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Da: anonimo17/12/2009 10:47:35
qual è la  sentenza per civile??????????grazie

Da: puffa17/12/2009 10:47:38
ragazzi l'atto di civile....è quello??'qualcuno mi sa dire qualcosa??

Da: dada17/12/2009 10:47:59
la sentenza di penale??

Da: salvatore17/12/2009 10:48:55
ragazzi ma è ufficiale a napoli hanno gia dettato???

Da: è_é17/12/2009 10:50:20
a me hanno detto risarcimento x vacanza rovinata

Da: peste8117/12/2009 10:51:57
civile
Tizio e Caia stipulano un contratto di soggiorno x 2 persone presso Hotel Delle Rose in località belle vista dal 20 settembre al 29 settembre 2009, con immediato versamento dell'intero importo pattuito. Il giorno precedente l'inizio del soggiorno, tutaviia, Tizio decede improvvisamente. Caia, allora, si rivolge ad legale volendo ottenere la restituzione dell'importo interamente corrisposto a titolo di pagamento. A seguito di richiesta fatta dal legale di Caia, di restituzione della somma di cui sopra, il legale rappresentante dell'Hotel Delle Rose, pur rammaricandosi dell'evento infausto, dichiara la non disponibilità alla restituzione della somma richiesta, atteso che da parte sua la prestazione era comunque certamente eseguibile. Il candidato assunte le vesti di legale di Caia, rediga atto giudiziario più opportuno, illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie


CASSAZIONE CIVILE, sezione III, 20 dicembre 2007, n. 26958 - Pres. Preden - Rel. Travaglino - P.M.
Fedeli (conf.) - R.B. (avv.ti Liberati, Petraccia) c. G.P. (avv.to Rizzo)
(c.c. artt. 1174, 1325, 1463 )

MASSIMA:
La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente
possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dellâart. 1463 c.c., può essere invocata da entrambe
le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta
impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, lâimpossibilità
sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile lâesecuzione
della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile lâutilizzazione della
prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e
il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità
della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione
dellâobbligazione. (Nella fattispecie, relativa ad un contratto di soggiorno alberghiero prenotato da
due coniugi uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente lâinizio del soggiorno,
la S.C., enunciando il riportato principio, ha confermato la sentenza di merito con cui era stato dichiarato
risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta invocata dal cliente ed ha condannato
lâalbergatore a restituire quanto già ricevuto a titolo di pagamento della prestazione alberghiera).


COMMENTO:

Lâarticolato ragionamento della S.C. â" che coinvolge «il piano del sinallagma contrattuale, id est della causa negoziale intesa nel suo aspetto funzionale â" muove dalla premessa secondo la quale il concetto di «causa» deve essere ricostruito in termini di «causa concreta», e non può essere ristretto allâaspetto strutturale dellâatto, ma influenza anche quello propriamente funzionale.

Ciò consente di affermare che la «finalità turistica» non si traduce in «un irrilevante motivo del contratto de quo, e non si sostanzia in specifici interessi che rimangono nella sfera volitiva interna del creditore della prestazione alberghiera costituendo il semplice impulso psichico interiore che lo spinge alla stipulazione del contratto, ma viene (anche implicitamente) ad obbiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, così connotandone la sua causa sul piano concreto».

Il concetto di causa concreta si rivela, dunque, «funzionale (â) a qualificare il âtipoâ contrattuale, determinando l'essenzialità di tutte le attività e servizi strumentali alla realizzazione della finalità turistica (e cioè il benessere psico-fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare)». Quel medesimo concetto assume, poi, rilievo quale «criterio di adeguamento del rapporto negoziale, considerato nel suo aspetto dinamico-effettuale», assumendo un ruolo «decisivo in ordine alla sorte della vicenda contrattuale (oltre che con riferimento alla fattispecie negoziale considerata nel suo aspetto genetico), in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo sviluppo del rapporto (inadempimento, impossibilità, aggravio della prestazione, ecc.)». Eventi «negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nella specie, turistico), obbiettivato in seno all'elemento causale del contratto, e tali da farlo venire del tutto meno laddove â" in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso â" si accerti l'impossibilità, della relativa realizzazione».

Il che induce la S.C. ad affermare che «la sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione» vada distinta dalla «sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c., ma (â) soltanto sul piano concettuale, e non anche su quello degli effetti». Nel senso, cioè, che il «venire oggettivamente meno dell'interesse creditorio (nella specie, per la morte del soggetto) non può (â) che determinare l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale (art. 1174 c.c.): e se, come nella specie, tale rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno del predetto interesse si risolve in una sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso, assumendo conseguentemente rilievo quale autonoma causa della relativa estinzione».

Da tutto ciò è tratto il principio secondo cui «lâimpossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non disciplinata in modo espresso, costituisce â" analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione â" autonoma causa di estinzione dell'obbligazione: essendo la prestazione divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, la conseguente estinzione del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della sua causa concreta comporta l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni: il debitore non è più tenuto ad eseguirla, il creditore non ha l'onere di accettarla».






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Da: puffa17/12/2009 10:52:25
la traccia di civile è questa:
Tizio e Caio stipulano un contratto di soggiorno per 2 persone presso lâhotel delle Rose in località Bellavista dal 20/09 al 29/09/2009, con immediato versamento dellâintero importo pattuito.
Il giorno precedente lâinizio del soggiorno, tuttavia, Tizio decede improvvisamente.
Caio, allora, si rivolge ad un legale volendo ottenere la restituzione dellâimporto interamente corrisposto a titolo di pagamento.
A seguito di richiesta fatta dal legale di Caio di restituzione della somma di cui sopra, il legale rappresentante dellâhotel delle rose, pur rammaricandosi dellâevento infausto dichiara la non disponibilità alla restituzione della somma richiesta, atteso che da parte sua, la prestazione era comunque certamente eseguibile.
Il candidato, assunte allora le vesti di legale di Caio, rediga lâatto giudiziario più opportuno illustrando gli istituti e le problematiche sottese alla fattispecie.

Da: ciao17/12/2009 10:53:59
qualcuno ha la soluzione per quella di civile

Da: corsivoelegante17/12/2009 10:55:08
qualcuno ha la sentenza della traccia di penale?

Da: peste8117/12/2009 10:55:48
traccia penale

Nevia veniva sottoposta dal dott. Caio, nellâospedale della città Beta ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità a salpingectomia che determina lâasportazione della tuba sn.
Nevia, lamentando di essere stata informata solo della laparoscopia, denunciava i fatti.
Tratto in giudizio dinnanzi al tribunale di Beta, il dott. Caio veniva condannato per il delitto di violenza privata.
I giudici accertavano che lâintervento di asportazione della tuba era stata una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto delle regole e con buona competenza.
Tuttavia, il non avere preventivamente informato Nevia anche della possibile asportazione della salpinge, secondo intervento assolutamente prevedibile già al momento della programmazione della laparoscopia, andava ascritto ad una scelta consapevole e volontaria dellâimputato, che aveva dolosamente leso la libertà di autodeterminazione che la riguardavano.
Assunte le vesti dellâavvocato di Caio, rediga il candidato lâatto ritenuto più opportuno, evidenziando le problematiche sottese alla fattispecie in esame.

la sentenza è questa
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 18 dicembre 2008 - 21 gennaio 2009, n. 2437

(Presidente T. Gemelli. Relatore A. Macchia)

Ritenuto in fatto

1. â" M. R., ricoverata nel reparto di ginecologia dellâOspedale di Cattolica, il 20 novembre 1997 fu sottoposta dal dott. N. G. ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a salpingectomia che determinò lâasportazione della tuba sinistra. Alla stregua della ricostruzione operata dai giudici del merito, lâintervento demolitorio risultò essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media; tuttavia, secondo lâassunto accusatorio, senza il consenso validamente prestato dalla paziente, informata soltanto della laparoscopia. Secondo i primi giudici, infatti, già in fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili lâevoluzione di tale intervento in operativo e lâelevata probabilità di asportazione della salpinge, la non opportunità dellâinterruzione dellâintervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto dello stato di necessità, ai fini dellâacquisizione del consenso. Lâomissione sarebbe stata da ascrivere, in ragione della elevata prevedibilità dellâintervento chirurgico, ad una scelta consapevole e volontaria dellâimputato e non a colpa. Peraltro, ad avviso del giudice di primo grado, ogni trattamento medico eseguito in assenza di un consenso valido e specifico, integrerebbe lesione della libertà, garantita dallâart. 32 della Costituzione, di autodeterminazione della persona circa le decisioni mediche che la riguardano, comprensiva della facoltà di promuovere un consulto o di scegliere altre strutture sanitarie. Ciò induceva pertanto il Tribunale di Rimini a qualificare il reato di lesioni personali volontarie aggravate, originariamente contestato al G., come violenza privata, in ordine al quale ultimo lâimputato stesso veniva ritenuto colpevole e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, sostituita con la pena di euro 6.000,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Proposto appello da parte dellâimputato, la Corte di appello di Bologna, con sentenza del 5 febbraio 2007, ha reputato contraddittoria ed insufficiente la prova in ordine allâacquisizione del consenso informato della M.; sicché, esclusa, da un lato, la ricorrenza della esimente dello stato di necessità e respinta, dallâaltro lato, la tesi difensiva secondo la quale è lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di espresso dissenso, ha rilevato lâintervenuta prescrizione del reato â" così come qualificato nella sentenza di primo grado â" revocando le statuizioni civili, disposte in quella stessa sentenza, stante lâassenza di una prova idonea circa la commissione del fatto.

2. â" Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dellâimputato e della parte civile M. R.. La parte civile si duole, in estrema sintesi, della revoca delle statuizioni civili, deducendo inosservanza di legge e vizi motivazionali, per essere stato a proprio avviso disatteso un dato fattuale certo ( lâomessa acquisizione del consenso informato, accertata attraverso la deposizione della persona offesa e dei suoi familiari, ritenuti dalla stessa Corte territoriale pienamente attendibili) con il ricorso ad una mera presunzione (quella desunta dalla «prassi informativa» cui ha fatto riferimento una infermiera) e ad un elemento sicuramente insufficiente (tratto dalla deposizione dellâaiuto medico).

Nel ricorso proposto nellâinteresse dellâimputato si deduce, quale primo motivo, vizio di motivazione in riferimento al mancato proscioglimento nel merito, giacchè, da un lato, andrebbe privilegiato lâorientamento che ritiene applicabile il secondo comma dellâart. 129 cod. proc. pen., anche nei casi in cui la prova della responsabilià sia insufficiente o contraddittoria; dallâaltro, la mancata adozione di una formula di merito sarebbe in contrasto con la determinazione di revocare le statuizioni civili; infine â" sottolinea il ricorso - i giudici dellâappello avrebbero omesso di fornire risposta adeguata circa la doglianza relativa alla esimente dello stato di necessità, quanto meno a livello putativo. Si lamenta, poi, mancata assunzione di una prova decisiva, in riferimento alla richiesta di assunzione di testi e consulenti, al fine di contrastare lâassunto relativo alla non ricorrenza â" reale o putativa - della esimente dello stato di necessità, e si prospetta, infine, violazione di legge in riferimento alla laconica asserzione per la quale i giudici a quibus avrebbero disatteso la fondatezza dellâorientamento giurisprudenziale secondo il quale sarebbe lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di un espresso dissenso del paziente. Con successive, diffuse note, i difensori dellâimputato hanno svolto articolate deduzioni volte a contestare la sussistenza, nella ipotesi di specie, del reato di violenza privata e per ribadire, al contrario, la ricorrenza della scriminante dello stato di necessità.

3. â" La Quinta Sezione penale di questa Corte, cui i ricorsi erano stati assegnati, avendo ravvisato la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sui temi coinvolti , ha rimesso, a norma dellâart. 618 cod. proc. pen., a queste Sezioni Unite la decisione sui ricorsi medesimi, con ordinanza pronunciata il 1 ottobre 2008, ritenendo pregiudiziale la risoluzione del quesito se abbia o meno rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle âregole dellâarteâ e con esito fausto. Quanto al primo aspetto â" osserva la Sezione rimettente â" si registrano due diversi orientamenti . Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente âinformatoâ del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dellâart. 32 Cost. Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volontà del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico â" allo stato del quadro normativo attuale â" âlegittimatoâ a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere âin radiceâ che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Quanto, poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando lâesito dellâintervento sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui allâart. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo, invece, lâarbitrarietà dellâintervento â" che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia â" può assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata. Il tutto â" conclude lâordinanza di rimessione - non senza evocare la sussistenza di tesi intermedie, quale quella di ravvisare la sussistenza dellâindicato delitto nel caso di trattamento non chirurgico, o quella di ritenere che la violenza privata sia configurabile nella sola ipotesi di trattamento chirurgico eseguito in presenza di un espresso, libero e consapevole rifiuto del paziente.




Considerato in diritto






1. â" Va preliminarmente dichiarata la inammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile. In esso, infatti, la ricorrente si è limitata a proporre una critica, che non ha riguardato la conformità o meno dei parametri di delibazione del compendio probatorio adottati dai giudici a quibus rispetto al modello legale, o la effettiva coerenza del tessuto argomentativo svolto sul punto nella sentenza impugnata, ma i risultati cui il motivato ragionamento probatorio ha condotto. In tal modo devolvendosi, quindi, a questa Corte, nullâaltro che un nuovo sindacato di merito, che le è precluso. La sentenza impugnata, infatti, ha più che congruamente dato conto delle ragioni per le quali, a fronte di variegate ricostruzioni testimoniali, tutte puntualmente delibate, sia sul piano della relativa attendibilità, che delle reciproche, contrapposte conferme, ha ritenuto nella sostanza non provata con certezza la circostanza che della possibile necessità di un intervento di asportazione della salpinge fosse stata adeguatamente resa edotta la paziente. Le censure prospettate si rivelano, pertanto, inconferenti. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue, pertanto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

2. â" Di diverso spessore sono, invece, le questioni che coinvolge il ricorso dellâimputato. Lâenunciazione plurima e alternativa del quesito, sul quale queste Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi, evoca, infatti, già di per sè, pur nel circoscritto ambito della peculiare fattispecie che ha contrassegnato lâiter del procedimento, la varietà dei piani su cui occorre soffermarsi ed il delicato concatenarsi delle problematiche coinvolte. La questione da esaminare riguarda il quesito se abbia o meno rilevanza penale, sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali o di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di valido consenso informato, ad un trattamento chirurgico, pure eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis e conclusosi con esito fausto.

Si tratta di problematica antica, mai univocamente risolta, anche perché coinvolgente una gamma di questioni ad essa intimamente correlate, quali: il fondamento giuridico e di legittimazione della attività medico-chirurgica; il concetto di malattia che in relazione ad essa deve venire in rilievo; il valore che, nel sistema, occorre riconoscere al consenso informato del paziente, alla luce dei principi che, fra le altre, le fonti di rango costituzionale, legislativo e deontologico dettano al riguardo, prendendo in considerazione il bene della salute come diritto della persona.

Dâaltra parte, le disposizioni dettate dal codice penale del 1930, anche a voler prescindere dai limiti insiti in un sistema punitivo precostituzionale, contrassegnato dalla peculiare visione derivante dallâassetto politico-istituzionale dellâepoca, si rivelano palesemente incongrue al fine di individuare equilibrate soluzioni atte a fornire risposta a tutte le esigenze di tutela che le varie ipotesi di fatto possono presentare. Non senza sottolineare, per altro verso, come il presidio penale non possa che profilarsi, nella platea dei possibili rimedi astrattamente ipotizzabili, quale extrema ratio, a fronte, ad esempio, di eventuali meccanismi sanzionatori alternativi, operanti sul terreno civilistico-risarcitorio o anche amministrativo-disciplinare.

Ciò spiega, da un lato, lâampio ventaglio di tesi dottrinarie e giurisprudenziali che si sono misurate sui vari aspetti della responsabilità del medico e sulla tematica del consenso informato: talora â" è necessario riconoscerlo - con evidenti torsioni ermeneutiche, spintesi ai limiti estremi della compatibilità con il principio di tassatività che deve presiedere alla âcostruzioneâ ed alla configurazione delle fattispecie penali; e, dallâaltro lato, si chiarisce la ratio di fondo che ha sostenuto i tentativi â" condotti anchâessi da giurisprudenza e dottrina â" volti ad evitare , per un verso, eccessi di âpenalizzazioneâ o di âburocratizzazioneâ della attività medica, ma al tempo stesso attenti a ricercare soluzioni ermeneutiche che si presentassero in linea con la (in sè condivisibile) intentio di non lasciare senza effettiva tutela condotte riguardabili come âdannoseâ da chi è stato sottoposto al trattamento sanitario: e ciò non necessariamente in ragione soltanto dellâesito infausto dello stesso.

Soffermarsi, dunque, sulle più significative sentenze di questa Corte, per analizzarne le varie rationes e gli approdi cui le stesse sono pervenute a proposito dei numerosi ânodiâ che la questione sottoposta a queste Sezioni unite coinvolge, rappresenta la ineludibile premessa, per focalizzare i temi sui quali è indispensabile fornire univoca risposta.

3. â" La prima sentenza che si è soffermata ex professo sul tema del trattamento medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, è stata la nota sentenza Massimo (Cass., Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo), oggetto di diffusi rilievi, prevalentemente critici, svolti da larga parte della dottrina. Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta; sicchè egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte.

Aderendo, dunque, alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto la antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo. Da un lato, infatti, occorreva assegnare il dovuto risalto alla circostanza che lâart. 39 del codice di deontologia medica allora vigente stabiliva che il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico; dallâaltro, doveva pure rammentarsi che, in tema di trattamento medico chirurgico, lâantigiuridicità della lesione provocata, poteva, indipendentemente dal consenso , essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione; negandosi al tempo stesso validità alla tesi secondo la quale quella attività rinverrebbe copertura in cause di giustificazione non codificate, riferite alla finalità, pur sempre terapeutica, perseguita dal chirurgo. Sottolineava la richiamata sentenza che «se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere lâipotesi in cui esso sia consentito dallâipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico, e lâesito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art. 32, comma 2, Cost.), e che, a fortiori, il reato sussiste ove lâesito sia sfavorevole». Nel contrastare, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo la quale lâoggetto di tutela dellâart. 50 cod. pen. sarebbe limitato alla libertà di autodeterminazione, con conseguente possibilità di ritenere configurabile, in relazione al trattamento medico eseguito senza il consenso, il reato di cui allâart. 610 cod. pen., la medesima sentenza ha precisato che «la formulazione di ordine generale del principio sancito dalla norma, non autorizza lâesclusione della protezione del diritto alla integrità fisica (tra molti altri) e, semmai, soltanto il trattamento medico senza il consenso che pur sempre non cagioni lesioni potrebbe far ipotizzare fatti di violenza privata».

A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass., Sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132), ove si è affermato che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessità, venga eseguita una operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne abbia determinato la morte, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè, per integrare questâultimo, si richiede che lâagente realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare una alterazione lesiva dellâintegrità fisica della persona offesa. La disamina si concentra, dunque, essenzialmente sullâelemento soggettivo, giacchè «se è vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalità terapeutica) è irrilevante â" non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni volontarie e percosse â" è altrettanto vero che la formulazione dellâart. 584 cod. pen. (âatti diretti aâ) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa, che lâelemento soggettivo richiesto per lâomicidio preterintenzionale, quanto allâevento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione quindi del dolo eventuale».

Dâaltra parte â" ha puntualizzato ancora la pronuncia in esame - se è vero che lâintentio del medico mal si concilia con lâatteggiamento di chi persegue sin dallâinizio una volontà lesiva, neppure sarebbe lecito affermare che il fine terapeutico escluda siffatta volontà, giacchè, in tale ipotesi, si presupporrebbe lâesistenza di un dolo specifico, al contrario non richiesto dalla norma. Al tempo stesso, soggiunge la sentenza, «affermare lâintenzionalità della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con lâesistenza della scriminante costituita dal consenso dellâavente diritto». Quanto, poi, allâelemento psicologico del reato di lesioni volontarie, la sentenza afferma che «si avrà lâelemento soggettivo del delitto di lesioni volontarie, in tutti i casi in cui il chirurgo, o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisca essendo conscio che il suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dellâintegrità fisica o psichica del paziente. E poichè â" afferma la richiamata pronuncia â" lâomicidio preterintenzionale si configura anche se la condotta è diretta a commettere il delitto di percosse, non può escludersi, in astratto, anche se appare difficile immaginare il concreto verificarsi di queste ipotesi, che lâevento morte non voluto sia conseguente ad una condotta diretta, non a provocare una malattia nel corpo o nella mente, ma ad una condotta qualificabile come percossa».

Alla luce di tale ricostruzione, il consenso del paziente verrebbe ad essere ricondotto nel novero delle scriminanti, che, ad avviso della dottrina prevalente, escludono la antigiuridicità della condotta; sicchè, sarebbe lecito lâassunto secondo il quale il consenso stesso «per un verso precluda la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, ma solo nel caso di consenso validamente espresso nei limiti dellâart. 5 cod. civ., per lâefficacia scriminante attribuita dallâart. 50 cod pen. al consenso della persona che può validamente disporre del diritto; per altro verso, che, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica, o nelle ipotesi previste dalla legge, il consenso non sia necessario». A sua volta, e sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere sussistente lo stato di necessità â" che varrebbe ad escludere, anche nella ipotesi di dissenso espresso il dolo diretto di lesioni, posto che il medico, nellâintervenire malgrado il dissenso del paziente, mira comunque a salvaguardarne la vita e la salute poste in pericolo - «lâesplicito dissenso del paziente rende lâatto, asseritamente terapeutico, unâindebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità, con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali».

Puntualizza ancora la stessa sentenza, la circostanza che la condotta del medico sia orientata a tutelare la salute del paziente e non a cagionare menomazioni della sua integrità, fisica o psichica, permette di «escludere lâintenzionalità della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso dellâintervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o anche soltanto per prevenire pericoli futuri». In tale ultima ipotesi â" che assume uno specifico interesse ai fini dellâodierno scrutinio - la medesima sentenza ritiene non configurabile il reato di cui allâart. 610 cod. pen., giacchè una simile costruzione rinverrebbe un «ostacolo difficilmente superabile nella previsione della necessità che la condotta dellâagente consista in violenza o minaccia. Questâultima sembra proprio da escludere, mentre la violenza potrebbe forse ipotizzarsi nei soli casi di dissenso espresso del paziente al trattamento chirurgico».

Lâasse delle riflessioni sembra in parte mutare nella sentenza Sez. IV, 27 marzo 2001, n. 36519, Cicarelli, anche se la portata delle affermazioni che vi compaiono risulta fortemente condizionata dalle peculiarità del caso di specie, nel quale ad un sanitario si addebitava, fra lâaltro, di aver praticato un tipo di anestesia diverso da quello preferibile secondo la lex artis, ma per il quale il paziente aveva revocato il proprio consenso. In particolare, si evidenzia come la liceità della condotta del medico, che si caratterizza per le finalità terapeutiche che ne contraddistinguono lâagere, non possa trovare «significanza solo nel consenso entro ovvero oltre la categoria di cui allâart. 50 c.p., ma in coerenza con il principio da esso enunciato». Dunque, «lâagire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volontà di costui, salvo lâimminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di configurare più fattispecie di reato, quali violenza privata (art. 610 c.p., la violenza essendo insita nella violazione della contraria volontà), lesione personale dolosa (art. 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.)». Ciò che rileva è la violazione del divieto di manomissione del corpo dellâuomo e, quindi, «la violazione consapevole del diritto della persona a preservare la sua integrità fisica nellâattualità â" come è ora, a nulla valendo, in simile situazione, il rilievo che questa possa essere, eventualmente, migliorata â" e il rispetto della sua determinazione a riguardo del suo corpo», in aderenza al principio personalista della nostra Costituzione, nella specie contrassegnato dagli artt. 2 e 32, secondo comma. Donde lâassunto per il quale «il medico chirurgo non può manomettere lâintegrità fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso».

Nella sentenza Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822, Firenzani, trova eco, in campo penale, la tesi â" già da tempo affermatasi nella giurisprudenza civile â" secondo la quale lâattività medica rinverrebbe la propria autolegittimazione dagli artt. 13 e 32 della Costituzione, giacchè «sarebbe riduttivo [...] fondare la legittimazione della attività medica sul consenso dellâavente diritto (art. 50 c.p.) che incontrerebbe spesso lâostacolo di cui allâart. 5 c.c., risultando la stessa di per sè legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato»; ferma restando la necessità del consenso debitamente informato del paziente, anchâesso costituzionalmente presidiato (cfr, fra le tante, Cass., Sez. III civ., 25 novembre 1994, n. 10014; Sez. III civ., 15 gennaio 1997, n. 364, nonchè, più di recente, Sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748; Sez. III civ., 28 novembre 2007, n. 24742; Sez. III civ., 15 settembre 2008, n. 23676). Nellâaffermare gli identici principi, la sentenza Firenzani sottolinea che la «legittimità in sè dellâattività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico», afferendo, esso, alla libertà morale del soggetto e dalla sua autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dallâart. 13 Cost. Non sarebbe dunque configurabile, in capo al medico, un âdiritto di curareâ come espressione di una posizione soggettiva qualificata, derivante dalla abilitazione allâesercizio della professione, giacchè essa, per potersi estrinsecare, comporta di regola il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario, salvo i casi di trattamento obbligatorio ex lege, o le ipotesi di incapacità a prestare il consenso o di stato di necessità. Pertanto «la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina lâarbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo».

Quanto, poi, alle ipotesi delittuose di carattere doloso astrattamente configurabili, le stesse potranno rinvenirsi negli artt. 610, 613 e 605 cod. pen., nel caso di trattamento terapeutico non chirurgico; nel caso, invece, di intervento chirurgico, il reato ipotizzabile è quello previsto dallâart. 582 cod. pen., perchè «qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito âfaustoâ, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano lâelemento oggettivo di detto reato, ledendo lâintegrità corporea del soggetto», avuto riguardo al diritto di ciascuno di privilegiare il proprio stato attuale. «Il criterio di imputazione dovrà essere, invece, di carattere colposo â" conclude la sentenza â" qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dellâammalato, abbia effettuato lâintervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso».

La medesima linea prosegue, con ulteriori apporti argomentativi, anche nella sentenza della Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446, P.G. in proc. Volterrani, nella quale si afferma il principio secondo il quale in tema di attività medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui allâart. 3 della legge 28 marzo 2001, n. 145, con la quale è stata ratificata la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dellâuomo e sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile lâespresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorchè lâomissione dellâintervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dellâinfermo e, persino, la sua morte. In tale ultima ipotesi â" ha puntualizzato la sentenza â" qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non â" nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia â" il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali allâintervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui allâart. 582 cod. pen. Infatti, lâattività strumentale posta in essere dal chirurgo â" quale lâincisione della cute â" è priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando nullâaltro che «un passaggio obbligato verso il raggiungimento dellâobiettivo principale dellâintervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge». Tale attività si inserirebbe dunque «a pieno titolo, nellâesercizio dellâazione terapeutica in senso lato, che corrisponde allâalto interesse sociale di cui si è detto, interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dallâart. 32 della Costituzione della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo sviluppo ed il perfezionamento degli organismi,delle strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso questa azione, ove correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità, anche quando abbia un esito infausto».

A proposito, poi, della sussistenza â" nel caso di specie â" della scriminante dello stato di necessità di cui allâart. 54 cod. pen., la stessa pronuncia rileva come nella pratica sanitaria, in genere, e di quella chirurgica, in specie, salvo le ipotesi in cui non ricorra lâintento di tutela della salute propriamente intesa, lâattività stessa sarebbe «sempre obbligata, per non dire forzata. Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non opera per passare il tempo o sperimentare le sue capacità: lo fa perchè non ha scelta, perchè quello è lâunico giusto modo di salvare la vita del paziente o almeno migliorane la qualità». Donde lâassunto per il quale sarebbe ravvisabile uno stato di necessità ontologicamente intrinseco alla attività terapeutica, con la conseguenza che «quando il giudice del merito riconosca in concreto il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere lâintervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica, deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di liceità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dellâimputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera».

La giurisprudenza più recente sembra abbandonare le posizioni più estreme â" fra quelle sin qui passate in rassegna - per collocarsi in linea con i principi codificati nelle massime, per così dire, intermedie. Così, nella sentenza della Sez. VI, 14 febbraio 2006, n. 11640, Caneschi, si ribadisce il principio secondo cui «lâattività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui allâart. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento»; derivandone da ciò che la mancanza o la invalidità del consenso «determinano la arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo».

Più articolato, anche se non perviene ad approdi sostanzialmente innovativi, si presenta il percorso motivazionale che caratterizza la sentenza della Sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335, p.c. in proc. Huscer, ove si ribadisce, in massima, che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso, il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè la finalità curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare unâalterazione lesiva della integrità fisica della persona offesa invece necessaria per lâintegrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dallâart. 584 cod. pen. Dunque, il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dellâattività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dellâammalato. Il medico, infatti, di regola e al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare il proprio consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui allâart. 54 cod. pen.), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il consenso, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere informato, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dellâintervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e la puntualizzazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dallâart. 32 della Costituzione (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte, che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve sempre essere rispettata dal sanitario. Peraltro da tutto ciò «non può farsi discendere la conseguenza che dallâintervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni volontarie», giacchè il contenuto dellâelemento soggettivo di tali reati non è di norma configurabile rispetto alla attività del medico, mentre «il consenso eventualmente invalido perchè non consapevolmente prestato non può ex se importare lâaddebito a titolo di dolo».

Il medesimo ordine di idee è stato infine ribadito anche dalla sentenza Sez. IV, 24 giugno 2008, n. 37077, Ruocco, intervenuta, peraltro, su una ipotesi di prescrizione di farmaci off label: vale a dire, la somministrazione di medicinali per finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai farmaci stessi. In tale sentenza si è, da un lato, confermato il fondamento costituzionale del criterio di disciplina della relazione medico-malato, ed è stato, dallâaltro lato, ancora una volta escluso che dalla mancanza di valido consenso possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie, o, nel caso di morte, di omicidio preterintenzionale. E ciò perchè il sanitario si trova ad agire con una finalità curativa «che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni»; salvo che si versi in situazioni anomale e distorte, «nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici». La valutazione penalistica del comportamento del medico, che abbia cagionato un danno per il paziente, non subisce variazioni a seconda che lâattività sia stata svolta con o in assenza del consenso: «il giudizio sulla sussistenza della colpa e quello sulla causalità tra la condotta colposa e lâevento dannoso non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o non il consenso informato del paziente». Da tutto ciò il corollario conclusivo, secondo il quale il consenso informato del paziente alla somministrazione del trattamento sanitario non può costituire, ove lo stesso trattamento abbia cagionato delle lesioni, un elemento per affermare la responsabilità a titolo di colpa di questâultimo, a meno che la mancata sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (sulla libertà di autodeterminazione del paziente, come limite al dovere medico di intervenire, v. Cass., Sez. IV, 4 luglio 2005, n. 38852, p.m. in proc. Del Re; Cass., Sez. IV, 23 gennaio 2008, n. 16375, p.c. in proc. Di Domenico. Per una posizione volta a privilegiare la possibilità di risolvere i casi in cui lâatto medico è affetto da vizi del consenso, facendo ricorso agli istituti della cosiddetta colpa impropria, attraverso la utilizzazione delle «categorie dellâerronea supposizione della causa di giustificazione (art. 59, c. 4, c.p.) e dellâeccesso colposo nella causa stessa (art. 55 c.p.)», v. Cass., Sez. V, 16 settembre 2008, n. 40252, Beretta).

4. â" Dalla disamina testè compiuta emerge, dunque, come primo dato di riflessione, il sostanziale recepimento in sede penale della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione della attività medica, la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dellâavente diritto, come definita dallâart. 50 cod. pen., quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo messo in luce la circostanza che il bene della salute è tutelato dallâart. 32, primo comma, della Costituzione, «non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dellâindividuo» (sentenza n. 356 del 1991), che impone piena ed esaustiva tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), in quanto «diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati» (sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del 1979). Il diritto ai trattamenti sanitari è dunque tutelato come diritto fondamentale nel suo «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, protetta dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare lâattuazione di quel diritto» (v., fra le altre, sentenze n. 432 del 2005, n. 233 del 2003, n.252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999, n. 267 del 1998). Anche al di fuori di tale nucleo, dâaltra parte, il diritto a trattamenti sanitari «è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato alla attuazione che il legislatore ordinario ne dà, attraverso il bilanciamento dellâinteresse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento». Ciò comporta che, al pari di ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, il diritto a trattamenti sanitari diviene per il cittadino «pieno e incondizionato» nei limiti in cui lo stesso legislatore, attraverso una non irragionevole opera di bilanciamento fra i valori costituzionali e di commisurazione degli obiettivi conseguentemente determinati sulla falsariga delle risorse esistenti, predisponga adeguate possibilità di fruizione delle prestazioni sanitaria (cfr., ex plurimis, sentenza n. 432 del 2005, n. 304 e 218 del 1994, n. 247 del 1992, n. 455 del 1990). Peraltro, proprio in attuazione del principio del supremo interesse della collettività alla tutela della salute, consacrata come fondamentale diritto dellâindividuo dallâart. 32 Cost., «lâinfermo assurge, nella nuova concezione della assistenza ospedaliera, alla dignità di legittimo utente di un pubblico servizio, cui ha pieno ed incondizionato diritto, e che gli vien reso, in adempimento di un inderogabile dovere di solidarietà umana e sociale, da apparati di personale e di attrezzature a ciò strumentalmente preordinati e che in ciò trovano la loro stessa ragion dâessere» (sentenza n. 103 del 1977).

In tale quadro di riferimento, dunque, sarebbe davvero eccentrico continuare a rinvenire nella sola scriminante del consenso dellâavente diritto, di cui allâart. 50 cod. pen., la base di semplice ânon antigiuridicitàâ della condotta del medico; e ciò anche senza evocare le problematiche frizioni che una siffatta, angusta prospettiva, potrebbe comportare rispetto ai limiti tracciati dallâart. 5 del codice civile, il cui archetipo e la cui ratio di norma precostituzionale, si saldavano allâesigenza di circoscrivere il diritto dellâindividuo di poter fare illimitato âmercimonioâ del proprio corpo. Eâ infatti significativa, a tal proposito, la circostanza che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 471 del 1990, nella quale ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dellâart. 696, primo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non consentiva di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dellâistante, ebbe a fornire una ricostruzione del valore costituzionale dellâinviolabilità della persona come âlibertàâ, nella quale è postulata e attratta la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo. Il che ha consentito alla dottrina di desumere che lâentrata in vigore della Carta costituzionale avrebbe prodotto âmodifiche taciteâ allâart. 5 cod. civ., in particolare attraverso la sostituzione del concetto statico di integrità fisica, con quello dinamico di salute, di cui allâart. 32 Cost., riconducendo, poi, il concetto ed il limite dellâordine pubblico ai principi generali dellâordinamento, come tali non superabili dal singolo, così come enucleati dalla stessa Carta fondamentale. Con lâentrata in vigore della Costituzione, pertanto, e con lâaffermarsi del principio personalista ivi enunciato, la quaestio relativa alla portata dellâart. 5 del codice civile non andrebbe più impostata in termini di âpotereâ di disporre, ma di âlibertàâ di disporre del proprio corpo, stante il valore unitario e inscindibile della persona come tale; e, quindi, in termini di libertà di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono e interessano il proprio corpo.

Lâattività sanitaria, pertanto, proprio perchè destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare â" in tal modo â" la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dallâart. 2 della Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come âcostituzionalmente impostaâ), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dellâindividuo. Dâaltra parte, non è senza significato la circostanza che lâart. 359 cod. pen. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente lâipotesi che una professione ritenuta, in sè, âdi pubblica necessità», abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda lâantigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico, ancorchè attuate secondo le regole dellâarte e con esito favorevole per il paziente. Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di âscriminante costituzionaleâ, tale essendo, per quel che si è detto, la fonte che âgiustificaâ lâattività sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso, come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica). Come, quindi, lâattività del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare personale non potrà integrare il delitto di sequestro di persona, e ciò non perchè la sua condotta è âscriminataâ âsemplicementeâ dallâart. 51 cod. pen., ma in quanto direttamente âcopertaâ dallâart.13 Cost., allo stesso modo può dirsi âgarantitaâ dalla stessa Carta lâattività sanitaria, sempre che ne siano rispettate le regole ed i presupposti.

5. â" Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dalla legge, secondo quanto previsto dallâart. 32, secondo comma, Cost. e dal diritto alla salute, inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che âgiustificaâ il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole â" salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere â" della persona che a quel trattamento si sottopone. Presupposto, anche questo, che rinviene base precettiva, e, per così dire, âcostitutivaâ, negli stessi principi dettati dalla Carta fondamentale. Sul punto, basterà richiamare una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), nella quale la tematica del consenso informato è stata scandagliata ex professo, offrendosi dellâistituto del consenso al trattamento medico un quadro definitorio dettagliato e del tutto sintonico con gli approdi cui era già pervenuta, come si è fatto cenno, la giurisprudenza di questa Corte. Il Giudice delle leggi ha infatti avuto modo di puntualizzare che il «consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nellâart. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che âla libertà personale è inviolabileâ, e che ânessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di leggeâ». Dâaltra parte, ha osservato la Corte, anche numerose fonti internazionali prevedono la necessità del consenso informato del paziente nellâambito dei trattamenti sanitari. Così, «lâart. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, premesso che gli Stati aderenti âriconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazioneâ, dispone che âtutti i gruppi della società in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minoreâ». A sua volta, ha rammentato ancora la Corte, «lâart. 5 della Convenzione sui diritti dellâuomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dallâItalia con legge 28 marzo 2001, n. 145 (seppure ancora non risulta depositato lo strumento di ratifica), prevede che âun trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informatoâ; lâart. 3 della Carta dei diritti fondamentali dellâUnione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, sancisce, poi, che âogni individuo ha il diritto alla propria integrità fisica e psichicaâ e che nellâambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, âil consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla leggeâ». «La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico â" ha ancora precisato la Corte â" si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche: ad esempio, dallâart. 3 della legge 21 ottobre 2005, n. 219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati), dallâart. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché dallâart. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), il quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto dalla legge».

La circostanza, dunque, che il consenso informato trovi il suo fondamento direttamente nella Costituzione, e segnatamente negli artt. 2, 13 e 32 della Carta, pone in risalto â" secondo il Giudice delle leggi â" la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: «quello allâautodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente allâart. 32, secondo comma, della Costituzione.

Discende da ciò â" ha concluso la Corte â" che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale».

6. â" I principi enunciati dalla Corte costituzionale, scolpiti, alla luce della pluralità di fonti che concorrono a rafforzarne gli enunciati, rappresentano, dunque, la ineludibile base precettiva sulla quale poter configurare la legittimità del trattamento sanitario in genere e della attività medico-chirurgica in specie: con lâovvia conseguenza che, ove manchi o sia viziato il consenso âinformatoâ del paziente, e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare. Ed è proprio in questâultima prospettiva che assume uno specifico risalto la normativa â" non poco evolutasi nel corso del tempo â" elaborata dagli organismi professionali in campo di deontologia medica; giacchè da essa, per un verso, si chiarisce la portata del âcircuito informativoâ che deve collegare fra loro medico e paziente, in vista di un risultato che â" riguardando diritti fondamentali â" non può non essere condiviso; e, dallâaltro lato, è destinata a concretare, sul terreno del diritto positivo, le regole che costituiscono il âprescrizionaleâ per il medico, e la cui inosservanza è fonte di responsabilità, non necessariamente di tipo penale.

A seguito, infatti, della Convenzione di Oviedo, anche il codice deontologico, approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri il 3 ottobre 1998, ha proceduto ad una revisione del concetto di consenso informato, elaborando una definizione dello stesso più in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione. Lâart. 30 del nuovo codice, infatti, ha previsto che il medico debba fornire al paziente «la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate». Dietro esplicita richiesta del paziente, inoltre, il medico dovrà fornire tutte le ulteriori informazioni che gli siano richieste. Lâart. 32 ha a sua volta stabilito che il medico non debba intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza lâacquisizione del consenso informato del paziente; con lâulteriore necessità della forma scritta per la manifestazione di tale consenso nellâipotesi in cui la prestazione da eseguire comporti possibili rischi per lâintegrità fisica del soggetto. Lâart. 34 ha infine stabilito che il «medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dellâindipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona». Da simili principi, profondamente innovativi rispetto a quelli enunciati nel precedente codice del 1995, si è tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione della attività del medico come promanante da soggetto detentore di una âpotestàâ di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che è stata definita come una sorta di âalleanza terapeuticaâ; in sintonia, dâaltra parte con una più moderna concezione della salute, che trascende dalla sfera della mera dimensione fisica dellâindividuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica.

Simili risultati sono stati poi ribaditi anche nel successivo codice deontologico, approvato dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006, ed il cui art. 35 conferma, appunto, che il «medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza lâacquisizione del consenso esplicito e informato del paziente», aggiungendo â" quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dellâesercizio della attività medica â" che «in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».

Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili âcontroâ la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dallâesito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dellâaltrui volere, lâipotesi controversa, sulla quale occorre soffermarsi, riguarda invece il caso in cui, anche se âin assenzaâ di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente. E ciò perché, non necessariamente il mancato rispetto delle regole di deontologia medica e degli stessi principi affermati in tema di consenso informato dalla Corte costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di legittimità determinano la automatica applicabilità delle fattispecie penali che, âtradizionalmenteâ, sono state evocate a tale riguardo. Occorre, infatti, verificare se quelle fattispecie, pur nellâambito â" e nei limiti â" di un percorso ermeneutico che adegui la peculiarità del caso alla struttura delle norme (certo âpensateâ per altri fini), siano o meno suscettibili di âattrarreâ nella propria sfera precettiva il âfattoâ di cui qui si tratta, senza debordare dai confini entro i quali è consentita lâinterpretazione nel campo del diritto penale sostanziale.
7. â" In tale cornice, occorre, dunque, preliminarmente esaminare se â" con riferimento alla particolare vicenda che qui rileva - il mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato (in ipotesi) senza che tale variatio fosse stata in precedenza assentita dal paziente, malgrado il relativo esito fausto, integri o meno il delitto di violenza privata che i giudici del doppio grado di merito hanno ritenuto di ravvisare nella specie, riqualificando in tal senso lâoriginaria imputazione di lesioni personali volontarie aggravate.

Al riguardo, non può non rilevarsi come gli orientamenti giurisprudenziali che si sono espressi a favore di tale impostazione hanno scarsamente approfondito il tema, mettendo piuttosto in luce il fatto che lâassenza del consenso comprometterebbe, non il valore della integrità fisica in sè, quanto, piuttosto, quello della libera formazione del volere: con la conseguenza di ritenere per questa via praticabile la soluzione della violenza privata, non tanto sulla base di argomentati rilievi circa la conformità del âfattoâ al tipo normativo, quanto per la ritenuta âontologicaâ incompatibilità che è dato ravvisare tra lâattività medico-chirurgica e il reato di lesioni volontarie.

Assai più articolata è, invece, la posizione della dottrina. A proposito, infatti, del problema della sottoposizione del paziente ad un intervento chirurgico diverso da quello che questi aveva in precedenza autorizzato â" paziente che dunque versa in stato di completa incoscienza per effetto della anestesia totale praticatagli â" si è osservato che, a differenza di quanto stabiliva lâart. 154 del codice Zanardelli (e sulla base del quale era stata elaborata una antica e autorevole dottrina), nellâart. 610 del codice vigente la violenza non sarebbe più posta in rapporto con una perturbazione dellâaltrui libera formazione del volere, ma con un comportamento concreto â" di azione, di tolleranza o di omissione â" non voluto dal soggetto passivo. Considerato, quindi, che la âviolenzaâ non richiederebbe alcuna mediazione intellettiva da parte di chi la subisce e che essa è concepibile anche nei confronti di un soggetto incapace di dissentire o consentire â" come, appunto, il soggetto anestetizzato â" si afferma che il chirurgo, nellâeseguire un intervento diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente, per tale via tenendo una condotta âviolentaâ, integrante una vis absoluta, perchè il paziente, per le condizioni nelle quali si trova, non può opporre alcuna resistenza.

Tale tesi non può essere condivisa. Al riguardo, va infatti rammentato, anzitutto, che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto modo di puntualizzare che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente lâoffeso della libertà di determinazione ed azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso lâuso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v. in tal senso, Cass., Sez. V, 18 dicembre 2002, n. 5407/03, De Bortolo; Sez. V, 17 giugno 2002, n. 30175, P.G. in proc. Rossello; Sez. V, 16 maggio 2002, n. 24175, P.G. in proc. Cardilli). E si è pure puntualizzato, in proposito, che lâelemento oggettivo del reato di cui allâart. 610, cod. pen., è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano lâeffetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa. Lâazione o lâomissione, che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, devono però essere determinate, poichè, ove manchi questa determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia, molestie, ingiuria, ma non quello di violenza privata (Cass., Sez. V, 18 aprile 2000, n. 2480, P.M. in proc. Ciardo). Dâaltra parte, versandosi, nella specie, in una ipotesi di violenza personale âdirettaâ, deve convenirsi con quanti ritengono che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata nella idea della aggressione âfisicaâ; vale a dire nella lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni più direttamente attinenti alla dimensione fisica della persona, quali la vita, lâintegrità fisica o la libertà di movimento del soggetto passivo.

Il che sembra rendere del tutto impraticabile lâipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nella specifica ipotesi che qui interessa. La violenza, infatti, è un connotato esenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di âqualcosaâ di diverso dal âfattoâ in cui si esprime la violenza. Ma poichè, nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poichè lâevento di coazione risiederebbe nel fatto di âtollerareâ lâoperazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di âcostrizione a tollerareâ rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui allâart. 610 cod. pen.

Dâaltra parte, anche il requisito della âcostrizioneâ presenta, con riferimento alla ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro intervento chirurgico ed alla relativa anestesia, elementi di intrinseca problematicità, che vanno ben a di là della questione, dibattuta in dottrina, se i delitti contro la libertà della persona possano essere commessi nei confronti di un soggetto che versi in stato di incoscienza. Il concetto di costrizione, postula, infatti, il dissenso della vittima, la quale subisce la condotta dellâagente e per conseguenza di essa è indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, in contrasto con la propria volontà. Nei confronti del paziente anestetizzato pleno iure, perchè nel quadro di un concordato intervento terapeutico, il chirurgo che si discosti da quellâintervento e ne pratichi un altro potrà dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella condizione di âincapacitazioneâ del paziente, ma non certo di âcostrizioneâ della sua volontà, proprio perchè, nel frangente, difetta quel requisito di contrasto di volontà fra soggetto attivo e quello passivo che costituisce presupposto indefettibile, insito nel concetto stesso di coazione dellâessere umano, âversoâ (e, dunque, per realizzare consapevolmente) una determinata condotta attiva, passiva od omissiva.

Va inoltre considerato â" come la difesa dellâimputato ha puntualmente messo in luce nella memoria difensiva â" che la non riconduciblità nel perimetro applicativo dellâart. 610 cod. pen., della condotta del chirurgo che âapprofittiâ della condizione di anestetizzato del paziente per mutare il tipo di intervento chirurgico concordato, si desume, univocamente, anche dalle precise scelte legislative operate in riferimento alla fattispecie, strutturalmente âomologaâ, dettata dallâart. 609-bis cod. pen. In essa, infatti, il legislatore ha ritenuto di introdurre una espressa equiparazione normativa tra lâipotesi di costringimento, con violenza o minaccia, a subire atti sessuali, e lâipotesi del compimento dellâatto sessuale «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa»: eventualità, questâultima, che certamente si realizza anche nellâipotesi in cui la vittima sia â" come nel caso di paziente anestetizzato â" in condizioni di totale incoscienza. Ciò sta dunque a significare che lo stesso legislatore, nel dettare la disciplina relativa ad altra ipotesi di violenza personale, ha dovuto dettare una apposita disposizione per equiparare condotte evidentemente fra loro non sovrapponibili, così da escludere che lâapprofittamento della condizione di incapacità, possa, naturalisticamente e giuridicamente, equivalere ad un fatto di per sè integrante violenza.

Per altro verso, una ulteriore conferma della impraticabilità della tesi che ritiene configurabile, nella specie, il delitto di violenza privata, può desumersi pure dalle prospettive coltivate al riguardo de iure condendo. Eâ significativo, infatti, che nella bozza di articolato presentata il 25 ottobre 1991 dalla Commissione istituita dal Ministro della Giustizia con decreto dellâ8 febbraio 1988 per la predisposizione di un disegno di legge delega per lâemanazione di un nuovo codice penale (cosiddetta Commissione Pagliaro) si sia avvertita la necessità di prevedere, allâ art. 70, comma 1, n. 4), una specifica disposizione, nel capo relativo ai reati contro la libertà morale (ma in piena autonomia â" ed è proprio questo lâaspetto che qui rileva â" dal delitto di violenza privata, previsto nel punto n. 1) - destinata a porre come direttiva la previsione, quale delitto, della «attività medica o chirurgica su persona non consenziente, consistente nel compimento di unâattività medica o chirurgica, anche sperimentale, su una persona senza il consenso dellâavente diritto (e sussistente se il fatto non costituisce un reato più grave). Escludere la punibilità â" prevedeva ancora la ipotesi di norma di delega â" quando il fatto comporti vantaggi senza alcun effettivo pregiudizio alla persona».

Lâesistenza, quindi, di un âvuoto normativoâ da colmare era stata sin da quellâepoca lucidamente avvertita.

8. â" Esclusa, quindi, la possibilità di ritenere integrato, nel caso di specie, il delitto di violenza privata, occorre esaminare quella che è stata ritenuta per lungo tempo lâalternativa ânaturalisticamenteâ privilegiata: vale a dire il reato di lesioni di cui allâart. 582 cod. pen. E ciò non solo per completare la risposta al quesito in ordine al quale queste Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi; ma anche perchè la tematica è stata direttamente trattata nel procedimento a quo, in quanto il delitto originariamente contestato allâimputato era stato proprio il reato di lesioni personali volontarie aggravato.

Ebbene, una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie, e lâelemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie. Una condotta âistituzionalmenteâ rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel âmaleâ. Ciò non esclude, però, che lâatto chirurgico integri â" ove isolato dal contesto del trattamento medico-terapeutico - la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale lâantigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la âistituzionalitàâ della condotta âstrumentaleâ del chirurgo, costretto a âledereâ per âcurareâ. Il versante problematico si sposta, dunque, dalla antigiutidicità, derivante dal mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito, alla âtipicitàâ delle lesioni dellâintervento in sè e delle conseguenze che da tale intervento sono scaturite: giacchè, se lâatto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dallâart. 582 cod. pen., a venire seriamente in discussione.

La questione, pertanto, finisce per coinvolgere direttamente la disamina della nozione stessa di âmalattiaâ, ai sensi dellâart. 582 cod. pen., giacchè anche a questo riguardo le interpretazioni offerte da giurisprudenza e dottrina si sono non poco evolute nel corso del tempo.

Per lungo tempo, infatti, specie in giurisprudenza, il concetto di malattia ha fortemente risentito di quanto era stato al riguardo precisato nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, giacchè in essa si era puntualizzato che era stato fatto uso della «espressione , correttamente scientifica, di malattia, anzichè quella di danno nel corpo o perturbazione della mente, [ lâart. 372 del codice Zanardelli, puniva, infatti, a titolo di lesione personale, la condotta di chi, «senza il fine di uccidere, cagiona ad alcuno un danno nel corpo o nella salute o una perturbazione nella mente»], giacchè una malattia è indistintamente qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dellâorganismo, ancorchè localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali».

Simile approccio definitorio è stato, infatti, pedissequamente recepito dalla giurisprudenza di legittimità, rimasta, sino ad epoca recente, consolidata nellâaffermare che, in tema di lesioni personali volontarie, costituisce malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dellâorganismo, ancorchè localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando è in atto il suddetto processo di alterazione, malgrado il ritorno della persona offesa al lavoro (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. V, 2 febbraio 1984, n. 5258, De Chirico; Sez. V, 14 novembre 1979, n. 2650, Miscia; Sez. I, 30 novembre 1976, n. 7254, Saturno; Sez. I, 11 ottobre 1976, n. 2904, Carchedi).

Sul punto, però, non può non convenirsi con quanti ritengono che il concetto di âmalattiaâ, più che evocare lâimpiego di un elemento descrittivo della fattispecie, rinvia ad un parametro normativo extragiuridico, di matrice chiaramente tecnico-scientifica, tale da far sì che il fenomeno morboso, altrimenti apprezzabile da chiunque in termini soggettivi e del tutto indistinti, presenti, invece, i connotati definitori e di determinatezza propri del settore della esperienza â" quella medica, appunto - da cui quel concetto proviene. Poichè, dunque, la scienza medica può dirsi da tempo concorde â" al punto da essere stata ormai recepita a livello di communis opinio â" nellâintendere la âmalattiaâ come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dellâassetto funzionale dellâorganismo, ne deriva che le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di âmalattiaâ, correttamente intesa.

Pertanto, la semplice alterazione anatomica non rappresenta, in sè, un presupposto indefettibile della malattia, giacchè ben possono ammettersi processi patologici che non si accompagnino o derivino da una modificazione di tipo anatomico, così come, allâinverso, una modificazione di questâultimo tipo che non determini alcuna incidenza sulla normale funzionalità dellâorganismo si presenta, secondo tale condivisibile impostazione, insuscettibile di integrare la nozione di âmalattiaâ, quale evento naturalistico del reato di cui allâart. 582 cod. pen.

Per altro verso, non è senza significato la circostanza che nel codice, la lesione non sia definita in sè â" quale semplice ârotturaâ della unità organica â" ma in relazione allââeventoâ che essa deve determinare: e cioè, appunto, una âmalattiaâ del corpo o della mente. La circostanza, quindi, che la malattia può riguardare tanto lâaspetto fisico che quello psichico dellâindividuo, e poichè tali due aspetti sono stati fra loro alternativamente considerati dal legislatore (attraverso lâuso della disgiuntiva âoâ), se ne può desumere che, unitario dovendo essere il concetto di malattia e considerato che non può evocarsi una alterazione âanatomicaâ della mente, lâunica alterazione che è possibile immaginare, come comune ai due accennati aspetti, è proprio â" e soltanto â" quella funzionale. Dâaltra parte, il concetto stesso di âdurataâ della malattia - sulla cui base è parametrata la procedibilità e la gravità del reato - non può che confermare una propensione al recepimento normativo della nozione âfunzionalisticaâ della malattia, del tutto in linea con i tradizionali approdi definitori cui è pervenuta, anche se con varietà di accenti, la medicina legale.

A tale impostazione mostra, dâaltra parte, di aderire anche un significativo filone di giurisprudenza di questa Corte, attento a ricondurre il concetto di âmalattiaâ nellâambito di un paradigma di offensività strutturalmente coeso con la nozione scientifica del concetto stesso, secondo la dichiarata intentio legis fatta palese dal Guardasigilli, nella richiamata Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, ma poi âtraditaâ nel contenuto definitorio trasfuso in quel documento e supinamente recepito dalla giurisprudenza prevalente.

Una prima, sensibile innovazione interpretativa rispetto alla tesi tradizionale è stata, infatti, offerta dalla sentenza Sez. IV, 14 novembre 1996, n. 10643, P.C. in proc. Francolini, ove si è affermato che il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, lâadattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte. Deriva da ciò â" ha concluso la pronuncia â" che non costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità.

In linea con simili affermazioni si collocano anche Sez. V, 15 ottobre 1998, n. 714, Rocca, Sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 3448, Perna, e la più recente sentenza Cass., Sez. IV, 19 marzo 2008, n. 17505, Pagnani, la quale, allâesito di un percorso ricostruttivo delle diverse opinioni misuratesi sul tema, ha anchâessa conclusivamente ribadito che, ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia giuridicamente rilevante non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono in realtà anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dellâorganismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.

Accedendo, dunque, ad una impostazione per così dire âfunzionalisticaâ del concetto di malattia, se ne devono trarre i necessari riverberi anche per ciò che attiene allâelemento soggettivo del delitto di cui allâart. 582 cod. pen., giacchè, se si ritiene che non possa integrare il reato la lesione che coincida, come evento causalmente derivato, in una mera alterazione anatomica senza alcuna apprezzabile menomazione funzionale dellâorganismo, se ne deve dedurre che lâelemento psicologico non potrà non proiettarsi a âcoprireâ anche la conseguenza âfunzionaleâ che dalla condotta illecita è derivata. Per la verità, la giurisprudenza di questa Corte si è mostrata propensa a ritenere che per la sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali non è necessario che la volontà dellâagente sia diretta alla produzione di conseguenze lesive, essendo sufficiente lâintenzione di infliggere allâaltrui persona una violenza fisica ; basta quindi â" secondo tale impostazione â" il dolo generico, che deve reputarsi sussistere â" sia pure nella forma eventuale â" anche in ipotesi di azione commessa ioci causa allorchè lâagente abbia previsto come probabile (e quindi ne abbia accettata la verificazione concreta) lâevento lesivo (cfr., ex multis, Cass, Sez. I, 7 giugno 1996, n. 6773, P.M. in proc. Poma; Sez. VI, 13 ottobre 1989, n.3103, Lavera; Sez. V, 25 novembre 1986, n. 3038/87, Zito; Sez. V, 12 aprile 1983, n. 4419, Negovetich). Discende, poi, da tale orientamento la tesi della identità del dolo delle lesioni volontarie rispetto a quello delle percosse (Cass., Sez. V, 12 ottobre 1983, n. 9448, Ferrario; Sez. V, 3 febbraio 1984, n. 1564, Dal Pozzo).

Anche a voler prescindere dalla dubbia condivisibilità teorica di siffatta ricostruzione dellâelemento soggettivo del reato di lesioni volontarie, resta il fatto che essa oblitera un dato normativo di ineludibile risalto, quale è quello rappresentato dal fatto che lâevento naturalistico del delitto di cui allâart. 582 cod. pen. si compone di un frammento âdefinitorioâ â" la lesione â" che si specifica in un altro evento che dal primo deriva: appunto, la malattia, a sua volta da intendersi nel senso che si è dianzi delineato. Se, dunque, si cagiona sul derma dellâindividuo una soluzione di continuo che può integrare la nozione di âlesioneâ, ciò è ancora in conferente, sul versante del trattamento medico-chirurgico, agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione funzionale dellâorganismo. Pensare che questa âconseguenzaâ sia estranea alla sfera dellâelemento psicologico, equivale ad estrapolare dallâevento del reato un solo elemento definitorio, frantumandone, arbitrariamente, lâunitarietà che ad esso ha ritenuto di imprimere il legislatore. Sotto questo profilo, dunque, una diversa interpretazione non solo appare inaccettabile da un punto di vista di disamina âstrutturaleâ della fattispecie â" giacchè la malattia finirebbe per atteggiarsi alla stregua di una âeccentricaâ condizione obiettiva di punibilità â" ma anche in grave frizione con il principio di colpevolezza, sancito dallâart. 27, primo comma, della Costituzione, per il quale â" secondo la costante interpretazione ad esso data dalla Corte costituzionale (v. da ultimo, la sentenza n. 322 del 2007 e le altre ivi richiamate) â" è postulato un coefficiente di partecipazione psichica del soggetto al fatto, rappresentato quantomeno dalla colpa, in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica, fra i quali non può non essere annoverata proprio la âmalattiaâ.

9. â" Alla stregua dei riferiti rilievi è dunque possibile trarre alcune conclusioni. Una prima considerazione, che appare per molti aspetti dirimente agli specifici fini che qui interessano, riguarda le peculiarità che caratterizzano, rispetto alla attività sanitaria in genere, lâintervento medico-chirurgico realizzato per fini terapeutici. In questâultimo frangente, infatti, la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo âprossimoâ, quale può essere, in ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico-scientifico, dellâatto operatorio in sè e per sè considerato, quanto â" e soprattutto â" per realizzare un beneficio per la salute del paziente. Eâ questâultimo, infatti, il vero bene da preservare; ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale alla legittimazione dellâatto medico. Lâatto operatorio in sè, dunque, rappresenta solo una âporzioneâ della condotta terapeutica, giacchè essa, anche se ha preso avvio con quellâatto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti âconclusiviâ che dallâintervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente che a quellâatto si è â" di regola volontariamente - sottoposto.

Ecco già, dunque, un primo approdo. Le âconseguenzeâ dellâintervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dellâordinamento, non potranno coincidere con lâatto operatorio in sè e con le âlesioniâ che esso ânaturalisticamenteâ comporta, ma con gli esiti che quellâintervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute. Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere âchirurgicamenteâ intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento âcoattoâ; sibbene, proprio perchè la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dellâobiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dellâagere, in rapporto, anche, alle regole dellâarte. Eâ, quindi, in questo contesto che andrà verificato lâesito, fausto o infausto, dellâintervento e quindi parametrato ad esso il concetto di âmalattiaâ di cui si è detto. Eâ ben vero, a questo riguardo, che la dottrina ha puntualmente evidenziato le difficoltà che - a cagione della pluralità di considerazioni, di ordine clinico e di altro genere, che tale giudizio comporta - possono compromettere una valutazione certa e obiettiva in ordine ai risultati scaturiti, per la salute del paziente, dallâintervento medico-chirurgico. Ma si tratta di rilevi che, pur se non trascurabili, pertengono ad aspetti di merito che vanno affrontati e risolti nella competente sede.

Pertanto, ove lâintervento chirurgico sia stato eseguito lege artis , e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dallâatto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacchè lâatto, pur se âanatomicamenteâ lesivo, non soltanto non ha provocato â" nel quadro generale della âsaluteâ del paziente â" una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto. Dunque, e per concludere sul punto, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui allâart. 582 cod. pen, proprio per difetto del relativo âeventoâ. In tale ipotesi, che è quella che ricorre nella specie, lâeventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale.

Proprio sul versante della âopinabilitàâ della valutazione dei risultati conseguiti dallâintervento chirurgico effettuato per fini terapeutici, una parte significativa della dottrina ha fatto leva per desumere come il difetto del consenso informato allo specifico atto operatorio eseguito possa, in fin dei conti, far ritenere che il concetto stesso di âsaluteâ e di esito più o meno fausto del trattamento chirurgico dovrebbe necessariamente postulare anche lâapprezzamento e la scelta consapevole dello stesso paziente: il quale ben può avere, della propria salute, una opinio affatto diversa da quella del medico e che, come tale, deve essere â"trattandosi di diritto inviolabile della persona â" adeguatamente cautelata e rispettata.

Il rilievo coglie senzâaltro nel segno, ma soltanto in una (auspicabile) prospettiva de iure condendo. Sul piano del fatto tipico descritto dallâart. 582 cod. pen., infatti, il concetto di malattia â" e di tutela della salute â" non può che ricevere una lettura âobiettivaâ, quale è quella che deriva dai dettami della scienza medica, che necessariamente prescinde dai diversi parametri di apprezzamento della eventuale parte offesa. Eâ evidente, comunque, che per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente, ragguagliato non soltanto alle regole proprie della scienza medica, ma anche alle alternative possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di volontà positivamente o indirettamente espresse dal paziente: ad evitare â" quindi â" che possa essere soltanto la âmonologanteâ scelta del medico ad orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire, negligendo ciò che il paziente abbia potuto indicare al riguardo.

Ove, invece, lâesito dellâintervento non sia stato fausto, nei sensi dianzi delineati, la condotta del sanitario, avendo cagionato una âmalattiaâ, realizzerà un fatto conforme al tipo: e rispetto ad essa potrà dunque operarsi lo scrutinio penale, nella ipotesi in cui, difettando il consenso informato, lâatto medico sia fuoriuscito dalla innanzi evidenziata âcopertura costituzionaleâ. Ciò non toglie, peraltro, che, nellâambito della imputazione del fatto a titolo soggettivo â" trattandosi pur sempre di condotta volta a fini terapeutici â" accanto a quella logica incoerenza di siffatto atteggiamento psicologico con il dolo delle lesioni di cui allâart. 582 cod. pen., già posta in luce dalla prevalente dottrina e dai più recenti approdi giurisprudenziali di questa Corte potranno assumere un particolare risalto le figure di colpa impropria, nelle ipotesi in cui â" a seconda dei casi e delle varianti che può assumere il âvizioâ del consenso informato â" si possa configurare un errore sulla esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo, ovvero allorchè i limiti della scriminante vengano superati, sempre a causa di un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa (artt. 55 e 59, quarto comma, cod. pen.).

10. - Può quindi concludersi nel senso che, ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dallâintervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui allâart. 582 cod. pen., che sotto quello del reato di violenza privata, di cui allâart. 610 cod. pen.

Alla stregua di tali rilievi la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008.

Da: Mel17/12/2009 10:56:34
Ragazzi lasciamo lavorare chi ne capisce...non iniziamo già a chiedere soluzioni dopo 10 minuti

Da: peste8117/12/2009 10:58:21
Traccia amministrativo

il comune indice una gara per lâaggiudicazione dellâappalto per la costruzione e gestione degli impianti di illuminazione nel territorio comunale, provvedendo alla pubblicazione del bando.
A seguito della valutazione delle successive offerte presentate dai concorrenti, il comune aggiudica provvisoriamente lâappalto alla ditta tizia srl, e successivamente comunica lâaggiudicazione definitiva.
Prima, tuttavia, di procedere alla stipula del contratto il comune verifica che non sussisteva la disponibilità di fondi già da prima dellâaggiudicazione provvisoria, sicchè ritenendo che non avrebbe dovuto procedere alla indizione della gara, agendo in autotutela, con delibera n.10 del 30/10/2009 annulla gli atti della gara con comunicazione allâaggiudicataria di non potersi addivenire alla stipula del contratto.
La ditta tizia srl, pertanto si reca da un legale il quale, ricevuto mandato, notifica ricorso con conseguente deposito dinnanzi al tar di x con il quale impugna lâatto di annullamento della gara gara ed il diniego di stipula del contratto, di cui alla delibera comunale del 30/10/2009 e proponendo altresì domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale.
Il candidato, assunte le vesti del legale del comune, rediga memoria di costituzione in giudizio approntando gli istituti processuali e sostanziali coinvolti.

Incarico professionale â" revoca â" mancanza di fondi â" indennizzo â" sussistenza
Il professionista che riceve un incarico dalla P.A., successivamente revocato per mancanza di fondi, deve essere indennizzato.


T.A.R.
Puglia â" Lecce
Sezione II
Sentenza 19 maggio 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, II Sezione di Lecce, composto dai signori Magistrati:


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 89/2007, proposto da C. P., rappresentato e difeso dall'avv. Giorgio Serafino, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Lecce, Via A. De Lucrezi, 5,
contro
Comune di K., in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Alessandro Maggiore, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Lecce, Via Pozzuolo, 9,
per l'accertamento, previa adozione di provvedimenti cautelari,
del diritto del ricorrente di percepire dall'Amministrazione intimata l'indennizzo ex art. 21 quinquies della L. n. 241/1990, in relazione alla revoca degli incarichi di direzione lavori e di coordinamento in fase di esecuzione, conferiti all'arch. P. con deliberazioni di G.M. n. 547/1991, n. 597/1991, n. 113/1999 e n. 80/2002.
Visto il ricorso, con i relativi allegati, e tutti gli atti di causa;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune intimato;
Vista la domanda cautelare proposta unitamente al ricorso;
Vista l'ordinanza 1.2.2007, n. 123, con la quale è stata disposta istruttoria;
Uditi alla camera di consiglio del 14 febbraio 2007, il relatore, Referendario Tommaso Capitanio, e, per le parti costituite, gli avv. Serafino e Maggiore.
Considerato che nel ricorso sono dedotti i seguenti motivi:
- violazione dell'art. 21 quinquies della L. n. 241/1990.
Considerato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.
L'arch. P. adisce il TAR al fine di conseguire la condanna del Comune di K. a corrispondergli l'indennizzo di cui al terzo periodo dell'art. 21-quinquies, comma 1, della L. n. 241/1990, avendo l'Amministrazione, con deliberazione di G.M. n. 49 del 13.3.2006, stabilito di revocare gli incarichi professionali affidati a suo tempo al ricorrente (con le deliberazioni in epigrafe) nell'ambito dell'attività di progettazione e realizzazione di una piscina comunale. Per inciso, la revoca è stata motivata sia con l'indisponibilità di fondi per retribuire un professionista esterno, sia con la contestuale disponibilità di due tecnici comunali ad assolvere agli incarichi di direzione lavori afferenti il progetto da ultimo approvato dal civico ente.
Il ricorrente, dopo aver ricostruito le complesse vicende relative al tormentato iter che ha caratterizzato la progettazione dellâopera pubblica suindicata, sostiene di aver diritto al predetto indennizzo (che quantifica in â 94.139,96), non contestando la sussistenza delle ragioni che hanno indotto il Comune a revocare gli incarichi. In sostanza, viene proposta una domanda indennitaria "secca", svincolata cioè dalla contestazione del provvedimento di revoca.
Si è costituita l'Amministrazione, eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che la controversia attiene alla revoca di incarichi professionali, e chiedendo per il resto il rigetto del ricorso o, in via subordinata, la rideterminazione dell'indennizzo quantificato dal ricorrente (che viene ritenuto eccessivo).
Con l'ordinanza in epigrafe è stata disposta istruttoria, al fine di acquisire le convenzioni eventualmente stipulate fra le parti in esecuzione delle deliberazioni oggetto di revoca.
L'Amministrazione ha trasmesso copia delle deliberazioni predette, alle quali sono allegate:
copia della convenzione stipulata in attuazione delle deliberazioni nn. 547/1991 e 597/1991;
bozze di convenzioni allegate alle deliberazioni nn. 113/1999 e 80/2002, che non risultano sottoscritte dalle parti.
Ciò premesso in punto di fatto, il Tribunale ritiene che il ricorso meriti accoglimento - nei limiti che si preciseranno nel prosieguo - il che impone di esaminare l'eccezione di difetto di giurisdizione.
L'eccezione è infondata, in quanto:
in generale, la revoca è un provvedimento amministrativo, di secondo grado, che l'Amministrazione adotta per eliminare dal mondo giuridico, sia pure con effetto ex nunc, un proprio precedente atto, per cui, in base ai consueti canoni di riparto, dell'impugnazione della revoca deve conoscere il G.A., trattandosi dell'esercizio (anche se "in negativo") del medesimo potere esercitato in sede di adozione dell'atto revocato;
il Legislatore della L. n. 15/2005, codificando l'istituto in parola, ha aggiunto due ulteriori tasselli al quadro ricostruttivo appena descritto, prevedendo da un lato l'indennizzo in favore del destinatario del provvedimento di revoca, dall'altro la giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie afferenti la determinazione e la corresponsione dell'indennizzo stesso;
peraltro, sempre in base ai consueti canoni di riparto nonché della giurisprudenza consolidata in tema di giurisdizione sulle controversie relative alla fase di esecuzione dei contratti pubblici, poteva residuare nell'interprete qualche dubbio circa l'ascrivibilità alla giurisdizione (esclusiva) del G.A. delle controversie inerenti la revoca di provvedimenti ai quali "accede" un contratto (come è accaduto nel caso di specie in relazione agli incarichi affidati all'arch. P. in esecuzione delle deliberazioni di G.M. n. 547/1991 e n. 597/1991, le quali sono state "doppiate" dal disciplinare d'incarico, sottoscritto dalle parti nel 1995, ai sensi dell'allora vigente art. 32 della L.R. n. 25/1985 - vedasi documentazione depositata dal Comune in ottemperanza all'ordinanza istruttoria);
questo dubbio, però, è definitivamente fugato per effetto della disposizione di cui al comma 1-bis dell'art. 21-quinquies, introdotta nelle more del giudizio dal D.L. n. 7/2007 (convertito in L. n. 40/2007 - cfr. art. 13, comma 8-duodevicies della legge di conversione), la quale prevede che "Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico". La disposizione da ultimo citata conferma che la presente controversia è attribuita interamente alla giurisdizione esclusiva del G.A.
In effetti, tenuto conto della tecnica redazionale utilizzata dal Legislatore del 2007, il quale è intervenuto solo per disciplinare le modalità di determinazione dell'indennizzo allorquando la revoca incide su rapporti negoziali, dando con ciò per scontato che anche questa particolare species di revoca è inclusa nel novero della disposizione di cui al 1° comma (il quale prevede che "1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo"), ne consegue che la presente controversia è interamente attratta alla giurisdizione del G.A., e ciò in quanto il Comune ha revocato precedenti provvedimenti amministrativi recanti il conferimento degli incarichi professionali al ricorrente.
Per quanto concerne i presupposti per l'insorgere del diritto all'indennizzo, il Comune di K. eccepisce che i provvedimenti odiernamente revocati non sarebbero ad efficacia durevole, ma l'eccezione non appare fondata, in quanto è evidente che il Legislatore ha voluto riferirsi alla efficacia durevole del rapporto che si instaura a seguito dell'adozione del provvedimento (il che è confermato dalla norma di cui al comma 1-bis, la quale conferma che l'indennizzo è dovuto anche nel caso di revoca di provvedimenti ad efficacia istantanea che incida su rapporti negoziali).
Nel caso di specie, i provvedimenti revocati incidevano su rapporti negoziali, per cui l'indennizzo è dovuto.
Ex officio va poi brevemente esaminata la questione della tempestività della domanda, atteso che la stessa è stata proposta svincolata da una domanda impugnatoria (per cui non trovano applicazione i principi in tema di c.d. pregiudiziale amministrativa) e che l'art. 21-quinquies nulla dispone al riguardo.
In applicazione dei principi generali, deve essere osservato il termine ordinario di prescrizione di cui all'art. 2946 c.c., il che significa che la domanda dell'arch. P. è tempestiva.
Passando, invece, alla determinazione del quantum, si devono condividere in parte le eccezioni del Comune a proposito della quantificazione dell'indennizzo operata dal ricorrente, anche se, allo stesso tempo, non si può convenire con la difesa dell'Amministrazione allorquando sostiene che l'indennizzo dovrebbe essere meramente simbolico (addirittura, nel corso della discussione orale è stata indicata la misura di 1 Eurocent), anche in considerazione del fatto che i progetti a suo tempo redatti dal ricorrente sarebbero stati sbagliati e avrebbero costituito la causa dell'enorme ritardo nella definizione dell'iter procedurale per la realizzazione della piscina: quest'ultima affermazione, infatti, non trova alcun riscontro documentale negli atti del giudizio.
Si deve invece affermare, in base alla disposizione di cui all'art. 21-quinquies, comma 1-bis, che l'indennizzo comprende solo il danno emergente e non anche il lucro cessante e/o le altre utilità patrimonialmente valutabili che il ricorrente avrebbe ritratto dall'esecuzione degli incarichi in argomento (ad esempio, chances di guadagno legate alla valorizzazione del proprio curriculum professionale), per cui all'arch. P. non compete, in primo luogo, l'importo dell'onorario relativo alla direzione degli appaltandi lavori di costruzione della piscina, sulla base del progetto da ultimo approvato dal Comune (quantificati dal ricorrente in â 54.000,00), in quanto non è detto che il ricorrente sarebbe stato chiamato a svolgere tale incarico e, comunque, si tratta di un evento futuro, che non può contribuire a determinare la misura del danno emergente.
Tenuto poi conto della disposizione di cui al citato comma 1-bis dell'art. 21-quinquies, e tenuto altresì conto del fatto che la revoca ha effetto ex nunc (per cui sono estranee al presente giudizio, nonché alla giurisdizione del giudice amministrativo, eventuali questioni inerenti il mancato pagamento in favore dell'arch. P. dei compensi per le prestazioni professionali già eseguite in virtù degli affidamenti di che trattasi - vedasi ad esempio la parcella in data 18.6.2004), il ricorrente ha diritto di essere indennizzato nei limiti previsti dalla normativa speciale di cui alla L. n. 143/1949 e s.m.i. (recante "Approvazione della tariffa professionale degli ingegneri ed architetti"), la quale all'art. 18 disciplina espressamente la materia.
Per inciso, non avendo il ricorrente concorso in alcun modo all'adozione degli atti revocati e non potendosi certo supporre che egli fosse a conoscenza del fatto che sarebbero mancati i fondi necessari alla sua retribuzione per le attività ancora da svolgersi e quindi della contrarietà degli atti in parola all'interesse pubblico, l'indennizzo va riconosciuto in misura piena (questo in relazione al disposto di cui al comma 1-bis).
Il quantum va determinato in base alle disposizioni di cui alla citata L. n. 143/1949 e s.m.i., nonché delle determinazioni del Consiglio dell'Ordine di Lecce, in quanto tale normativa integra ex lege l'art. 21-quinquies, in base al broccardo lex specialis derogat legi generali.
In effetti, la L. n. 241/1990 detta un criterio di carattere generale, valido per qualsiasi tipo di revoca, che però non quantifica esattamente il danno emergente, lasciando la relativa determinazione al giudice.
Nel caso degli architetti e degli ingegneri, tale valutazione è stata compiuta dal Legislatore, il quale ha stabilito quale è il pregiudizio patrimoniale che un professionista subisce in caso di revoca, totale o parziale, di un incarico, sia esso di progettazione, di direzione lavori, o un altro previsto dalla L. n. 143/1949.
Pertanto, essendo disponibile un parametro legale a cui il giudice può legittimamente rifarsi nella quantificazione dellâindennizzo, nel caso di specie il Comune di K. dovrà corrispondere al ricorrente la somma di â 13.979,86, risultante, per la voce "Direzione lavori e sicurezza" (le prestazioni, cioè, oggetto di revoca), dalla parcella presentata dallâarch. P. in data 20.10.2006 e validata dal Consiglio dellâOrdine.
Per cui lâindennizzo spettante allâarch. P. va determinato in â 13.979,86, oltre a interessi legali decorrenti fino alla data di effettivo pagamento.
In ragione di quanto precede, il ricorso va accolto in parte, nei sensi di cui in motivazione.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio fra le parti.
Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21.7.2000, n. 205.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione Seconda di Lecce, accoglie in parte il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.
Così deciso in Lecce, in camera di consiglio, il 14 febbraio 2007 e l'11 aprile 2007.
Dott. Antonio Cavallari - Presidente
Dott. Tommaso Capitanio - Estensore
Pubblicata il 19 maggio 2007.

Da: lupen17/12/2009 10:59:13
raga appello di penale chiedete l'assoluzione perchè il fatto nn sussiste....la sentenza è S.U.21 gennaio 2009, n. 2437

Da: caio17/12/2009 10:59:42
ma quale danno da vacanza rovinata!!!! ragazzi a zappare dovete andare!!!!

Da: avv. 7817/12/2009 11:00:02
Non postate sentenza per intero, è sufficiente la massima!

Da: ila17/12/2009 11:00:50
non si sa nulla?penale?civile e' stata confermata la sentenza?

Da: urgente17/12/2009 11:01:06
domanda scema ma ho bisogno di sapere da "esterna aiutante"...ma le tracce sono uguali ovunque?? cioè quella di civile è anche x lecce?? e quanto scritto da  PESTE81  è il parere svolto? ragazzi aiutatemi è urgente

Da: Bob17/12/2009 11:02:11
Confermo traccia di civile

Da: Gax17/12/2009 11:02:44
atto di civile: atto di citazione.
attenzione valore della controversia non risulta dalla traccia. potrebbe essere atto di citazione competente il Giudice di Pace.
il valore del giudice di pace è di 5.000,00.... (dalla riforma) quanto costa una vacanza sul suolo italiano per 2 per 9 giorni? più di 5000,00?

Da: aly17/12/2009 11:03:36
si sn uguali per tutti

Da: Pos17/12/2009 11:04:02
le tracce sono uguali ovunque.
non è il parere ma la sentenza a cui bisogna far riferimento

Da: xxxxx17/12/2009 11:04:18
non mettete le sentenze ma dateci gli atti?????

Da: x urgente17/12/2009 11:04:41
E' la sentenza...

Da: mari 8517/12/2009 11:05:09
x urgente

si le tracce sn uguali ovunque
e qllo d peste nn e' il parere svolto.Bensi' una sentenza.
Hanno da poco pubblic le tracce,da' loro il tmp x poter svilupp i pareri!

Da: atto di civile17/12/2009 11:05:55
e se fosse un ricorso ex art. 400?

Da: dada17/12/2009 11:06:01
la massima di penale?

Da: nunzia17/12/2009 11:06:35
atto civile
Cass. Civ. Sez. III del 20.12.2007 n. 26958 (art. 1463 c.c.)
buona fortuna

Da: nunzia17/12/2009 11:06:39
atto civile
Cass. Civ. Sez. III del 20.12.2007 n. 26958 (art. 1463 c.c.)
buona fortuna

Da: nunzia17/12/2009 11:06:42
atto civile
Cass. Civ. Sez. III del 20.12.2007 n. 26958 (art. 1463 c.c.)
buona fortuna

Da: anonimo17/12/2009 11:06:42
sono uguali anche per lecce

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