 febbraio 2007, CED 236426), infatti, la Corte esclude che il principio di facoltatività della recidiva possa subire "scissioni" con riferimento agli effetti che conseguono al riconoscimento della stessa; non è cioè ammissibile che il giudice riconosca la recidiva in capo al condannato, aumentando la pena, ma si astenga dall'applicare tutte le altre conseguenze che dal riconoscimento della stessa derivano (ad es., non aumenti la nella misura prevista dall'art. 81 c.p. in caso di reato continuato).

Più in particolare, si afferma in sentenza - sulla scia di quanto aveva già osservato il Giudice delle leggi (sent. n. 192/2007) - che il giudice è sì titolare di un potere discrezionale in merito all'applicazione o meno della recidiva, ma se, nel caso concreto, egli ritiene che l'aggravante in parola debba essere applicata, questa opera necessariamente e determina tutte le conseguenze pregiudizievoli previste dalla legge.

Il giudice, quindi, se ritiene di applicare all'imputato la recidiva reiterata:

a) dovrà aumentare la pena nella misura prevista dalla legge (art. 99, c. 4, c.p.);

b) non potrà dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alla recidiva in sede di giudizio di comparazione (art. 69, c. 4, c.p.);

c) non potrà determinare l'aumento di pena previsto in caso di concorso formale o reato continuato in misura inferiore ad un terzo della pena stabilita per la violazione più grave (art. 81, c. 4, c.p.);

d) se ritiene che la pena da irrogare in concreto sia superiore a due anni, non potrà ammettere l'imputato al c.d. "patteggiamento allargato" (art. 444, c. 1-bis, c.p.).

Il giudice, in definitiva, è posto dinnanzi ad un'alternativa "secca": o esclude la recidiva reiterata, ed essa non spiegherà quindi nessuno degli effetti pregiudizievoli che ad essa la legge riconnette; ovvero la ritiene sussistente, e in tal caso procederà alla commisurazione della pena nel rispetto di tutte le limitazioni conseguenti al riconoscimento dello status di recidivo reiterato.


3. Da ultimo, la Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che, ai fini dell'operatività delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'applicazione dell'aggravante della recidiva reiterata, è sufficiente che essa sia, oltre che ritualmente contestata dal pubblico ministero in omaggio al principio del contraddittorio, ritenuta sussistente dal giudice in sentenza; non è cioè necessario che all'imputato l'aggravante in parola sia già stata applicata con una precedente sentenza. Le Sezioni Unite hanno peraltro cura di chiarire, in adesione all'orientamento dominante (Cass., Sez. Un., 18 giugno 1991, CED 187856), che la recidiva, al pari delle altre circostanze aggravanti, si deve ritenere "applicata" anche quando, in sede di giudizio di comparazione, è stata ritenuta equivalente alle eventuali circostanze attenuanti, poiché essa ha quanto meno avuto l'effetto di paralizzare la riduzione di pena.

Tale questione si era posta, in particolare, con riferimento alla preclusione al c.d. patteggiamento allargato prevista dall'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. per coloro che siano stati, come recita testualmente tale norma, "dichiarati" recidivi reiterati; la formulazione letterale, infatti, inclinava l'interprete a ritenere che l'imputato, per vedersi precluso l'accesso al rito speciale, dovesse essere già stato riconosciuto recidivo reiterato con una precedente sentenza. La Corte, però, respinge tale lettura, in quanto ritiene che il termine di cui sopra sia stato utilizzato impropriamente dal legislatore con riferimento alla recidiva; tecnicamente, infatti, questa è una circostanza del reato, e quindi si applica, non si "dichiara". Il legislatore ha verosimilmente utilizzato tale termine, in quanto l'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. inibisce l'accesso al c.d. patteggiamento allargato non solo a coloro ai quali è stata applicata l'aggravante della recidiva reiterata, ma anche ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, cioè con riferimento a qualifiche soggettive per le quali, invece, si prevede espressamente un'apposita "dichiarazione" con la sentenza di condanna. Il legislatore sembra dunque aver utilizzato un unico termine per tutti gli status soggettivi richiamati dalla norma (compresa la recidiva), e per questo si deve ritenere che la preclusione di cui alla norma processuale in esame operi già nel momento in cui il giudice accerta i presupposti per applicare la recidiva reiterata, senza che sia necessaria una precedente condanna che tale forma di recidiva abbia già applicato.

Sulla scorta dei principi così enunciati, la Corte previene agevolmente alla soluzione del caso di specie. Si trattava, in particolare, di valutare la legittimità di una sentenza di patteggiamento che condannava a pene superiori ai due anni due imputati per reati in materia di stupefacenti, nella quale il giudice aveva (motivatamente) escluso la recidiva reiterata per un imputato, mentre nessuna indicazione sul punto aveva fornito con riferimento all'altro, al quale pure era stata contestata la recidiva qualificata. In applicazione del principio di diritto da ultimo affermato, la Corte evidenzia che, mentre nessun problema si pone per il primo imputato, in quanto il giudice ha ritenuto di escludere la recidiva ex art. 99, c. 4, c.p. e quindi ha legittimamente ammesso quest'ultimo al c.d. patteggiamento allargato, diverso è il discorso con riferimento alla condanna del secondo imputato, poiché in quest'ultimo caso la recidiva non era stata esclusa dal giudice e quindi essa doveva ritenersi operante, con la conseguenza che l'imputato non poteva avere accesso al rito speciale ed alla relativa riduzione di pena. Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla condanna del secondo imputato, per essere stata a questi irrogata una pena inferiore al minimo previsto dalla legge.

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4. La sentenza in commento fornisce, infine, occasione per riflettere su un nodo ancora aperto in tema di recidiva - peraltro non affrontato nella pronuncia -, relativo ai dubbi di legittimità costituzionale dell'unica residua ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista in termini inequivoci dall'art. 99, c. 5, c.p. ("l'aumento della pena per la recidiva è obbligatorio").

Nel motivare il normale regime di facoltatività della recidiva in tutte le altre ipotesi contemplate dall'art. 99 c.p., le Sezioni Unite evidenziano come tale facoltatività sia una diretta conseguenza dell'operare del principio di colpevolezza. Non è infatti sufficiente, perché sia applicabile l'aggravante della recidiva, il dato meramente oggettivo rappresentato dalla reiterazione dell'illecito, ma è necessario che il nuovo delitto risulti in concreto espressivo di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo, sì da giustificare in concreto l'aumento della pena, nonché l'irrigidimento della disciplina processuale e penitenziaria. Diversamente, la produzione delle conseguenze sfavorevoli previste dalla legge per il recidivo reiterato verrebbe ad essere priva di un legame soggettivamente rilevante con l'agente, con conseguente pregiudizio dei principi di personalizzazione e necessaria finalizzazione della risposta sanzionatoria al reato.

Tuttavia, se il principio di facoltatività della recidiva risulta intimamente connesso con il principio (costituzionale) di colpevolezza, non è chiaro come tale principio possa essere derogato con riferimento alla recidiva ex art. 99, c. 5, c.p.

Non pare infatti potersi sostenere che, essendo la recidiva di cui al c. 5 fondata sulla particolare gravità del nuovo delitto commesso (uno tra quelli previsti dall'art. 407, c. 2, lett. a), c.p.p.), sarebbe ragionevole ritenerlo senz'altro espressivo di una maggiore riprovevolezza della condotta dell'agente, senza necessità di un accertamento in concreto da parte del giudice.

La recidiva ex art. 99, c. 5, infatti, si applica anche a coloro che sono stati riconosciuti recidivi ex art. 99, c. 1, c.p., cioè ai recidivi semplici, i quali potrebbero quindi aver commesso in precedenza un qualunque delitto non colposo, per nulla connesso a quello che dà luogo alla forma obbligatoria di recidiva; senza considerare poi che quest'ultimo potrebbe essere stato commesso svariati anni addietro.

Per tali ragioni, l'art. 99, c. 5, c.p. sembra porre seri problemi di compatibilità con il quadro costituzionale, che l'interprete difficilmente potrebbe risolvere mediante una interpretazione costituzionalmente conforme di tale norma che abbia l'effetto di estendere il principio di facoltatività della recidiva anche all'ipotesi ivi prevista. Il testo dell'art. 99, c. 5, infatti, risulta inequivoco sul punto, ed una diversa ipotesi ricostruttiva del suo significato si risolverebbe inevitabilmente in un'interpretazione contra legem. La sola strada percorribile, pertanto, sembra quella di sollevare un'eccezione di incostituzionalità della norma innanzi alla Corte costituzionale per contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 co. 1 Cost, nonché con lo stesso principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in relazione alla irragionevolezza della presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e pericolosità sottesa al regime di obbligatorietà dell'ipotesi di recidiva in parola.
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Da: Vertigo7014/12/2017 15:44:51
DALLE SEZIONI UNITE ALCUNI PUNTI FERMI IN TEMA DI RECIDIVA REITERATA

Nota a Cass., Sez. Un., 27.5.2010 (dep. 5.10.2010), n. 35738, ric. Calibè

La sentenza delle Sezioni Unite qui annotata fornisce l'occasione per porre alcuni punti fermi nella controversa materia della recidiva, con specifico riguardo alla recidiva reiterata ex art. 99, c. 4, c.p.


1. La prima e più importante questione che viene risolta con questa pronuncia attiene alla nota problematica inerente la natura obbligatoria o facoltativa della recidiva reiterata, a seguito della nuova formulazione dell'art. 99, c. 4, c.p. conseguente alla l. 205/2005.

Come già affermato da diverse pronunce (Cass., sez. IV, 11 aprile 2007, CED 236412; sez. IV, 19 aprile 2007, CED 235835), la Corte ribadisce che la recidiva, anche quella reiterata di cui all'art. 99, c. 4, c.p., conserva tuttora natura di circostanza aggravante facoltativa, con conseguente possibilità per il giudice di escluderla laddove la ricaduta nel reato, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, non appaia in realtà sintomatica di una maggiore colpevolezza e pericolosità dell'agente.

L'unica eccezione è costituita dall'art. 99, c. 5, c.p. che disciplina l'ipotesi in cui il nuovo delitto non colposo rientri tra quelli indicati nell'art. 407, c. 2, lett. a) del codice di rito (tra i quali, ad es., associazione mafiosa e delitti commessi dagli associati, delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, traffico di stupefacenti, strage, omicidio doloso, rapina aggravata ed estorsione aggravata); con riguardo a tale peculiare ipotesi, infatti, il legislatore ha espressamente qualificato l'aumento di pena ivi previsto come "obbligatorio". Da ciò, peraltro, si evince a contrario che, con riferimento alle figure di recidiva di cui ai commi da uno a quattro dell'art. 99 c.p., l'aumento di pena deve considerarsi facoltativo.

Alla base del dictum delle Sezioni Unite vi sono ragioni sia di ordine testuale sia di ordine costituzionale. La lettura che la Cassazione dà dell'art. 99, c. 4, c.p. risulta in effetti la più aderente alla formulazione testuale della norma.

L'unico aspetto su cui risulta aver inciso il legislatore del 2005, infatti, è relativo al solo quantum dell'aumento di pena (oggi, a differenza che in passato, previsto in misura fissa, anziché variabile tra un minino ed un massimo), e non già all'an dello stesso, il quale deve essere oggetto di un concreto apprezzamento da parte del giudice.

Inoltre, la Cassazione ricorda che le varie figure speciali di recidiva "non costituiscono autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa, dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano", cioè, come visto, un aumento di pena nella misura determinata ope legis e non ope iudicis.

Infine, tale interpretazione è imposta anche dai principi costituzionali di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria. Affidare al mero dato oggettivo della reiterazione degli illeciti il prodursi delle plurime conseguenze pregiudizievoli che discendono dall'applicazione della recidiva reiterata significa, infatti, introdurre una sorta di automatismo punitivo che risulta del tutto incompatibile con i fondamenti costituzionali della materia penale, poiché l'irrigidimento della risposta sanzionatoria non verrebbe ad essere agganciato ad una maggior colpevolezza e pericolosità dell'agente accertata in concreto dal giudice.


2. Ribadita quindi la natura facoltativa della recidiva, la Corte ha cura di affrontare un'ulteriore questione connessa a quella appena descritta e sulla quale persisteva un contrasto giurisprudenziale. Contrariamente a quanto si era sostenuto in alcune pronunce (Cass., sez. VI, 27 febbraio 2007, CED 236426), infatti, la Corte esclude che il principio di facoltatività della recidiva possa subire "scissioni" con riferimento agli effetti che conseguono al riconoscimento della stessa; non è cioè ammissibile che il giudice riconosca la recidiva in capo al condannato, aumentando la pena, ma si astenga dall'applicare tutte le altre conseguenze che dal riconoscimento della stessa derivano (ad es., non aumenti la nella misura prevista dall'art. 81 c.p. in caso di reato continuato).

Più in particolare, si afferma in sentenza - sulla scia di quanto aveva già osservato il Giudice delle leggi (sent. n. 192/2007) - che il giudice è sì titolare di un potere discrezionale in merito all'applicazione o meno della recidiva, ma se, nel caso concreto, egli ritiene che l'aggravante in parola debba essere applicata, questa opera necessariamente e determina tutte le conseguenze pregiudizievoli previste dalla legge.

Il giudice, quindi, se ritiene di applicare all'imputato la recidiva reiterata:

a) dovrà aumentare la pena nella misura prevista dalla legge (art. 99, c. 4, c.p.);

b) non potrà dichiarare la prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alla recidiva in sede di giudizio di comparazione (art. 69, c. 4, c.p.);

c) non potrà determinare l'aumento di pena previsto in caso di concorso formale o reato continuato in misura inferiore ad un terzo della pena stabilita per la violazione più grave (art. 81, c. 4, c.p.);

d) se ritiene che la pena da irrogare in concreto sia superiore a due anni, non potrà ammettere l'imputato al c.d. "patteggiamento allargato" (art. 444, c. 1-bis, c.p.).

Il giudice, in definitiva, è posto dinnanzi ad un'alternativa "secca": o esclude la recidiva reiterata, ed essa non spiegherà quindi nessuno degli effetti pregiudizievoli che ad essa la legge riconnette; ovvero la ritiene sussistente, e in tal caso procederà alla commisurazione della pena nel rispetto di tutte le limitazioni conseguenti al riconoscimento dello status di recidivo reiterato.


3. Da ultimo, la Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che, ai fini dell'operatività delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'applicazione dell'aggravante della recidiva reiterata, è sufficiente che essa sia, oltre che ritualmente contestata dal pubblico ministero in omaggio al principio del contraddittorio, ritenuta sussistente dal giudice in sentenza; non è cioè necessario che all'imputato l'aggravante in parola sia già stata applicata con una precedente sentenza. Le Sezioni Unite hanno peraltro cura di chiarire, in adesione all'orientamento dominante (Cass., Sez. Un., 18 giugno 1991, CED 187856), che la recidiva, al pari delle altre circostanze aggravanti, si deve ritenere "applicata" anche quando, in sede di giudizio di comparazione, è stata ritenuta equivalente alle eventuali circostanze attenuanti, poiché essa ha quanto meno avuto l'effetto di paralizzare la riduzione di pena.

Tale questione si era posta, in particolare, con riferimento alla preclusione al c.d. patteggiamento allargato prevista dall'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. per coloro che siano stati, come recita testualmente tale norma, "dichiarati" recidivi reiterati; la formulazione letterale, infatti, inclinava l'interprete a ritenere che l'imputato, per vedersi precluso l'accesso al rito speciale, dovesse essere già stato riconosciuto recidivo reiterato con una precedente sentenza. La Corte, però, respinge tale lettura, in quanto ritiene che il termine di cui sopra sia stato utilizzato impropriamente dal legislatore con riferimento alla recidiva; tecnicamente, infatti, questa è una circostanza del reato, e quindi si applica, non si "dichiara". Il legislatore ha verosimilmente utilizzato tale termine, in quanto l'art. 444, c. 1-bis, c.p.p. inibisce l'accesso al c.d. patteggiamento allargato non solo a coloro ai quali è stata applicata l'aggravante della recidiva reiterata, ma anche ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, cioè con riferimento a qualifiche soggettive per le quali, invece, si prevede espressamente un'apposita "dichiarazione" con la sentenza di condanna. Il legislatore sembra dunque aver utilizzato un unico termine per tutti gli status soggettivi richiamati dalla norma (compresa la recidiva), e per questo si deve ritenere che la preclusione di cui alla norma processuale in esame operi già nel momento in cui il giudice accerta i presupposti per applicare la recidiva reiterata, senza che sia necessaria una precedente condanna che tale forma di recidiva abbia già applicato.

Sulla scorta dei principi così enunciati, la Corte previene agevolmente alla soluzione del caso di specie. Si trattava, in particolare, di valutare la legittimità di una sentenza di patteggiamento che condannava a pene superiori ai due anni due imputati per reati in materia di stupefacenti, nella quale il giudice aveva (motivatamente) escluso la recidiva reiterata per un imputato, mentre nessuna indicazione sul punto aveva fornito con riferimento all'altro, al quale pure era stata contestata la recidiva qualificata. In applicazione del principio di diritto da ultimo affermato, la Corte evidenzia che, mentre nessun problema si pone per il primo imputato, in quanto il giudice ha ritenuto di escludere la recidiva ex art. 99, c. 4, c.p. e quindi ha legittimamente ammesso quest'ultimo al c.d. patteggiamento allargato, diverso è il discorso con riferimento alla condanna del secondo imputato, poiché in quest'ultimo caso la recidiva non era stata esclusa dal giudice e quindi essa doveva ritenersi operante, con la conseguenza che l'imputato non poteva avere accesso al rito speciale ed alla relativa riduzione di pena. Pertanto, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla condanna del secondo imputato, per essere stata a questi irrogata una pena inferiore al minimo previsto dalla legge.

* * * *

4. La sentenza in commento fornisce, infine, occasione per riflettere su un nodo ancora aperto in tema di recidiva - peraltro non affrontato nella pronuncia -, relativo ai dubbi di legittimità costituzionale dell'unica residua ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista in termini inequivoci dall'art. 99, c. 5, c.p. ("l'aumento della pena per la recidiva è obbligatorio").

Nel motivare il normale regime di facoltatività della recidiva in tutte le altre ipotesi contemplate dall'art. 99 c.p., le Sezioni Unite evidenziano come tale facoltatività sia una diretta conseguenza dell'operare del principio di colpevolezza. Non è infatti sufficiente, perché sia applicabile l'aggravante della recidiva, il dato meramente oggettivo rappresentato dalla reiterazione dell'illecito, ma è necessario che il nuovo delitto risulti in concreto espressivo di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo, sì da giustificare in concreto l'aumento della pena, nonché l'irrigidimento della disciplina processuale e penitenziaria. Diversamente, la produzione delle conseguenze sfavorevoli previste dalla legge per il recidivo reiterato verrebbe ad essere priva di un legame soggettivamente rilevante con l'agente, con conseguente pregiudizio dei principi di personalizzazione e necessaria finalizzazione della risposta sanzionatoria al reato.

Tuttavia, se il principio di facoltatività della recidiva risulta intimamente connesso con il principio (costituzionale) di colpevolezza, non è chiaro come tale principio possa essere derogato con riferimento alla recidiva ex art. 99, c. 5, c.p.

Non pare infatti potersi sostenere che, essendo la recidiva di cui al c. 5 fondata sulla particolare gravità del nuovo delitto commesso (uno tra quelli previsti dall'art. 407, c. 2, lett. a), c.p.p.), sarebbe ragionevole ritenerlo senz'altro espressivo di una maggiore riprovevolezza della condotta dell'agente, senza necessità di un accertamento in concreto da parte del giudice.

La recidiva ex art. 99, c. 5, infatti, si applica anche a coloro che sono stati riconosciuti recidivi ex art. 99, c. 1, c.p., cioè ai recidivi semplici, i quali potrebbero quindi aver commesso in precedenza un qualunque delitto non colposo, per nulla connesso a quello che dà luogo alla forma obbligatoria di recidiva; senza considerare poi che quest'ultimo potrebbe essere stato commesso svariati anni addietro.

Per tali ragioni, l'art. 99, c. 5, c.p. sembra porre seri problemi di compatibilità con il quadro costituzionale, che l'interprete difficilmente potrebbe risolvere mediante una interpretazione costituzionalmente conforme di tale norma che abbia l'effetto di estendere il principio di facoltatività della recidiva anche all'ipotesi ivi prevista. Il testo dell'art. 99, c. 5, infatti, risulta inequivoco sul punto, ed una diversa ipotesi ricostruttiva del suo significato si risolverebbe inevitabilmente in un'interpretazione contra legem. La sola strada percorribile, pertanto, sembra quella di sollevare un'eccezione di incostituzionalità della norma innanzi alla Corte costituzionale per contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 co. 1 Cost, nonché con lo stesso principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in relazione alla irragionevolezza della presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e pericolosità sottesa al regime di obbligatorietà dell'ipotesi di recidiva in parola.
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Sono la vergogna dell'avvocatura italiana
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