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13 dicembre 2016: Parere CIVILE
748 messaggi, letto 127154 volte

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Da: lawmen13/12/2016 13:04:00
Traccia 1 - Caduta da cavallo
Secondo voi si deve accennare ad una eventuale responsabilità dei genitori e del pronto soccorso?

Rispondi

Da: michele199699613/12/2016 13:05:56
soluzioni appena possibile... per favore
Rispondi

Da: Verde-9  13/12/2016 13:08:14
Io non vedo affatto una responsabilità dei genitori. Secondo me il parere deve essere strutturato in due parti, da un lavo parlare della responsabilità del maneggio e dall'altra parlare della responsabilità del pronto soccorso/struttura ospedaliera.
Rispondi

Da: Gaetano90 13/12/2016 13:09:06
Per le soluzioni io guardo sempre alle sentenze di riferimento.
Sono state già pubblicate on line da alcuni siti
Rispondi

Da: lawmen13/12/2016 13:09:17
Errore Medico - (Tribunale di Trento, Civile, Sentenza 9 giugno 2011, n. 496) . Responsabilità pronto soccorso
Rispondi

Da: aiutino13/12/2016 13:09:20
l 9 di aprile 2015 la Corte di Cassazione, sezione terza civile, ha emanato la sentenza n.7093, la quale ha suscitato molte discussioni in proposito.
La Suprema Corte ha stabilito che in caso di caduta, da un cavallo imbizzarrito, di un'allieva della scuola di equitazione, durante la lezione, la responsabilità è del gestore del maneggio, poiché l'imprevedibilità del comportamento del cavallo è una caratteristica propria degli esseri privi di ragione e quindi non costituisce caso fortuito, esonerando cosi da responsabilità il custode. E' stata cosi confermata la sentenza della Corte d'appello di Venezia, la quale aveva in precedenza stabilito proprio la medesima responsabilità.
Il gestore del maneggio era ricorso in Cassazione, sostenendo l'errata applicazione da parte della Corte d'Appello dell'art. 2052 c.c. secondo il quale è il proprietario del cavallo che deve rispondere dei danni da questo causati, a meno che non provi il caso fortuito, invece dell'applicazione della presunzione dell'art.2050 relativo all'esercizio di attività pericolose.
Infatti il ricorrente sosteneva che l'art.2052 fa riferimento ai soli danni causati dall'animale a persone che vengano in contatto con esso accidentalmente, mentre nel caso della scuola di equitazione il contatto è proprio voluto. Inoltre, sosteneva che chi pratica l'equitazione accetta di per sé il rischio della caduta da cavallo.
Il ricorrente sosteneva inoltre che applicando la presunzione dell'art.2050, per liberarsi della responsabilità egli avrebbe dovuto solo provare, come in realtà ha fatto, di aver adottato tutte le necessarie cautele per evitare la caduta.
La Cassazione invece ha ritenuto la valutazione della pericolosità dell'equitazione non possa essere astratta ma debba essere effettuata sul caso concreto, quindi sulle modalità dell'insegnamento, sulle caratteristiche dei singoli cavalli impiegati e sull'abilità degli allievi. In particolare la Corte ritiene pericoloso l'insegnamento ai principianti senza esperienza e ai bambini, mentre non pericoloso l'insegnamento agli allievi più esperti (ma questa valutazione spetta al giudice di merito). Il punto a mio avviso importante da considerare è che le valutazioni del giudice sono sempre in questi casi sul caso concreto, quindi valutazioni di fatto: il cavaliere era principiante o esperto? ci sono varie gradazioni di esperienza. Esattamente come per la valutazione del carattere del cavallo: era tranquillo o nervoso? e quanto spesso era in un modo o nell'altro?
In proposito, si potrebbero fare delle considerazioni: l'insegnamento agli allievi più esperti, comporta delle difficoltà maggiori di lavori da eseguire: andature più elevate, salti che mano a mano diventano sempre più alti e impegnativi, cavalli che possono avere maggiori difficoltà di gestione da parte del cavaliere. A mio modo di vedere, le difficoltà aumentano, più il cavaliere diventa esperto, e di conseguenza la pericolosità.
A proposito dell'accidentalità poi, la Cassazione ha ritenuto che per l'art.2052 c.c. chi usa il cavallo per un proprio interesse, patrimoniale o non patrimoniale, deve in ogni caso rispondere dei danni causati dal cavallo stesso. A proposito poi dell'accettare il rischio di cadute da chi pratica l'equitazione, la Corte ha ritenuto che effettivamente chi pratica un'attività sportiva, si espone volontariamente al rischio intrinseco alla disciplina praticata (e questo vale per l'equitazione, come per lo sci o altri sport a rischio cadute). Questo non toglie però che permanga la responsabilità del gestore del centro o dell'istruttore, nel caso essi violino le regole esistenti a salvaguardia dell'incolumità degli allievi (questa è la c.d. colpa specifica) o le regole di normale prudenza e diligenza (questa la c.d. colpa generica).
Dunque, per la Suprema Corte, siamo nell'ambito della presunzione di responsabilità ex art.2052 c.c., la quale potrebbe essere superata solo quando il proprietario o chi si serve dell'animale, quindi nel nostro caso il gestore del centro, provi il caso fortuito, cioè un fatto concreto completamente indipendente dalla sua condotta (per esempio uno scoppio improvviso). Per questa ragione la Corte non ha ritenuto sufficiente la prova dell'uso della normale diligenza nella custodia del cavallo o della mansuetudine dello stesso, in quanto il cavallo è un animale e come tale è privo di raziocinio; quindi i suoi comportamenti imprevedibili non costituiscono caso fortuito ma caratteristica propria dell'animale stesso. Qui mi permetto di dissentire, ma in modo molto personale…. E' vero che tutti noi amanti dei cavalli sappiamo che essi possono essere imprevedibili, ma arrivare a dire che il cavallo è privo di raziocinio lo trovo veramente azzardato. Certo è molto istintivo, ma non si comporta mai a caso. Se reagisce, ha sempre un motivo: o è infastidito dal cavaliere o ha paura di qualcosa.
Comunque la Cassazione ha ritenuto che non si sarebbe potuti giungere a conclusioni diverse, neppure applicando il 2050 c.c. La giurisprudenza precedente parlava di mera presunzione di colpa per chi esercita un'attività pericolosa, dalla quale ci si può liberare fornendo la prova di aver tenuto una condotta diligente, senza dover provare il caso fortuito. La giurisprudenza più recente invece ha affermato in diversi casi che la responsabilità prevista dall'art.2050 ha natura oggettiva; dunque sussiste solo sulla base del nesso di causalità, quindi quando solo un fatto è stato causa di un altro fatto, senza dover parlare di colpa di chi esercita l'attività stessa.
Quindi si parla di una presunzione di responsabilità che può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, come d'altronde quella richiesta dal 2052 c.c.
Per cui, partendo dal presupposto che il gestore del maneggio eserciti un'attività pericolosa perché gli allievi sono inesperti, per evitare di essere condannato, non basta che provi di non aver violato norme di legge o di prudenza comune, ma deve dimostrare di aver impiegato tutte le possibili misure adatte a impedire l'evento dannoso. E nel nostro caso, il fatto di aver assegnato ad un allievo inesperto, un cavallo che aveva dimostrato in alcuni casi di essere nervoso, è un comportamento che non è idoneo a prevenire il rischio della caduta. Quindi, comporta la responsabilità del gestore stesso. Per questo motivo la Cassazione ha respinto il ricorso del gestore alla condanna da parte della Corte d'appello.
Fin qui la sentenza della Cassazione. E ci troviamo nel campo del danno patrimoniale. Ma non possiamo tralasciare il fatto che una caduta da cavallo possa originare anche un danno non patrimoniale, come disciplinato dall'art. 2059 c.c. Parliamo del danno biologico, del danno morale, del danno esistenziale. E li riscontriamo quando la caduta va ad implicare anche la sfera psicologica del danneggiato. Quando dalla caduta stessa può per esempio insorgere una qualche patologia psicologica che crea problemi nella sfera comportamentale del danneggiato.
Altra cosa ancora, della quale non si parla nell'ambito della sentenza, è la responsabilità contrattuale, che è quella che lega il gestore e l'istruttore al danneggiato. Anche questo tipo di responsabilità non è stata invocata dalla danneggiata, ma ben potrebbe essere richiesta, in quanto l'impegno preso contrattualmente dal gestore, in caso di caduta, viene disatteso.
Rispondi

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Da: gnek genk13/12/2016 13:10:24
VIA SEMP
Rispondi

Da: ForzaViola8413/12/2016 13:12:09
Hai ragione si parte da 2050 e 2052
Rispondi

Da: E BASTA!!!13/12/2016 13:13:09
NAPOLI?
Rispondi

Da: NoblesseOblige13/12/2016 13:16:35
@ForzaViola84
non trovo nulla sul punto aggravamento del danno per errata diagnosi, se spezza il nesso causale tra il fatto del danneggiante ed il danno (in pratica se il primo è esonerato, atteso che "la frattura poteva essere curata senza operazione")
Rispondi

Da: lawmen13/12/2016 13:17:58
Tribunale di Trento, Civile, Sentenza 9 giugno 2011, n. 496

"Sussiste la responsabilità professionale del medico curante che per non aver disposto il ricovero ospedaliere al paziente colpito da un infarto miocardio acuto, complicato da scompenso cardiaco, laddove il medico curante, nonostante sia stato contattato ripetutamente, non abbia ritenuto necessario predisporre il ricovero. L'accertamento peritale dal quale si evinca che un tempestivo ricovero ospedaliero con conseguente inquadramento diagnostico ed un altrettanto tempestivo trattamento terapeutico, pur non garantendo la sopravvivenza del paziente, certamente avrebbe ridotto il tasso di mortalità induce a ritenere che il paziente, se tempestivamente ricoverato e sottoposto a trattamenti idonei, avrebbe avuto una possibilità di sopravvivenza attestata intorno al 50%-70%. Alla luce di siffatte considerazioni deve concludersi per la sussistenza del nesso causale tra la condotta del medico, della quale deve ritenersi accertata la natura colposa, e la morte del paziente. Ne consegue il diritto degli eredi al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dalla sofferenza soggettiva conseguente alla perdita del rapporto parentale. Detto danno deve certamente ritenersi sussistente in capo ai figli del deceduto in quanto facenti parte del nucleo familiare che naturalmente si forma".

Rispondi

Da: In bocca a lupo13/12/2016 13:19:59
Responsabilità civile - Proprietà di animali - In genere - Attività di equitazione svolta da allievi all'interno di un circolo ippico - Danni subiti dagli allievi -Presunzione di responsabilità ex art. 2052, e non ex art. 2050 - Conseguenze -Prova liberatoria - Caso fortuito - Rilevanza - Portata. (Cod.Civ. Artt. 2050, 2052)
L'attività di equitazione svolta all'interno di un circolo ippico, alla presenza di un istruttore, con cavalli collaudati e addestrati ad essere montati da persone non esperte, le quali, peraltro, in quanto allievi, vengono portate a conoscenza delle regole fondamentali dell'equitazione, non può in linea di principio, proprio per tali caratteristiche, essere annoverata tra le attività pericolose ex art. 2050 Cod.Civ.,- salvo l'accertamento, in fatto, di specifiche caratteristiche proprie del caso concreto, idonee a rendere obiettivamente pericoloso lo svolgimento dell'attività equestre- ed è pertanto soggetta alla presunzione di responsabilità di cui all'art. 2052 Cod. Civ., prevista a carico del proprietario o di chi si serve dell'animale per il periodo in cui lo ha in uso, in relazione ai danni cagionati dallo stesso agli allievi durante le esercitazioni. Tale responsabilità si fonda non su di un comportamento o un'attività del proprietario ( o di chi si serve dell'animale), ma da un'attività dell'animale stesso, e trova un limite solo nel caso fortuito, ossia nell'intervento di un fattore esterno nella causazione del danno, che presenti i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e della assoluta eccezionalità. Ne consegue che la rilevanza del caso fortuito attiene al profilo causale, ciò che dà ragione anche della inversione dell'onere della prova: all'attore compete solo di provare la esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre il convenuto per liberarsi, dovrà provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
CORTE DI CASSAZIONE, Sez.III civile, sentenza 4 dicembre 1998, n.12307, Pres. Giuliano, Rel. Segreto, PM Raimondi (parz. diff.), Ric. Raniboni (avv. Smiroldo-Ghezzi), Res. Centro Reg. inccremento ippico di crema (avv. Ciabattini-Dossena).
Responsabilità civile - Proprietà di animali - Scuola di equitazione - Danni causati da caduta da cavallo - Responsabilità dell'esercente la scuola - Titolo - Prova liberatoria - Prova dell'assenza di colpa - Insufficienza - Prova del caso fortuito - Necessità. (Cod.Civ. Artt. 2050, 2052)
In caso di danni alla persona causati da caduta da cavallo occorsa durante una lezione di equitazione, il gestore del maneggio, in quanto proprietario o utilizzatore dei cavalli che servono per le esercitazioni, è soggetto alla presunzione di responsabilità di cui all'art. 2052 Cod.Civ., e non a quella i cui all'art. 2050 Cod. Civ., a meno che non si tratti di danni conseguenti alle esercitazioni di principianti, ignari di ogni regola di equitazione, o di allievi giovanissimi la cui inesperienza e conseguente incapacità di controllo dell'animale, imprevedibile nelle sue reazioni se non sottoposto ad un comando valido, rende pericolosa l'attività imprenditoriale di maneggio. In tema di responsabilità per l'esercizio di attività pericolosa ex. Art. 2050 Cod. Civ., l'esercente l'attività stessa come prova liberatoria dovrà provare di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno. La responsabilità del proprietario dell'animale, ex art. 2052 Cod.Civ., costituisce una ipotesi di responsabilità oggettiva, fondata non sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l'animale. Ne consegue che al proprietario ( o all'utilizzatore) dell'animale che ha causato il danno, per andare esente da responsabilità, non è sufficiente fornire la prova negativa della propria assenza di colpa, ma deve fornire la prova positiva che il danno è stato causato da un evento fortuito (cioè imprevedibile, inevitabile, assolutamente eccezionale).

Mi sembrano utili
Rispondi

Da: DDDDD13/12/2016 13:20:14
TRACCIA 1-PROCEDETE COSI':
1) Responsabilità maneggio ex art.2052 c.c. e non 2050 (Cass 7093/2015);
2) Nullità dichiarazione esonero responsabilità ex art.1229 c.c. 1° comma x colpa grave (piccolo alla seconda lezione, cavallo nervoso con istrutore che interviene 2 volte!!) e 2° comma perchè la tutela della salute è norma di ordine pubblico (Cass.915/1999)

Più tardi arrivo con il resto x la resp. medica
Rispondi

Da: NoblesseOblige13/12/2016 13:20:34
questa è simile al caso
http://www.prontoprofessionista.it/articoli/4222/sinistro-stradale-e-responsabilit%E0-medica/
Rispondi

Da: Gaetano90 13/12/2016 13:21:14
Per chi ha scelto la traccia n. 2
Io penso che il punto saliente sia questo:
In materia di donazione, se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione, in quanto dispositiva, è valida ed efficace; se, invece, la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell'atto l'obbligazione di procurare l'acquisto dal terzo al donatario. La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria di dare, purché l'altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un'apposita espressa affermazione nell'atto pubblico (art. 782 cod. civ.). Se, invece, l'altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i "beni altrui" e quelli "eventualmente altrui", trattandosi, nell'uno e nell'altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell'atto, l'unico rilevante al fine di valutarne la conformità all'ordinamento. In sostanza, la posizione del coerede che dona uno dei beni compresi nella comunione (ovviamente, nel caso in cui la comunione abbia ad oggetto una pluralità di beni) non si distingue in nulla da quella di qualsivoglia altro donante che disponga di un diritto che, al momento dell'atto, non può ritenersi incluso nel suo patrimonio.
F  o   n   t    e      L    y        b             r
Sto partendo da qui per individuare gli istituti da trattare nella prima parte e poi agganciarmi a questa sentenza
Rispondi

Da: Luu 13/12/2016 13:22:02
Per la traccia 2 ???
Rispondi

Da: buono13/12/2016 13:23:09
ragazzi le tracce sono buone
Rispondi

Da: NoblesseOblige13/12/2016 13:24:07
SEMPRE PER LA PRIMA TRACCIA, ovviamente il caso è solo simile ma perfettamente calzante
Sentenza n. 28246 del 07 Luglio 2016

"…nel caso di incidente stradale causativo di lesioni, anche l'ipotetica negligenza o imperizia dei medici, persino ove di elevata gravità, non è idonea ad elidere il nesso causale tra la condotta e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini della esclusione del nesso di causalità occorre un errore sanitario del tutto eccezionale e da solo determinante l'evento letale….".
Rispondi

Da: memeri13/12/2016 13:28:04
difficileeeee. suggerimenti
Rispondi

Da: Hip13/12/2016 13:29:05
La prima traccia è responsabilità ex 2050 perché è fanciullo e perché il cavallo era nervoso già prima
Rispondi

Da: DDDDD13/12/2016 13:30:35
La dichiarazione unilaterale dell'allievo di una scuola di equitazione, con la quale il gestore sia esonerato da ogni responsabilità per i danni patiti dagli allievi, è improduttiva di effetti nei casi di responsabilità per colpa grave, ex art. 1229 c.c. Tale colpa grave è ravvisabile nella condotta degli istruttori i quali, pur avendo notato che uno degli animali impiegati per l'esercitazione dava segni di nervosismo, non lo abbiano sostituito.

Cassazione civile, sez. III, 19/06/2008, n. 16637
Rispondi

Da: buono13/12/2016 13:32:06
traccia 2
Rispondi

Da: 1713/12/2016 13:32:34
Per la prima se sentenza è la numero 7093 del 2015..
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARLEO Giovanni - Presidente -
Dott. CARLUCCIO Giuseppa - Consigliere -
Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere -
Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 19835/2011 proposto da:
B.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORVIETO 1, presso lo studio dell'avvocato
CAUDULLO RAFFAELE, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ROBERTO RISCICA giusta
procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
Z.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GAVINANA 4, presso lo studio dell'avvocato
ANGELINI DOMENICO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DONATELLA AGRIZZI giusta
procura a margine del secondo foglio del controricorso;
- controricorrente -
e contro
G.L. (OMISSIS);
- intimato -
avverso la sentenza n. 1276/2011 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 09/06/2010 R.G.N.
516/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/2015 dal Consigliere Dott. MARCO
ROSSETTI;
udito l'Avvocato ROBERTO RISCICA;
udito l'Avvocato DOMENICO ANGELINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per
l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il 16.6.1986, durante una lezione di equitazione, la sig.a Z. M. cadde dal cavallo che montava e patì
lesioni personali.
Nel 1989, per ottenere il risarcimento del conseguente danno, convenne dinanzi al Tribunale di Treviso il
gestore della scuola di equitazione dell'annesso maneggio (sig. B.D.) e l'istruttore di equitazione (sig. G.L.).
2. Dopo quattordici anni di giudizio il Tribunale di Treviso, con sentenza 12.6.2003 n. 1570, accolse la
domanda nei confronti di B.D., rigettandola nei confronti di G.L..
3. La sentenza venne appellata sia da B.D., il quale riteneva erronea l'affermazione della propria
responsabilità; sia da Z.M., la quale riteneva erronea per difetto la stima del danno.
La Corte d'appello di Venezia, con sentenza 9.6.2010 n. 1276, rigetto l'appello di B.D. ed accolse quello di
Z.M..
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d'appello ritenne che:
(a) B.D. dovesse rispondere dei danni causati dall'animale di sua proprietà ai sensi dell'art. 2052 c.c.;
(b) tale presunzione può essere vinta solo dalla prova del caso fortuito;
(c) nella specie Z.M. era caduta dopo che l'animale da lei montato si era imbizzarrito, e tale circostanza non
costituisce un caso fortuito.
4. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da B. D., sulla base di due motivi. Ha resistito con
controricorso Z.M..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di
violazione di legge di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3. Si assume violato l'art. 2052 c.c..
Deduce il ricorrente che al gestore del maneggio, nel caso di danni causati dagli animali, deve applicarsi la
presunzione di cui all'art. 2050 c.c., e non quella di cui all'art. 2052 c.c..
L'applicabilità al gestore del maneggio della presunzione di cui all'art. 2052 c.c., sarebbe erronea per due
ragioni:
- sia perchè tale norma fa riferimento ai soli danni causati dall'animale a persone che accidentalmente
vengano in contatto con esso, mentre nel caso della scuola di equitazione il contatto tra animale e persona
è voluto e non accidentale;
- sia perchè l'equitazione è uno sport, e chi accetta di praticarla accetta per ciò solo il rischio d'una caduta
dalla groppa dell'animale montato.
Dall'applicabilità all'attività di maneggio della presunzione di cui all'art. 2050 c.c., discende che il gestore,
per liberarsi dalla presunzione di colpa, deve provare solo di avere adottato tutte le cautele necessarie:
nella specie prova adeguatamente fornita.
Avrebbe pertanto errato la Corte d'appello, conclude il ricorrente, nell'applicare la più rigorosa previsione
di cui all'art. 2052 c.c..
1.2. Il motivo è inammissibile, per due distinte ed indipendenti ragioni.
1.3. La prima ragione è che con esso si censura, quale vizio di violazione di legge, un tipico accertamento di
merito.
Il giudice chiamato a stabilire se sussista la responsabilità civile del gestore d'una scuola d'equitazione, deve
innanzitutto stabilire se tale attività possa qualificarsi "pericolosa" ai sensi dell'art. 2050 c.c.: in caso
affermativo l'assoggetterà alle previsioni di tale norma; in caso negativo valuterà se sia applicabile la
diversa presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2052 c.c..
Tuttavia lo stabilire se una attività sia da reputare "pericolosa" ai sensi dell'art. 2050 c.c., al fine di
sottoporre chi la esercita alla presunzione prevista da quella norma, è un accertamento di fatto, non una
valutazione in diritto. "Pericolosa", ex art. 2050 c.c., è infatti l'attività potenzialmente causativa di danno
non solo per la sua natura, ma anche per la natura dei mezzi adoperati.
Esistono dunque attività pericolose di per sè, ed attività svolte in modo pericoloso, cioè pericolose in
relazione al caso concreto: e per queste ultime l'accertamento della "pericolosità" non può che essere
compiuto dal giudice di merito tenendo conto di tutte le specificità della fattispecie, con accertamento
sottratto al sindacato di legittimità. La gestione d'una scuola d'equitazione può essere in concreto
pericolosa, ma può anche non esserlo: tale requisito non sussiste in astratto, ma va accertato in concreto in
base alle modalità con cui viene impartito l'insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati ed alla
qualità degli allievi (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 14747 del 17/10/2002, in motivazione).
Questa Corte ha da molto tempo suggerito, al riguardo, una massima di esperienza quale criterio
orientativo per la soluzione dei casi pratici: ovvero quella consistente nel presumere che, di norma,
impartire lezioni di equitazione a fanciulli o principianti comporta pericoli che non sussistono quando gli
allievi sono esperti; con la conseguenza che la prima attività (impartire lezioni a principianti) sarebbe
pericolosa, la seconda (impartire lezioni ad esperti) non lo sarebbe (Sez. 3, Sentenza n. 5664 del
09/03/2010, Rv. 611747; Sez. 3, Sentenza n. 16637 del 19/06/2008, Rv. 603826).
Deve tuttavia essere ben chiaro che quella appena indicata non è una regula iuris, ma una mera massima
d'esperienza, basata sull'id quod plerumque accidit: sicchè non viola l'art. 2050 c.c. il giudice di merito che,
motivando, ritenesse nel caso concreto pericolosa l'attività di insegnamento dell'equitazione impartita ad
allievi esperti, ovvero ritenesse non pericoloso l'insegnamento dell'equitazione a fanciulli.
In questo senso si espresse questa Corte nella sentenza capostipite del relativo orientamento, allorchè
affermò che "lo stabilire se l'attività di maneggio sia da qualificarsi pericolosa per sua natura o per la natura
dei mezzi adoperati deve (...) ritenersi affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito, secondo
nozioni che rientrano nella comune esperienza relativa alla disciplina della scuola di equitazione" (sono
parole di Sez. 3, Sentenza n. 1380 del 11/02/1994, Rv. 485278, in motivazione).
Se dunque l'accertamento della "pericolosità" d'una scuola d'equitazione costituisce un accertamento de
facto, è evidente che la relativa vantazione compiuta dal giudice di merito potrà semmai essere censurata
per vizio di motivazione, ma non certo per violazione di legge, vizio inconcepibile rispetto ad un
accertamento fattuale.
1.4. Vi è poi, come accennato, una seconda ragione di inammissibilità del primo motivo di ricorso,
rappresentata dal difetto di interesse ex art. 100 c.p.c..
Sostiene il ricorrente che la Corte d'appello avrebbe errato nell'assoggettare la responsabilità del gestore
d'una scuola di equitazione alla presunzione di cui all'art. 2052 c.c. (danno da animali) invece che a quella di
cui all'art. 2050 c.c. (esercizio di attività pericolosa).
Spiega il proprio interesse a far valere tale errore deducendo che dalla presunzione di cui all'art. 2050 c.c.,
ci si può liberare dimostrando di avere adottato le opportune cautele nello svolgimento dell'attività; dalla
presunzione di cui all'art. 2052 c.c., invece ci si può liberare solo dimostrando il caso fortuito.
Questa affermazione non è esatta, e nel caso di specie la Corte d'appello non sarebbe potuta pervenire a
conclusioni diverse nemmeno se avesse applicato l'art. 2050 c.c.. Di qui il difetto di interesse del ricorrente.
1.5. La regola generale secondo cui chi invoca in giudizio il risarcimento del danno ha l'onere di provare la
colpa del responsabile è in molti casi attenuata od esclusa dal legislatore, allo scopo di assicurare - per
ragioni di politica legislativa - maggior tutela alla vittima dell'illecito o al partner contrattuale di un
contraente inadempiente.
L'attenuazione del generale onere della prova può tuttavia avvenire con due gradi diversi di intensità, cui
corrispondono inversamente altrettanti livelli crescenti del contenuto della prova liberatoria gravante sul
responsabile.
1.5.1. In taluni casi, la legge solleva il danneggiato dall'onere di provare la colpa del responsabile
(presunzione di colpa). E' l'ipotesi di cui all'art. 1218 c.c., a norma del quale "il debitore che non esegue
esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o
il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".
La "causa non imputabile" è un dato meramente negativo, consistente nell'assenza di colpa: ciò vuoi dire
che il debitore, quando sia gravato da una presunzione di colpa siffatta, se ne può liberare semplicemente
dimostrando di non essere stato negligente, ovvero di avere adottato le cautele che la legge, il contratto o
la comune prudenza di cui all'art. 1176 c.c., rendevano da lui esigibili.
1.5.2. In altri casi la legge, fermo restando l'esonero del danneggiato dal dovere provare la colpa del
responsabile, addossa a quest'ultimo un onere probatorio più rigoroso, consistente nel dovere provare il
fatto positivo, estraneo alla sua sfera di azione, che ha costituito la causa esclusiva del danno (presunzione
di responsabilità).
Ricorrendo tale ipotesi, al convenuto nel giudizio di danno per andare esente da responsabilità non basterà
dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, ma sarà necessario dimostrare che il danno è dovuto ad
una causa oggettiva a lui estranea.
1.6. La responsabilità del proprietario dell'animale per i danni da questo causati è da tempo inquadrata sia
da questa Corte, sia dalla dottrina pressochè unanime, tra le ipotesi di responsabilità presunta, non tra
quelle di colpa presunta.
Si tratta di un orientamento millenario, risalente all'istituto dell'actio de pauperie contemplata dal diritto
romano classico, dal quale non esistono ragioni per discostarsi.
Secondo questo orientamento, la presunzione di responsabilità per danno causato da animali può essere
superata esclusivamente qualora il proprietario o colui che si serve dell'animale provi il caso fortuito, inteso
quale fattore concreto del tutto estraneo alla sua condotta. Da ciò si è tratta la conseguenza che non può
attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell'uso della normale diligenza nella custodia
dell'animale stesso o della mansuetudine di questo, essendo, e che è irrilevante che il danno sia stato
causato da impulsi interni imprevedibili o inevitabili della bestia (Sez. 3, Sentenza n. 75 del 06/01/1983, Rv.
424871; Sez. 3, Sentenza n. 778 del 05/02/1979, Rv. 396959).
L'animale, infatti, sensu caret: e l'imprevedibilità dei suoi comportamenti non può per ciò costituire un caso
fortuito, costituendo anzi una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio.
1.7. La responsabilità dell'esercente attività pericolosa (art. 2050 c.c.) ha dato invece luogo a maggiori
discussioni in dottrina, e ad una significativa evoluzione della giurisprudenza di questa Corte.
Secondo l'orientamento più antico, l'art. 2050 c.c., prevedrebbe una mera presunzione di colpa, con la
conseguenza che l'esercente l'attività pericolosa si libera da responsabilità fornendo la prova di avere
tenuto una condotta diligente, e non è necessario che fornisca anche la prova del caso fortuito. Più di
recente tuttavia, si è affermato che la responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. ha natura oggettiva: essa
pertanto sussiste sulla base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di
colpa che possa essere mosso all'esercente l'attività stessa (Sez. 3, Sentenza n. 26516 del 17/12/2009, Rv.
610473, ove si afferma che "la responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. ha natura oggettiva, e sussiste sulla
base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di colpa che possa essere
mosso all'esercente l'attività stessa"; nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 8457 del 04/05/2004, Rv.
572599).
1.8. Ora, nel caso di specie il ricorrente assume che, se la Corte d'appello avesse inquadrato la fattispecie
nell'ipotesi di "attività pericolosa", egli avrebbe evitto la condanna, avendo dimostrato nel giudizio di
merito di avere tenuto una condotta negligente sia nella scelta dell'animale da mettere a disposizione
dell'allieva, sia nella scelta dell'istruttore.
E tuttavia, poichè come detto anche quella di cui all'art. 2050 c.c., è una presunzione di responsabilità al
pari di quella prevista dall'art. 2052 c.c., essa può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa.
Pertanto all'esercente l'attività pericolosa non basta, per evitare la condanna, la prova negativa di non aver
commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver
impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso, "di guisa che anche il fatto del
danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da
escludere in modo certo il nesso causale tra l'attività pericolosa e l'evento, e non già quando costituisca
elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia
reso possibile l'insorgenza a causa delle inidoneità delle misure preventive adottate" (così, testualmente,
Sez. 3, Sentenza n. 12307 del 04/12/1998, Rv. 521400; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 4710 del
29/04/1991, Rv. 471901).
Nel caso di specie è lo stesso ricorrente ad allegare come dall'istruttoria fosse emerso che l'animale
assegnato a Z. M., se pure di norma tranquillo, "in qualche occasione si era dimostrato un pò nervoso"; e
non vi è dubbio che assegnare ad un allievo non esperto un animale potenzialmente nervoso è condotta
inidonea alla prevenzione del rischio.
Da tutto ciò consegue che la Corte d'appello, quand'anche avesse applicato alla fattispecie la presunzione
di cui all'art. 2050 c.c., non sarebbe potuta pervenire a conclusioni diverse da quelle effettivamente
raggiunte, circa l'assenza di prova liberatoria. Di qui il difetto di interesse del ricorrente ad chiedere la
cassazione della sentenza d'appello, per emendare un errore che - se emendato - non comporterebbe
affatto l'accoglimento della sua eccezione.
1.9. Deve soggiungersi, per completezza, che nessuno dei due argomenti in iure spesi dal ricorrente è
idoneo a vincere la sistemazione data alla materia dalla giurisprudenza di questa Corte, e tratteggiata nei
pp. precedenti.
Secondo il ricorrente, sarebbe erroneo applicare all'attività del gestore di maneggio la presunzione di cui
all'art. 2052 c.c.: sia perchè tale norma disciplina solo i casi in cui il contatto tra animale e danneggiato è
accidentale; sia perchè chi frequenta una scuola di maneggio accetta il rischio di cadute.
1.9.1. L'argomento dell'"accidentalità" (pag. 8 del ricorso) è irrilevante.
L'art. 2052 c.c., si fonda sul principio cujus commoda, ejus et incommoda, in virtù del quale chi usa
l'animale per un proprio interesse (anche non patrimoniale) deve rispondere dei danni da esso causati. Che
l'animale venga a contatto col danneggiato accidentalmente o per volontà del proprietario o di terzi è
dunque elemento del tutto estraneo alla fattispecie, che non figura nella lettera della legge, e che non
potrebbe essere introdotto dall'interprete, a pena di snaturare il fondamento logico della norma.
1.9.2. Del pari irrilevante è l'argomento secondo cui, costituendo l'equitazione un'attività sportiva, chi la
pratica accetta il rischio di cadute.
Lo svolgimento volontario di attività sportiva comporta l'esposizione volontaria dell'atleta al rischio
intrinseco connesso alla disciplina praticata. L'accettazione del rischio da parte dell'atleta o dell'allievo non
esclude tuttavia la responsabilità dell'organizzatore della gara o dell'istruttore sportivo.
Quest'ultima permarrà intatta in tutti i casi in cui l'organizzatore o l'istruttore abbiano violato le regole
poste a salvaguardia dell'incolumità degli allievi (colpa specifica), ovvero le regole di comune prudenza e
diligenza (colpa generica: così Sez. 3, Sentenza n. 21664 del 08/11/2005, Rv. 584983; Sez. 3, Sentenza n.
5136 del 03/04/2003, Rv. 561764; Sez. 3, Sentenza n. 2414 del 10/07/1968, Rv.
334800).
Ora, se l'accettazione del rischio da parte dell'atleta non esclude la responsabilità dell'istruttore o della
scuola nei casi di colpa concretamente accertata, a fortiori non la potrà escludere nei casi di responsabilità
presunta dalla legge.
Sicchè, quando a carico della scuola sportiva sia configurabile una ipotesi di responsabilità aggravata (ad
es., ex artt. 2048, 2050 e 2051 o, come nella specie, art. 2052 c.c.), la volontaria esposizione al rischio da
parte dell'atleta diventa del tutto irrilevante, salvo che non integri gli estremi della condotta colposa di cui
all'art. 1227 c.c., comma 1.
Il principio appena enunciato è stato già affermato da questa Corte proprio in tema di responsabilità del
gestore di maneggio: in quel caso, chiamata a valutare la correttezza della decisione di merito che aveva
ritenuto di escludere la responsabilità del gestore per il fatto che l'allievo cavallerizzo avesse "accettato il
rischio" di danni alla persona, questa Corte osservò "la vantazione della Corte territoriale, secondo la quale
esiste un margine di rischio, ineliminabile, che chi frequenta un maneggio, accetta preventivamente, non
può trovare spazio nella disciplina in esame, dovendosi unicamente verificare se il titolare della attività
pericolosa abbia in concreto fornito la prova liberatoria prevista dall'ultima parte dell'art. 2050 c.c." (sono
parole di Sez. 3, Sentenza n. 17216 del 22.7.2010, non massimata; va da sè che, in ragione di quanto già
esposto, il medesimo principio troverà applicazione quando il gestore sia gravato dalla presunzione di cui
all'art. 2052 c.c.).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un
vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5.
La censura è così sintetizzabile:
(a) secondo la Corte d'appello, il gestore d'una scuola d'equitazione è soggetto alla presunzione di
responsabilità di cui all'art. 2050 c.c., quando l'insegnamento è impartito a principianti; ed alla diversa
presunzione di cui all'art. 2052 c.c., quando l'insegnamento è impartito ad allievi già esperti. Nel caso di
specie, la Corte d'appello ha ritenuto Z.M. una allieva "esperta", ma l'ha fatto sulla base di una motivazione
insufficiente e contraddittoria:
insufficiente, perchè contrastante con le prove raccolte;
contraddittoria, perchè la Corte d'appello ha da un Iato affermato che la danneggiata era una allieva già
avanzata, e dall'altro che "non era esperta".
2.2. Il motivo è infondato.
La contraddittorietà della motivazione ravvisata dal ricorrente in realtà non sussiste.
Il vizio logico di contraddittorietà va infatti valutato non già estrapolando dal testo della sentenza singoli
brani o parole, ma valutando nel complesso la coerenza e la logicità dell'argomentazione.
Nel caso di specie, il senso delle affermazioni di cui a pag, 8 della sentenza impugnata: la Corte d'appello
intende dire che Z. M., al momento dell'infortunio, aveva già superato la primissima fase di istruzione, e
pertanto non poteva considerarsi più una principiante. In questo contesto semantico, la proposizione
concessiva "pur non essendo esperta" ha con evidenza un senso logico più ristretto di quello sintattico, e
sta a significare che l'allieva non era ancora una professionista, ma nello stesso tempo non era più una
principiante.
2.3. Nemmeno sussiste il vizio di insufficienza della motivazione: la Corte ha A ritenuto che non potesse
ritenersi "principiante" un allievo che, dopo nove v lezioni, inizi a cavalcare un animale non più tenuto alla
corda dall'istruttore: e questa è una vantazione squisitamente di merito, non incoerente, non illogica e non
censurabile in sede di legittimità.
3. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 1.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) rigetta il ricorso;
-) condanna B.D. alla rifusione in favore di Z. M. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano
nella somma di Euro 2.200,00, di cui 200,00 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12
gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2015
Rispondi

Da: ForzaViola8413/12/2016 13:34:10
@Noblesse
Secondo me il primo non è esonerato, non è una condicio sine qua non.. semmai sarebbe il contrario, ossia se il pronto soccorso avesse operato con correttezza e il ragazzo fosse guarito, il ragazzino avrebbe avuto dirittto lo stesso al risarcimento per responsabità per l'evento lesivo del cavallo... per tanto credo si debba proprio scindere la situazione, ossia, analizzare responsabilità con nullità del patto, successivamente il maggior danno , dovuto all'eventuale errore medico andrà imputato all'azienda ospedaliera
Rispondi

Da: NoblesseOblige13/12/2016 13:34:45
Prima traccia a grandi linee:

Esporre se vi è responsabilità del maneggio, ex 2050 che pare esserci.
(nullità della clausola limitazione responsabilità? Pur non mancando pareri contrari si ritiene, che tali clausole siano assolutamente nulle, ai sensi dell'art. 1229 Cod. Civ. ("E' nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico). Ciò soprattutto con riguardo ad eventuali danni fisici, stante l'indisponibilità del diritto all'integrità fisica)

Responsabilità medica non spezza nesso di causalità tra fatto del danneggiante ed evento

Maneggio responsabile per il 6% di invalidità
AUSL responsabile per i danni da mancata diagnosi (aggravamento del danno)



Rispondi

Da: E BASTA!!!13/12/2016 13:34:48
AVETE NOTIZIE DA NAPOLI?
Rispondi

Da: 1713/12/2016 13:35:02
Per la seconda
Cass. civ., Sez. Unite, 15-03-2016, n. 5068
Svolgimento del processo
M.E. adiva il Tribunale di Reggio Calabria con citazione del gennaio 1989
chiedendo che venisse: a) dichiarata aperta la successione di C.P., da devolversi
secondo le norme della successione legittima per 1/4 in favore del fratello C.F.,
per 1/4 in favore di C.N., C.E. e C.C. (in rappresentazione di C.G., fratello di
C.P.), per 1/4 in favore della sorella C.V. e per 1/4 In favore dei figli e dei
discendenti dell'altra sorella C. G.; b) dichiarata aperta, altresì, la successione di
C. F., da devolversi secondo le norme della successione legittima per 1/3 in favore
dei figli del fratello C.G., per 1/3 in favore dei figli della sorella premorta C.V. (a
lei subentrati per rappresentazione) e per 1/3 in favore dei figli e dei discendenti
della sorella premorta C.G. (a lei subentrati per rappresentazione); 3) disposta la
formazione delle masse ereditarie comprendendo in esse tutti i beni relitti
risultanti dalle dichiarazioni di successione; 4) disposta la divisione dei beni relitti
e lo scioglimento della comunione; 5) disposta la divisione per stirpi, attribuendo
a ciascuna stirpe beni corrispondenti alle quote di diritto di ciascuna; 6) ordinata
la formazione del progetto divisionale e gli adempimenti consequenziali.
Instauratosi il contraddittorio, si costituivano le germane S.A., S.E. e S.V. (aventi
causa di C.V.), le quali aderivano alla domanda di divisione e chiedevano che tra i
beni da dividere fossero inclusi anche quelli oggetto della donazione fatta da C.F.
al nipote C.N. con atto pubblico del 1987, deducendone la nullità per inesistenza
dei beni donati nella sfera giuridica del donante, nonchè che venisse ordinato a
C.N. di rendere il conto della gestione degli immobili facenti parte dell'eredità di
P. e di C.F.. Si costituiva anche Sc.Vi., che aderiva alla domanda di divisione,
nonchè i germani C.N., C.E. e C. C., i quali pur non opponendosi alla divisione,
chiedevano che dalla eredità venissero detratti i beni oggetto della donazione per
atto notaio Miritello del 1987. Nel giudizio si costituivano anche i germani M.P.
F.M., M.A.S.M. e M. G.R.M., figli di M.P., avente causa di
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3
C.G., aderendo alla domanda principale, nonchè M. L. e Z.M.R., in qualità di
eredi di M. N., quest'ultima in proprio e quale esercente la potestà sulla figlia
minore M.C., che ugualmente facevano proprie le domande dell'attrice.
Nel processo interveniva la curatela del fallimenti di M. N. e Z.M.R. che, oltre a
costituirsi in qualità di eredi di Ca.Lu., C.N., C.E. e C.C., ribadiva le richieste già
formulate. Con sentenza non definitiva del 30 aprile 2004, il Tribunale adito
dichiarava aperta la successione di C.P. e devoluta secondo le norme della
successione legittima la sua eredità, nonchè quella di C.F., parimenti devoluta
secondo le norme della successione legittima. Il Tribunale dichiarava, altresì, la
nullità dell'atto di donazione per atto notaio Miritello del 1 ottobre1987 e
rimetteva la causa sul ruolo con separata ordinanza per il prosieguo. Avverso la
sentenza non definitiva i germani C.N., C. E. e C.C., in proprio e nella qualità di
eredi di Ca.Lu., censurando il capo della sentenza con cui era stata dichiarata la
nullità dell'atto di donazione del 1987. Nella resistenza di S.E., S.A., S.E. e S.V.,
nonchè di M. P.F.M., M.A.S.M. e M.G.R.M., contumaci le restanti parti, la Corte
di appello di Reggio Calabria rigettava il gravame e per l'effetto confermava
integralmente la sentenza impugnata.
A sostegno della decisione adottata la Corte distrettuale evidenziava che avendo il
defunto C.F. donato al nipote C.N. la nuda proprietà della sua quota
(corrispondente ai 5/12 indivisi dell'intero) dei due appartamenti costituenti
l'intero secondo piano del fabbricato di vecchia costruzione a sei piani sito in via
(OMISSIS), dalla lettura sistematica degli artt. 769 e 771 c.c., doveva ritenersi la
nullità dell'atto di donazione, potendo costituire oggetto di donazione solo ed
esclusivamente i beni facenti parte del patrimonio del donante al momento in cui
veniva compiuto l'atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui il
donante era comproprietario pro indiviso di una quota ideale. Avverso tale
sentenza i C. hanno proposto ricorso per cassazione, articolato su quattro motivi,
al quale hanno resistito gli S. e l'originaria attrice con separati controricorsi.
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4
Con ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2011, emessa all'esito dell'udienza del
13 febbraio 2013, la Seconda Sezione di questa Corte, disattese le eccezioni di
inammissibilità formulate dai controricorrenti e ritenuto non fondato il primo
motivo di ricorso, ha, in relazione al secondo, al terzo e al quarto motivo di
ricorso, rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per la eventuale
assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ravvisando nella questione oggetto
del ricorso una questione di massima di particolare importanza.
Disposta la trattazione del ricorso presso queste Sezioni Unte, in vista dell'udienza
del 10 marzo 2015 i ricorrenti e la controricorrente M.E. hanno depositato
memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Deve preliminarmente essere dichiarata la inammissibilità della costituzione di
B.G.C.F., per difetto di procura speciale, essendo la stesa intervenuta in un
giudizio iniziato prima del 4 luglio 2009 (Cass. n. 7241 del 2010; Cass. n. 18323
del 2014).
2. Come già rilevato, il primo motivo di impugnazione è stato già disatteso dalla
Seconda Sezione.
2.1. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono vizio di motivazione
sul rilievo che, non essendo stato acquisito il fascicolo di primo grado ed avendo
la Corte d'appello esaminato l'atto di donazione solo per la parte riportata nell'atto
di appello, il convincimento del giudice di appello sarebbe il frutto di una
presunzione non vera, essendo il tenore della donazione molto più esteso rispetto
ai brani esaminati in sede di gravarne. Prosegue parte ricorrente che la lettura
integrale dell'atto di liberalità avrebbe consentito di rilevare che l'oggetto della
donazione era costituito, in parte, da un diritto proprio di C.F., e cioè della quota
di comproprietà degli immobili di cui C. F. era titolare in modo esclusivo, per
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5
avere ciascuno dei fratelli C.F., C.P. e C.G. la piena disponibilità di una quota pari
ad 1/3 degli immobili di cui al rogito; per altra parte, dalla quota di 1/3 a lui
pervenuta dalla eredità del fratello C.P.: circostanza, questa, di cui non vi era
alcun cenno nella sentenza impugnata. La Corte d'appello avrebbe quindi errato
nell'accomunare i due cespiti in una indistinta "quota ereditaria".
2.2. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 769 e 771
c.c., in combinato disposto con l'art. 1103 c.c., oltre alla illegittimità della
sentenza impugnata per difetto di motivazione ed errata valutazione dei
presupposti di fatto, per non avere i giudici di merito riconosciuto che C.F. poteva
validamente donare al nipote la quota di proprietà di cui era esclusivo titolare con
riferimento all'immobile di via (OMISSIS), essendo tale bene nella sua piena
disponibilità, potendo essere le argomentazioni del Tribunale riferite semmai alla
residua quota di 1/12 pervenuta al donante per successione ereditaria dal fratello
C.P.. A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di
diritto: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se il divieto di cui all'art. 771 c.c.,
può essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante è titolare in
comunione ordinarla con i propri fratelli".
2.3. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione ed erronea
applicazione degli artt. 771 e 769 c.c., in combinato disposto con gli artt. 1103 e
757 c.c., nonchè carenza assoluta di motivazione, per avere ritenuto i giudici di
merito "beni altrui", fino al momento della divisione, anche i beni in comproprietà
ordinaria, in aperto contrasto con i principi che regolano l'istituto della
comproprietà e dell'art. 1103 c.c., che sancisce il principio della piena
disponibilità dei beni in comproprietà nei limiti della quota di titolarità del
disponente. Ad avviso dei ricorrenti eguali considerazioni varrebbero anche per la
c.d. quota ereditaria. Quanto alla conclusione del giudice di appello circa
l'irrilevanza della qualificazione della fattispecie quale condizione sospensiva, i
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ricorrenti rilevano che la divisione dei beni ereditari, seppure avvenga dopo il
decesso di uno dei coeredi, non cancella i diritti nascenti sui beni ereditari.
A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto:
"Dica la Suprema Corte di Cassazione se l'art. 771 c.c., può essere legittimamente
interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei "beni futuri" con quella
dei "beni altrui".
3. La Seconda Sezione, con l'ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2014 ha
innanzi tutto ricordato come, nonostante l'art. 769 c.c., abbia assoggettato la
donazione al principio consensualistico, sia risultato prevalente In giurisprudenza,
in via di interpretazione analogica dell'art. 771 c.c., la tesi della nullità della
donazione di bene altrui, assumendosi il carattere della necessaria immediatezza
dell'arricchimento altrui e, dunque, dell'altrettanto necessaria appartenenza del
diritto al patrimonio del donante al momento del contratto (sono in proposito
richiamate Cass. 23 maggio 2013, n. 12782; Cass. 5 maggio 2009, n. 10356; Cass.
18 dicembre 1996, n. 1131; Cass. 20 dicembre 1985, n. 6544). La Seconda
Sezione ha, per contro, ricordato, da un lato, le critiche di parte della dottrina,
fondate sullo stesso testo dell'art. 769 c.c., il quale contempla l'arricchimento della
parte donataria operato "assumendo verso la stessa un'obbligazione"; e, dall'altro,
Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596, che ha considerato la donazione di cosa altrui non
nulla, ma semplicemente inefficace, con conseguente sua idoneità a valere quale
titolo per l'usucapione immobiliare abbreviata. La Seconda Sezione ha quindi
aggiunto che la soluzione della questione posta è evidentemente correlata alla
ratio dell'art. 771 c.c.. Nella specie, la questione non riguarderebbe la donazione
dei quattro dodicesimi di cui il donante era titolare inter vivos, dovendosi in parte
qua la liberalità Intendere come di cosa propria, in quanto relativa alla quota del
partecipante in comunione ordinaria, alienata ai sensi e nei limiti dell'art. 1103
c.c.. La questione si porrebbe, piuttosto, quanto all'ulteriore dodicesimo del bene
di provenienza ereditaria, e per il quale il donante intendeva trasferire il proprio
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diritto di coerede, ricadente, tuttavia, sulla quota ex art. 727 c.c., e non (ancora) su
quel determinato Immobile compreso nell'asse.
3.1. In conclusione, la Seconda Sezione ha rimesso all'esame di queste Sezioni
Unite la seguente questione: "Se la donazione dispositiva di un bene altrui debba
ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in
particolare, dell'art. 771 c.c., poiché il divieto di donazione dei beni futuri
ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il
patrimonio del donante e quindi anche quelli aventi ad oggetto i beni altrui,
oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no,
nel caso di donazione di quota di proprietà pro indiviso".
4. Come riferito, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla o no, la
giurisprudenza di questa Corte si è reiteratamente espressa, nel senso della nullità.
4.1. Secondo Cass. n. 3315 del 1979, "la convenzione che contenga una promessa
di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito configura un contratto preliminare
di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a costituire a carico del
promittente un vincolo giuridico a donare, il quale si pone in contrasto con il
principio secondo cui nella donazione l'arricchimento del beneficiario deve
avvenire per spirito di liberalità, in virtù cioè di un atto di autodeterminazione del
donante, assolutamente libero nella sua formazione". La successiva Cass. n. 6544
del 1985, ha affermato che la donazione di beni altrui non genera a carico del
donante alcun obbligo poiché, giusta la consolidata interpretazione dell'art. 771
cod. civ., dal sancito divieto di donare beni futuri deriva che è invalida anche la
donazione nella parte in cui ha per oggetto una cosa altrui; a differenza di quanto
avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che obbliga il non dominus
alienante a procurare l'acquisto al compratore. Tale decisione ha quindi affermato
che "ai fini dell'usucapione
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abbreviata a norma dell'art. 1159 cod. civ. non costituisce titolo astrattamente
idoneo al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l'invalidità a norma
dell'art. 771 c.c., di tale negozio". Sempre nell'ambito della nullità si colloca Cass.
n. 11311 del 1996, così massimata: "l'atto con il quale una pubblica
amministrazione, a mezzo di contratto stipulato da un pubblico funzionario, si
obblighi a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un'area di sua proprietà,
nonché un'altra area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione
nulla, sia perché, pur avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare,
non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia perché
l'atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica amministrazione
(possibilità limitata dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 16, ai soli contratti a titolo
oneroso), sia perché l'art. 771 c.c., vieta la donazione di beni futuri, ossia dell'area
che non rientra nel patrimonio dell'amministrazione "donante" ma che la stessa si
impegna ad espropriare". Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del
2009, secondo cui "la donazione dispositiva di un bene altrui, benché non
espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina
complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 c.c., poiché il divieto di
donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro
oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è
idonea ai fini dell'usucapione decennale prevista dall'art. 1159 c.c., poiché il
requisito, richiesto da questa norma, dell'esistenza di un titolo che legittimi
l'acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento, che sia stato
debitamente trascritto, deve essere inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della
sostanza e della forma del negozio, deve essere suscettibile in astratto, e non in
concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisto
del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare". Da
ultimo, Cass. n. 12782 del 2013 si è espressa in senso conforme alla decisione da
ultimo richiamata.
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4.2. In senso difforme si rinviene Cass. n. 1596 del 2001, che ha affermato il
principio per cui "la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella
donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 c.c., ma è semplicemente inefficace e,
tuttavia, idonea ai fini dell'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., in quanto il
requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un
titolo che sia idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento,
che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto
della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in
concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisto
del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare".
4.3. A ben vedere, il contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali non
coinvolge il profilo della efficacia dell'atto a costituire titolo idoneo per
l'usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione di cosa altrui
nell'area della invalidità, e segnatamente della nullità, ovvero in quella della
inefficacia.
5. Il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel senso che la
donazione di cosa altrui o anche solo parzialmente altrui è nulla, non per
applicazione in via analogica della nullità prevista dall'art. 771 c.c., per la
donazione di beni futuri, ma per mancanza della causa del negozio di donazione.
5.1. Deve innanzi tutto rilevarsi che la sentenza n. 1596 del 2001 evoca la
categoria della inefficacia, che presuppone la validità dell'atto, e si limita ad
affermare la non operatività della nullità in applicazione analogica dell'art. 771
c.c., comma 1, in considerazione di una pretesa natura eccezionale della causa di
nullità derivante dall'avere la donazione ad oggetto beni futuri, ma non verifica la
compatibilità della donazione di cosa altrui con la funzione e con la causa del
contratto di donazione. La soluzione prospettata
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appare, quindi, non condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui alla
citata disposizione la natura di disposizione eccezionale, insuscettibile di
interpretazione analogica; vuoi e soprattutto perché non considera la causa del
contratto di donazione. Al contrario, una piana lettura dell'art. 769 c.c., dovrebbe
indurre a ritenere che l'appartenenza del bene oggetto di donazione al donante
costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del quale
la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. Recita, infatti, la citata
disposizione: "La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una
parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o
assumendo verso la stessa una obbligazione". Elementi costitutivi della donazione
sono, quindi, l'arricchimento del terzo con correlativo depauperamento del
donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il
depauperamento del donante e l'arricchimento del donatario e che, nella
giurisprudenza di questa Corte, va ravvisato "nella consapevolezza dell'uno di
attribuire all'altro un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione,
giuridica o morale" (Cass. n. 8018 del 2012; Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n.
1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980). Appare evidente che, in disparte il caso
della donazione effettuata mediante assunzione di una obbligazione, nella quale
oggetto dell'obbligazione del donante sia il trasferimento al donatario di un bene
della cui appartenenza ad un terzo le parti siano consapevoli, l'esistenza nel
patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento
costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione
è delineata in modo chiaro ed efficace dalla citata disposizione attraverso il
riferimento all'oggetto della disposizione, individuato in un diritto del donante
("un suo diritto"). La non ricorrenza di tale situazione certamente nel caso in cui
né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi
un'efficacia obbligatoria della donazione comporta la non riconducibilità della
donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all'art. 769
c.c.. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene
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altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all'art. 771 c.c., comma 1, la altruità del
bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non
appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla
possibilità di realizzare la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui,
con depauperamento del proprio).
5.2. La mancanza, nel codice del 1942, di una espressa previsione di nullità della
donazione di cosa altrui, dunque, non può di per sé valere a ricondurre la
fattispecie nella categoria del negozio inefficace. Invero, come si è notato in
dottrina, il fatto stesso che il legislatore del codice civile abbia autonomamente
disciplinato sia la compravendita di cosa futura che quella di cosa altrui, mentre
nulla abbia stabilito per la donazione a non domino, dovrebbe suggerire
all'interprete di collegare il divieto di liberalità aventi ad oggetto cose d'altri alla
struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito
divieto di legge. Pertanto, posto che l'art. 1325 c.c., individua tra i requisiti del
contratto "la causa"; che, ai sensi dell'art. 1418 c.c., comma 2, la mancanza di uno
dei requisiti indicati dal'art. 1325 c.c., produce la nullità del contratto; e che
l'altruità del bene non consente di ritenere integrata la causa del contratto di
donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla.
5.3. Con riferimento alla donazione deve quindi affermarsi che se il bene si trova
nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione, in
quanto dispositiva, è valida ed efficace; se, invece, la cosa non appartiene al
donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell'atto
l'obbligazione di procurare l'acquisto dal terzo al donatario. La donazione di bene
altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria di dare, purchè l'altruità sia
conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un'apposita espressa
affermazione nell'atto pubblico (art. 782 c.c.). Se, invece, l'altruità del bene donato
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non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti
obbligatori, nè potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
5.4. La sanzione di nullità si applica normalmente alla donazione di beni che il
donante ritenga, per errore, propri, perché la mancata conoscenza dell'altruità
determina l'impossibilità assoluta di realizzazione del programma negoziale, e,
quindi, la carenza della causa donativa. La donazione di bene non appartenente al
donante è quindi affetta da una causa di nullità autonoma e indipendente rispetto a
quella prevista dall'art. 771 c.c., ai sensi del combinato disposto dell'art. 769 c.c.
(il donante deve disporre "di un suo diritto") e dell'art. 1325 c.c., e art. 1418 c.c.,
comma 2. In sostanza, avendo l'animus donandi rilievo causale, esso deve essere
precisamente delineato nell'atto pubblico; in difetto, la causa della donazione
sarebbe frustrata non già dall'altruità del diritto in sé, quanto dal fatto che il
donante non assuma l'obbligazione di procurare l'acquisto del bene dal terzo.
5.5. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui, come nella
specie, oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché
appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la
sua quota da uno dei coeredi. Non è, Infatti, dato comprendere quale effettiva
differenza corra tra i "beni altrui" e quelli "eventualmente altrui", trattandosi,
nell'uno e nell'altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel
patrimonio del donante al momento dell'atto, l'unico rilevante al fine di valutarne
la conformità all'ordinamento. In sostanza, la posizione del coerede che dona uno
dei beni compresi nella comunione (ovviamente, nel caso in cui la comunione
abbia ad oggetto una pluralità di beni) non si distingue in nulla da quella di
qualsivoglia altro donante che disponga di un diritto che, al momento dell'atto,
non può ritenersi incluso nel suo patrimonio. Né una distinzione può desumersi
dall'art. 757 c.c., in base al quale ogni coerede è reputato solo e immediato
successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla
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successione anche se per acquisto all'incanto e si considera come se non avesse
mai avuto la proprietà degli atri beni ereditari. Invero, proprio la detta previsione
impedisce di consentire che il coerede possa disporre, non della sua quota di
partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo bene
compreso nella massa destinata ad essere divisa, prima che la divisione venga
operata e il bene entri a far parte del suo patrimonio.
6. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: "La donazione
di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per
difetto di causa, a meno che nell'atto si affermi espressamente che il donante sia
consapevole dell'attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne
consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso
compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione,
ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante".
7. In applicazione di tale principio, il ricorso deve essere quindi rigettato. Non
possono essere infatti condivise le deduzioni dei ricorrenti in ordine alla
circostanza che l'atto di donazione riguardava non solo una quota ereditarla del
bene specificamente oggetto di donazione, ma anche una quota della quale il
donante era già titolare per averla acquistata per atto inter vivos. Invero, posto che
è indiscutibile che l'atto di donazione aveva ad oggetto la quota di un dodicesimo
dei beni immobili indicati nell'atto stesso rientrante nella comunione ereditaria,
deve ritenersi che non sia possibile operare la prospettata distinzione tra la
donazione dei quattro dodicesimi riferibili al donante e del restante dodicesimo,
comportando l'esistenza di tale quota la attrazione dei beni menzionati nella
disciplina della comunione ereditaria. Ne consegue che la nullità dell'atto di
donazione per la parte relativa alla quota ereditaria comporta la nullità dell'intero
atto, ai sensi dell'art. 1419 c.c., non risultando che nei precedenti gradi di giudizio
sia emersa la volontà del donatario di affermare
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la validità della donazione per la quota spettante al donante. D'altra parte, non può
non rilevarsi che l'inclusione, anche se solo in parte, degli immobili oggetto di
donazione nella comunione ereditaria comportava la astratta possibilità della loro
assegnazione, in sede di divisione, a soggetto diverso dal donante; con ciò
dimostrandosi ulteriormente la sostanziale inscindibilità della volontà negoziale
manifestatasi con l'atto di donazione dichiarato nullo dal Tribunale di Reggio
Calabria, con sentenza confermata dalla Corte d'appello.
8. In conclusione, il ricorso va rigettato. In considerazione della complessità della
questione e dei diversi orientamenti giurisprudenziali, che hanno reso necessario
l'intervento delle Sezioni Unite, le spese del giudizio possono essere interamente
compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa le spese del
giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della
Corte Suprema di Cassazione, il
10 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2016
Rispondi

Da: XXX13/12/2016 13:35:13
Sentenza della seconda traccia??
Rispondi

Da: domanda12313/12/2016 13:37:33
ragazzi. come devo concludere sulla seconda traccia per la trascrizione del denaro??
Rispondi

Da: ForzaViola8413/12/2016 13:37:50
@noblesse perfetto, convieni con me quindi.
Direi adesso di fare una scaletta concisa ok?
Rispondi

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